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martedì 18 dicembre 2012

La Costituzione più bella del mondo!


 Quello che stiamo attraversando è davvero un momento molto difficile.
Non sono solo i problemi economici, che pure sono gravi, a rendere il clima che si respira insopportabile. E’ lo stato confusionale del Paese la malattia grave, da cui è difficile uscire se non si riesce a trovare il necessario equilibrio.
Purtroppo la politica tutta, come vado dicendo da tanto tempo, ha smarrito la sua strada.
Cancellati i valori di riferimento, liquefatti  partiti, calpestata la Costituzione,ci siamo scoperti un popolo allo sbando.
Quel che è peggio è che nel Paese dilaga la corruzione e non si intravede una via d’uscita a tutto questo dilagare di marciume.
 Si ha la sensazione di vivere in balia delle onde,  con un orizzonte offuscato dal proliferare di movimenti che nascono fondati sul nulla.
Tutti questi presunti leader appena sentono minacciata la propria poltrona non perdono tempo a fare scissioni e poi movimenti su movimenti.
 Se si nasce così, con questi presupposti pare fin troppo ovvio che è impossibile sperare che dietro ad ogni sigla vi sia un progetto per il Paese.
Tutti dicono di avere un programma, ognuno programma quel che gli pare, così a caso, secondo il proprio o i propri desideri, senza avere la benché minima idea su come poi procedere per realizzarli e soprattutto con chi.
La destra si sta frantumando in mille rivoli, il cosiddetto centro ancora non sa come sarà e con chi e la sinistra, anch’essa in stato confusionale avanzato, con un PD che non si sa più che cos’è, ammesso che si sia mai saputo, e nel mezzo tantissimi cittadini e cittadine che vorrebbero provare a costruire quello che è stato distrutto, ma che girano a vuoto senza trovare sponde soddisfacenti.
Purtroppo non è facile e non lo è perché in questo Paese  nessuno vuole sporcarsi le mani, nessuno che ha la capacità di unire veramente, mettendo di lato l’interesse personale. Così facendo stiamo veramente rischiando di perdere la democrazia.
Mi domando: come si fa ad appoggiare un’eventuale candidatura di Monti?
Possibile che non ci si rende conto che la sola discesa in campo di un tecnico nominato senatore a vita, quindi solo per questo non candidabile, sarebbe un disastro per il Paese?
Eppure vedo, con  enorme meraviglia, che c’è chi fino ad ieri criticava le sue scelte oggi osannarle ed addirittura sperare che possa continuare la sua opera ( di distruzione dico io). C’è un Paese in affanno ed è ovvio che la colpa è di chi ha governato: ieri Berlusconi e la destra, oggi Monti insieme alla destra ed al PD.
E già il PD, quanti errori, quanti disastri per rincorrere il centro affollato dei cosiddetti moderati, ma moderati di che?
Possibile che nessuno ha mai capito i danni che stavano producendo ed hanno prodotto e che , inevitabilmente, ci saranno ancora  se Monti dovesse scendere in campo?
Questa classe dirigente purtroppo non è lungimirante, non lo è mai stata, fin dai tempi della bicamerale di D’Alema, e se non si hanno queste qualità  sarebbe meglio gettare la spugna. Ovviamente loro non ci pensano nemmeno. Sono tutti derogati e quindi ricandidati con il porcellum, che, come sappiamo tutti, gli permetterà di essere rieletti.
Povero Paese, nei guai fino al collo,  mentre ognuno sta giocando per se senza minimamente pensare di fare un passo indietro, oggi necessario ed auspicabile per salvarci.
Ieri sera Roberto Benigni ci ha dato una grande lezione sulla nostra Bellissima Costituzione così bistrattata e vista con  fastidio da tutti questi politici ignoranti e rozzi.
Una lezione bellissima che dovrebbe fare riflettere tutti gli Italiani e convincerli della necessità di partecipare tutti alla vita politica e sociale e, soprattutto, di farlo per l’interesse generale e non solo e soltanto per conservare potere e costruire carriere politiche solo perché allettati da facili guadagni.
Siamo arrivati al punto di non ritorno, cambiare di può e si deve se vogliamo salvarci, ma cerchiamo di unirci tutti attorno ad un progetto politico reale e realizzabile e facciamolo avendo come obiettivo il rispetto, la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione, che è anche la più bella del mondo.
Nella Toscano
Palermo 18.12.2012

martedì 18 settembre 2012

Il Treno delle Donne in Difesa della Costituzione

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Comunicato
 Giorno 20 Settembre a Villa Niscemi – Sala delle Carrozze-, ore 16,30 si svolgerà il convegno promosso dalla Associazione Treno delle Donne:  "Riforme Costituzionali? Parliamone Insieme", in difesa della Costituzione.
L'obiettivo è quello di  informare i cittadini sui contenuti delle riforme Costituzionali che il Parlamento sta attuando e, con l'obiettivo di aprire e tenere vivo il dibattito nel Paese sia sul significato ed il valore della nostra Costituzione, sia sulle modifiche in corso di discussione nelle segrete stanze delle forze politico-parlamentari nell’ignoranza dei più.
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha conferito al progetto " La Costituzione Ritrovata", una propria medaglia di rappresentanza.

Programma:
Saluto del Sindaco di Palermo Prof. Leoluca Orlando
 RELATORI:
 Arch. Sebastiana Toscano, pres. Dell’Associazione TDC
 Prof.ssa Esmeralda Bucalo, Università di Giurisprudenza di Palermo
 Prof. Vincenzo Provenzano, Università di Economia di Palermo
 Dott. Domenico De Simone, Economista
 INTERVENTI:
 Avv. Salvo Raiti, pres. Associazione Italiani per l’Europa
 Saluto dell’ANPI Palermo: Giuseppina Vacca
 Pina Maisano Grassi, pres. Associazione Addio Pizzo
 Bice Mortillaro, responsabile U.D.I.
 COORDINA IL DIBATTITO: DOTT.SSA ELVIRA GRILLI
 Sono invitati a partecipare: Semplici cittadini/e, CGIL, FIOM, CISL, UIL, Associazioni
 Femminili, Associazioni di Categoria, Associazioni per la difesa della Costituzione e quanti
 hanno a cuore la difesa della Costituzione.
 Comunicazione: Dott.ssa Giorgia Butera

L’Associazione "Treno Delle Donne in Difesa della Costituzione" il 24 settembre 2011 ha già organizzato a Roma una manifestazione per circondare il Parlamento in difesa della nostra Costituzione. In occasione della medesima una delegazione di donne in rappresentanza dell’Associazione è stata ricevuta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

venerdì 10 agosto 2012

Lettera aperta a Rosario Crocetta!



10.08.2012 ..

Caro Rosario, tramontata la possibilità di poterTi incontrare, visto che mi è stato negato l’appuntamento chiesto, e di dirTi quello che penso guardandoTi negli occhi, non mi resta che rivolgermi a Te con questa lettera aperta, perché voglio che tutti e non solo Tu conoscano i motivi de mio dissenso totale su questa svolta a 360 gradi  che hai compiuto, senza prima informare e confrontarti con chi ti ha sostenuto fin dal primo momento mettendoci la faccia, come ho fatto io.
Già solo questo la dice lunga su cosa intendi per partecipazione , democrazia e rispetto delle persone e, mi spiace dirlo, non è davvero coincidente con il mio pensiero, così come non lo è l’idea del leader carismatico che i tuoi collaboratori portano avanti con cieca e spasmodica insistenza.
Purtroppo per loro non è un di novello berlusconi quello di cui ha bisogno la Sicilia, tutt’altro.
Ti ho dato fiducia da subito, mi sono fidata delle testimonianze autorevoli del Proc. Grasso prima e del Dott. Morici dopo e della Tua storia di sindaco di Gela, che ha combattuto contro la mafia a viso aperto.
Ho creduto nella Tua voglia autentica di cambiare radicalmente la Sicilia, anche se non ho mai condiviso lo slogan inappropriato circa la rivoluzione già cominciata, e come vediamo, purtroppo, già miseramente infranto.
Certo mi sono illusa veramente che qualcosa potesse cambiare dopo il Tuo intervento a Palazzo Fatta, anche se molti dubbi sollevava la presenza silenziosa di certi tuoi compagni in sala, ma la speranza autentica e disperata che c’è in me ed in moltissimi/e cittadine/i di cambiare questa martoriata terra ha avuto il sopravvento ed ho continuato a lavorare per darti sostegno.
Cosa, ovviamente, non facile, perché molti non hanno mai condiviso la tua scelta di essere al contempo un dirigente del PD e leader della società civile, che, a Tuo dire, ti ha incoraggiato e proposto di scendere in campo.
Ho fatto leva su questo e sulla Tua storia per convincere ed in molti casi ci sono riuscita, soprattutto per la fiducia che molti/e hanno in me.
Per tutto questo oggi la tua scelta solitaria la sto vivendo come un autentico tradimento e  di più perché si consuma a nemmeno due giorni dopo avere proclamato solennemente e pubblicamente che non ti saresti mai alleato con nessuno: due giorni  hai già sottoscritto l’accordo con l’UDC, con quel D’Alia che fino a pochi giorni prima avevi attaccato e accusato  pubblicamente dal tuo gruppo. Mi pare davvero troppo!
Per me, per quanti la pensano come me,  non siamo pochi, è stata un’autentica doccia fredda e di più nel sentire la soddisfazione e poi l’appoggio del tuo partito. Una doccia fredda che, come è naturale che sia, ha delle conseguenze immediate.
Io, noi non possiamo continuare ad appoggiare una persona che si allea con un partito come l’UDC, che è quanto di più distante ci possa essere dal nostro sentire, mi dispiace davvero che hai voluto bruciare le tappe di un percorso, che poteva essere vincente se solo avessi avuto la lungimiranza di percorrerlo fino in fondo, senza ascoltare le sirene di chi continua a pensare alla sommatoria dei voti, senza preoccuparsi che la matematica prevede anche la sottrazione, che in questo caso sarà più numerosa dell’addizione, ci puoi contare.
Mi dispiace, hai preferito  scegliere di andare a braccetto con chi è l’artefice del disastro siciliano e dispiace di più sentirti affermare che quel D’Alia ha un programma che è uguale al Tuo. Certo che di miracoli in questa terra si sente parlare tanto, peccato però che di positive conseguenze non si vede mai nulla. Insomma il Gattopardo la fa sempre da padrone!
Niente di nuovo sotto il sole, quindi, tutto vecchio, anzi vecchissimo con i soliti noti alla ricerca spasmodica di potere e poltrone, che non si danno la minima preoccupazione per quello che sta avvenendo intorno, per i tanti drammi che si sanno consumando nel nostro Paese.
Continua  a ripetersi il solito copione senza però tenere conto che i siciliani e gli Italiani non ci stiamo più!!!!!
E’ inutile dire che non è più possibile accordarti la fiducia, che generosamente ti avevo , avevamo concesso, soprattutto le donne, perché sappiamo perfettamente che con partiti maschilisti che ti sostengono non c’è davvero speranza che possa cambiare qualcosa e che possano attuarsi le pari opportunità.
Ma c’è una cosa su tutte che non posso perdonare: la strumentalizzazione della mia persona, su questo proprio non posso sorvolare. Mi spiace!
Nella Toscano
Pres. Ass.ne TDC

martedì 7 agosto 2012

Carlo Kaneba - Sicilia (30-04-2009)

Il principio di sussidiarietà non è democratico né federale

di ENZO TRENTIN
Nel ventesimo secolo, per la prima volta nella storia, la democrazia è diventata uno standard globale. Non lasciamoci ingannare, in realtà lo standard non è stato attuato davvero in nessun luogo, eccezion fatta, forse, per la Svizzera, e la democrazia è continuamente schiacciata ovunque nel mondo. Tuttavia, fatte salve poche eccezioni di rilievo come l’Arabia Saudita e il Bhutan, ogni tipo di regime rivendica la propria legittimità democratica. E fanno ciò, perché sanno che la democrazia è diventata lo standard per la popolazione mondiale. Secondo Hans Herbert von Arnim, professore di diritto pubblico e teoria costituzionale all’Università di Seyer in Germania, i partiti politici che prendono le decisioni in questo sistema sono diventati istituzioni monolitiche. L’identificazione politica e la soddisfazione dei bisogni, che in una democrazia dovrebbe procedere dal basso verso l’alto – dal popolo al parlamento – è completamente nelle mani del leader dei partiti. Von Arnim biasima anche il sistema di finanziamento dei partiti, attraverso il quale i politici possono determinare personalmente quanto i loro partiti – associazioni private come qualsiasi altra – possono introitare attingendo dalle entrate fiscali. Sempre secondo Von Arnim non è sorprendente che i politici continuino ad ignorare la rivendicazione sempre crescente per la riforma del sistema politico, perché altrimenti verrebbe messa in discussione la loro comoda posizione di potere.
Nel paese di Arlecchino e Pulcinella politicanti e mezzi di comunicazione di massa [usati come distrazione di massa], controllati da potentati economico-politici e finanziati con le tasse dei cittadini, periodicamente magnificano l’adozione del principio di sussidiarietà come la soluzione di molte problematiche socio-politiche. Parallelamente non mancano di sproloquiare di federalismo: fiscale, solidale, sostenibile, demaniale etc. e volutamente si ignora che per il federalista coerente l’individuo rappresenta il livello più alto non il più basso. Offriamo un paio di tesi a sostegno di questo punto di vista:
- lo scopo dei politici è quello di minimizzare sofferenza e disordine, nella misura in cui questi siano attribuibili a circostanze sociali. Dato che la sofferenza viene sempre vissuta dagli individui e mai dai gruppi o da intere popolazioni come tali, è logico che l’individuo appaia come l’autorità politica più elevata.
- le decisioni politiche sono essenzialmente sempre scelte morali o giudizi di valore. Solo gli individui hanno una coscienza e la capacità di formulare un giudizio morale. I gruppi o le popolazioni come tali non hanno una coscienza. È quindi logico, anche da questa prospettiva, che l’individuo appaia come l’autorità più elevata.
Nonostante ciò i federalisti non sono egocentrici. Sanno che gli individui possono essere veri esseri umani, veri individui, solo all’interno del tessuto sociale. Le persone si uniscono ad altre persone proprio perché sono creature sociali. Gli individui formano delle piccole comunità di giustizia, all’interno delle quali vari problemi possono essere regolati democraticamente. Alcuni problemi non possono essere affrontati a livello di villaggio, di città, di valle o di regione. In questi casi le comunità più piccole si possono federare: si uniscono per formare una nuova, più grande comunità che è autorizzata ad affrontare questi problemi. Questo processo di federazione – definito anche come “contrattualismo” – può essere ripetuto finché si sono affrontati tutti i problemi al livello appropriato. Premesso ciò, il Federalismo è l’opposto della sussidiarietà. In una società federalista la delega arriva dagli stessi singoli cittadini. Anche i federalisti sostengono che vi è ingiustizia se i compiti non vengono delegati, in quanto gli uomini sono animali sociali e dipendono l’uno dall’altro. Nondimeno la sussidiarietà differisce fondamentalmente nello spirito dal principio del federalismo. Il federalismo comincia dall’individuo. La sussidiarietà emana dal potere che si trova al di sopra degli individui e che benevolmente crea lo spazio per le attività dei livelli più bassi e degli individui stessi.
L’idea federalista può essere facilmente connessa all’ideale democratico. Ma la connessione è anche più stretta di così: la democrazia diretta e il federalismo sono i due lati inseparabili della stessa medaglia totalmente democratica. Il concetto di sussidiarietà, invece, è del tutto inconciliabile con la piena democrazia, perché è basato su di un’autorità data a priori. Nella teoria della sussidiarietà il modello della Chiesa strutturato gerarchicamente viene trasposto nello Stato secolare.  Nel concetto federalista sono gli individui ad essere al livello più alto, cosicché sono gli individui che decidono che cosa è delegato e a quale livello. Per i fautori della sussidiarietà questo diritto di decidere è prerogativa dello Stato (che dal punto di vista della Chiesa è ancora subordinato ad un potere divino) e gli individui si ritrovano al livello più basso.
La Sussidiarietà è un concetto chiave nell’ideologia cristianodemocratica. L’idea di base è che i livelli più alti deleghino il maggior numero possibile di compiti ai livelli più bassi in modo da sollevare se stessi dal lavoro meno importante, che per lo più può essere fatto più efficientemente dai livelli più bassi. Un’ulteriore assunto è che i livelli più bassi, giù fino ai singoli individui, sono trattati ingiustamente se non c’è delega. Comunque l’iniziativa di delega è di tipo alto-basso. È il livello più alto che decide quanto spazio di manovra riceveranno i livelli più bassi e quando e se la loro libertà d’azione sarà annullata. Ciò è espresso anche dal termine stesso. Sussidiario significa riserva o ausiliario (come per i militari); i livelli più bassi sono effettivamente i soldati ausiliari dei livelli più alti.
Del resto la Chiesa Cattolica non ha mai amato la democrazia. Fino al ventesimo secolo inoltrato, i leader cattolici hanno difeso il concetto che lo status divino della Chiesa le desse il diritto e l’obbligo di essere coinvolta nel plasmare l’attività politica. In particolare, ci si aspettava che i politici democratici cristiani si attenessero alle direttive di Roma. Per esempio, Papa Pio X in «Fin dalla prima nostra enciclica» nel 1903 [ma vedasi anche la coeva Lettera apostolica: «Notre charge apostolique»], scrisse: «Nel rispondere alle proprie responsabilità la democrazia Cristiana ha il più profondo dovere di dipendenza dall’autorità religiosa ed è soggetta e deve obbedienza ai vescovi e a chiunque li rappresenti. Non è né diligenza encomiabile né sincera devozione intraprendere qualcosa che è veramente bello e buono, ma che non è stato approvato da un rappresentante autorizzato della Chiesa.»
Non bastasse, nel libro: «Federalismo e secessione» gli autori [ambedue costituzionalisti, il primo di estrazione cattolica, il secondo marxista] sostengono:
Gianfranco Miglio: «Io il principio di sussidiarietànon l’ho mai amato, ma siccome riscuote tanto favore, specialmente tra i tuoi amici amministratori regionali dell’Emilia e della Toscana, mi sono convinto che non si possa ignorare. Però dovrebbe essere ammesso soltanto per le nuove competenze.»
Augusto Barbera: «Il principio di sussidiarietà è stato formulato per la prima volta dai cattolici francesi perché corrisponde ad una concezione personalista e comunitaria. Jacques Delors, che prima di diventare socialista era stato segretario dei giovani democristiani, l’ha suggerito come principio-guida per la costruzione dell’Unione europea. Ed è stato inserito nel trattato di Maastricht, più che per riconoscere competenze agli Stati, per giustificare un assorbimento di competenze nella Comunità europea. Questa è un’ulteriore conferma della ambiguità del principio di sussidiarietà: è sempre possibile stravolgerne lo spirito. Esso può comportare sia il decentramento sia l’accentramento del potere.»
Democrazia diretta e federalismo, al contrario, si rinforzano l’un l’altro. Insieme formano una «democrazia forte» (Benjamin Barber, un americano teorico-politico forse più noto per il suo bestseller del 1996: «Jihad contro McWorld»). Nel 1884 in «Democrazia integrata», asserisce: «La nostra democrazia è un nonsenso»  Attualmente siamo lontani da una tale democrazia integrata. Il processo decisionale politico in genere si svolge all’infuori dell’influenza ed della conoscenza dei cittadini. Questo vale per quasi tutti gli Stati europei. Un sistema con un processo decisionale puramente parlamentare non è un sistema democratico. All’interno di un tale sistema la popolazione non può impedire l’introduzione di una legge indesiderata. In una democrazia autentica, in caso di dubbio, il popolo ha sempre l’ultima parola. Tuttavia, coloro che si oppongono alla democrazia diretta come al federalismo non si lasciano convincere da un principio così semplice. La loro resistenza alla democrazia diretta di solito non poggia su basi essenzialmente razionali. La loro opposizione all’idea della piena sovranità popolare deriva anche un istinto radicato in una profonda sfiducia nelle persone. Anche il suffragio universale e il diritto di voto alle donne ha dovuto far fronte a simili irrazionali resistenze.
Chi si oppone alla democrazia diretta, e dunque all’autentico federalismo, è convinto che gli esseri umani si lascino influenzare nel loro comportamento elettorale, essenzialmente da motivi egoistici o di ordine privato. Secondo questo concetto, le minoranze verrebbero spietatamente schiacciate dalle maggioranze. In una democrazia diretta, non si aspirerebbe in nessun caso a obiettivi più elevati o ad obiettivi di interesse genericamente umano. Una democrazia rappresentativa autorizza un’élite morale a prendere le decisioni. Quindi ci si aspetta da questa élite che riconosca gli interessi generali e che li serva.

Gli oppositori della democrazia diretta hanno dunque un concetto molto ben definito delle persone e della società. In sostanza, considerano la società come una giungla, come un nido di vipere, in cui innumerevoli interessi privati si scontrano tra di loro. Dunque gli oppositori adottano implicitamente una particolare teoria della motivazione, in base alla quale le persone sono mosse principalmente dall’interesse personale. Essi respingono le argomentazioni logiche in favore della democrazia diretta e anche le prove delle buone prassi in atto nei paesi dove esistono già da secoli sistemi di democrazia diretta, poiché dentro di loro reputano la persona media incapace e moralmente in difetto.
Prendiamo ad esempio i problemi «Not In My Back Yard» (NIMBY) («Non nel mio cortile») sono all’ordine del giorno. La maggior parte delle persone sono d’accordo sul bisogno di aeroporti, sulle questioni ecologiche, sugli alloggi per richiedenti asilo e per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi. Solo che le persone non vogliono questo tipo di servizi nel proprio cortile. Un servizio che in teoria tutti vogliono, ma che nessuno tollererebbe nelle proprie vicinanze, è considerato come un problema NIMBY. Normalmente il sito per tali servizi è imposto dal governo alla comunità locale, possibilmente accompagnato da una compensazione finanziaria o di altro tipo.
In Svizzera esiste una situazione interessante dove le comunità locali hanno diritto di veto sulla scelta dei siti di tali servizi (tramite una iniziativa popolare referendaria locale o un’assemblea pubblica). Nel 1993 venne chiesto ai cittadini di quattro villaggi quale sarebbe stata la loro reazione se fosse stato costruito un magazzino di stoccaggio di rifiuti radioattivi nel loro comune. Le quattro comunità erano state selezionate come i siti più adatti dal servizio geologico svizzero. Le risposte date non sarebbero state prive di importanza, perché era in procinto di essere presa una decisione sul sito, e il risultato dell’indagine doveva essere pubblicato prima che la decisione fosse annunciata. Il risultato fu che il 50,8% delle persone interpellate avrebbero accettato il magazzino, mentre il 44,9% si sarebbe opposto. Ciò che è da sottolineare è che, non appena fu proposto di offrire un compenso finanziario, il consenso crollò. Con una proposta di compenso annuale tra 2.500 e 7.500 Franchi Svizzeri (circa 1500-4.500 €) il consenso per il sito nucleare cadde dal 50,8% al 24,6%. La percentuale rimase invariata anche quando il compenso fu aumentato.
La ricerca dimostrò che la correttezza della procedura del processo decisionale svolgeva un ruolo cruciale nella potenziale accettabilità del sito. Le persone sembravano accettare il risultato molto più facilmente se avevano accettato anche il modo in cui la decisione era stata presa. Offrire un compenso finanziario cambiava radicalmente il modo in cui la decisione era presa. Negli USA si ebbero risultati analoghi quando si pensò di remunerare la donazione del sangue. Quando c’è un processo decisionale con diritto di veto democratico-diretto c’è un forte ricorso all’obiettività e al civismo delle persone. Se la questione viene legata ad un compenso economico le persone cominciano a sospettare di essere raggirate. L’appello non è più verso il loro senso civico e il messaggio implicito è che vengono viste come «amorali» che devono essere convinte da un incentivo finanziario esterno.
La questione, più in generale, è ben posta da Karl Popper che si chiedeva: «Non chi deve comandare, ma come  controllare chi comanda: è questo il problema della democrazia.» In fondo che cosa sappiamo noi e che cosa sa il popolo dell’errore, anzi del delitto di cui si renderà colpevole il governo da lui scelto? Per questo dovremmo riflettere su ciò che nessun politicante ha mai detto e sicuramente dirà mai a proposito di federalismo. Ovvero che le persone e le entità territoriali che intendono federarsi stipulano un contratto politico o di federazione, cioè definiscono e sottoscrivono le competenze che devono essere conferite alla Federazione e agli organi di governo locali e nazionali dalla maggioranza dei Cittadini aventi diritto voto, per assolvere il compito (i compiti) di garanzia su fatti specifici e limitati, delegati volontariamente e spontaneamente dai “contraenti”. Questo viene conseguito senza che il Cittadino rinunci alla parte maggiore della propria Sovranità, come avviene nel nostro paese allorché un elettore deposita la scheda nell’urna e delega i tal modo i propri eletti a esercitare il potere per un quinquennio al di fuori e al di sopra del controllo dei Cittadini. In uno stato Federale il Cittadino delega poteri agli eletti circa specifiche materie, ma conserva il potere di avocare a sé qualunque decisione qualora gli eletti violino i termini del contratto politico stipulato. Avocando a sé la sovranità, la maggioranza dei cittadini può, tramite referendum legislativi (federali) o deliberativi (locali) decidere di modificare o abrogare una legge, o delibera, oppure di promulgarne una nuova. Può anche legiferare in tema di materie tributarie e di trattati internazionali, diversamente da quanto accade nel nostro paese. Può indire un referendum per modificare la costituzione, anziché limitarsi a ratificare le riforme promulgate dal parlamento. Infine, la maggioranza dei cittadini può revocare il mandato agli eletti e indire nuove elezioni.
 IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’
1. Definizione.
Il principio di sussidiarietà (riconosciuto dal trattato dell’Unione Europea di Maastricht) riguarda i rapporti tra Stato e società. Esso é un fondamentale principio di libertà e di democrazia, cardine della nostra concezione dello Stato. Esso si articola in tre livelli:
a) Non faccia lo Stato ciò che i cittadini possono fare da soli: le varie istituzioni statali devono creare le condizioni che permettano alla persona e alle aggregazioni sociali (famiglia, associazioni, gruppi, in una parola i cosiddetti “corpi intermedi”) di agire liberamente e non devono sostituirsi ad essi nello svolgimento delle loro attività. Questo perché la persona e le altre componenti della società vengono “prima” dello Stato: l’uomo é principio, soggetto e fine della società e gli ordinamenti statali devono essere al suo servizio. Per questo motivo lo Stato deve fare in modo che i singoli e i gruppi possano impegnare la propria creatività, iniziativa e responsabilità, impostando ogni ambito della propria vita come meglio credono, risolvendo da soli i propri problemi. In questo modo, si uniscono insieme il massimo di libertà, di democrazia e di responsabilità, sia personale che collettiva.
b) Lo Stato deve intervenire (sussidiarietà deriva da subsidium, che vuol dire aiuto) solo quando i singoli e i gruppi che compongono la società non sono in grado di farcela da soli: questo intervento sarà temporaneo e durerà solamente per il tempo necessario a consentire ai corpi sociali di tornare ad essere indipendenti, recuperando le proprie autonome capacità originarie.
c) L’intervento sussidiario della mano pubblica deve comunque essere portato dal livello più vicino al cittadino: quindi in caso di necessità il primo ad agire sarà il comune. Solo se il comune non fosse in grado di risolvere il problema deve intervenire la provincia, quindi la regione, lo Stato centrale e infine l’Unione Europea. Questa gradualità di intervento garantisce efficacia ed efficienza, libera lo Stato da un sovraccarico di compiti e consente al cittadino di controllare nel modo più diretto possibile. Applicando questo principio, lo Stato si mette davvero al servizio dei cittadini, aiutando la formazione di un cittadino attivo e autonomo, che non sia un suddito passivo e sempre bisognoso di assistenza.
2. Origine.
Il principio di sussidiarietà é uno dei fondamenti della Dottrina Sociale della Chiesa. Di esso si trovano tracce già in autori quali, per esempio, San Tommaso d’Aquino e Dante. In tempi più recenti, di esso parla nella Rerum Novarum (1891) Leone XIII, ma la formulazione classica è contenuta nell’enciclica Quadragesimo Anno (1931) di papa Pio XI: «…siccome non é lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così é ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare.» Ne deriverebbe «un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società» poiché «l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa é quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium afferre) le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle.» Di conseguenza, «é necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad assemblee minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minore importanza» per poter «eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano (…) di direzione, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità.»
N.B. Il Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992) dichiara che il principio di sussidiarietà é la direttrice fondamentale che guida il processo di formazione dell’Unione Europea.

venerdì 15 giugno 2012

Il nichilismo tedesco. O la banalità del male (economico) - micromega-online - micromega

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Crisi, equità, sviluppo - micromega-online - micromega

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Tsipras: “Syriza, una speranza per la Grecia e l’Europa” - micromega-online - micromega

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LA GRECIA DEVE RIMANERE IN EUROPA

 



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LETTERA APERTA  /  PETIZIONE
ALLE ISTITUZIONI DELL’EUROPA UNITA
AI GOVERNI EUROPEI
AI CITTADINI EUROPEI
 
La Grecia deve rimanere in Europa – L’Europa deve salvare la Grecia
 
 
Oggi in Grecia, domani dove ?
 
Un Paese umiliato, come lo è la Grecia, costretto a delle reiterate manovre economiche, 
che hanno distrutto la società e fortemente depresso l'economia, riducendolo ad una 
condizione di insolvibilità, andrà nel mese di giugno a nuove elezioni,le seconde in
due mesi.
Quali forze prevarranno in quel Paese ridotto alla disperazione ? 
E quale decisione prenderà l'Europa subito dopo sulla questione dei prestiti ? 
Si dice e si scrive che se la Grecia uscirà dall'Euro, in Europa scatterà un piano B. 
Ma quale piano B vi potrà essere in un'Europa pervasa dalla paura ? 
L'unico piano sarà l'eutanasia dell'Unione e la distruzione di altri Paesi europei, 
tra cui l'Italia,
 che si troveranno via via nelle condizioni della Grecia, per un effetto contagio 
incontenibile. Solo la solidarietà tra i Paesi europei, nel quadro del rilancio di 
un grande disegno politico di unificazione, come gli Stati 
Uniti d'Europa, è in grado di evitare il disastro, che giustamente è stato paragonato 
agli effetti di una devastante guerra condotta con mezzi non militari. 
La proposta immediata di considerare gli investimenti destinati allo sviluppo fuori
 dai parametri di Maastricht, del rifinanziamento della BEI, dell'emissione degli 
Eurobond,la decisione di dismettere la miope politica iper rigorista, 
imposta dai conservatori e dai liberali tedeschi, possono aprire la strada alla 
realizzazione  di quel disegno ed evitare il disastro, ma i tempi sono importanti e
 di tempo ce n'è pochissimo.
Purtroppo i cosiddetti mercati, che sono i maggiori responsabili della devastante 
crisi mondiale nella quale siamo precipitati, insieme alla debolezza strutturale 
della politica, lucrano sulle disgrazie nostre. 
Ma noi abbiamo la responsabilità di lasciarglielo fare, mantenendo in piedi 
un'Europa senza una testa politica, e togliendo quindi ai popoli europei gli 
strumenti di difesa. 
E in questo vuoto si inserisce la furia rigorista del governo tedesco, che non
 tiene in nessun  conto le lezioni della Storia recente, che riguardano in primo
 luogo la Germania. 
 La civiltà europea, come la conosciamo oggi, le cui tradizioni e valori spirituali
 hanno dato grande significato alla vita occidentale qui e nella comunità Atlantica,
 ha le sue radici primigenie in Grecia. Questo paese merita il nostro aiuto.

Facciamo appello al Parlamento Europeo e a tutte le forze che in Europa avvertono 
i pericoli mortali di una siffatta politica e credono nella possibilità di uno 
sviluppo solidale e armonico dell'Europa, che la porti ad essere un faro di 
democrazia e civiltà per tutto il mondo, perché nella situazione attuale, 
non a disastro compiuto, facciano sentire con ogni mezzo e senza ritardi la loro voce. 
O ci salviamo insieme, o insieme, uno ad uno, cadremo. Tertium non datur

PRIMI PROPONENTI E SOTTOSCRITTORI DELLA PETIZIONE:

  1. ACQUISTAPACE  Silvia,  Roma IT
  2. ALAYMO  Filippo,  Roma IT
  3. ALTIERI  Vito,  Roma IT
  4. ANGELINI  Claudia,  Udine IT
  5. ANGELINI  Roberto,  Udine IT
  6. BARDINET  Marie Alexandrine,  Parigi FR
  7. BARDINET  Marie Amélie,  Parigi FR
  8. BARDINET  Thierry,  Parigi FR
  9. BERARDELLI  Alessandra,  Roma IT
  10. BIGNAMI  Francesco,  Roma IT
  11. BISPURI  Ennio,  Roma IT
  12. BOLOGNESE  Sylvia,  Roma IT
  13. BROSO  Maria Laura,  Parigi FR
  14. BRUNELLI  Caterina,  Roma IT
  15. BUCCI  Raffaela,  Roma IT
  16. BUSCEMI  Gaetano,  Firenze IT
  17. CALISSE  Stefania,  Roma IT
  18. CARLINI Gaspare,  Roma IT
  19. CARTA  Carmela,  Roma IT
  20. CASCIALLI  Gianluca,  Roma IT
  21. CIANCIO  Letizia,  Roma IT
  22. COLACE  Marco,  Roma IT
  23. COLACE  Mariagiulia,  Roma IT
  24. COLACE  Maurizio,  Roma IT
  25. COLUCCI  Mario,  Roma IT
  26. Comitato  Piero Gobetti,  Napoli IT
  27. CONSALVI  Stefano,  Roma IT
  28. CORBO  Gennaro,  Roma IT
  29. DANIELE  Mariapia,  Napoli IT
  30. DE FILIPPIS  Elena,  Roma IT
  31. DE SEPTIS  Concetta,  Roma IT
  32. DEITINGER  Patrizia,  Roma IT
  33. DELFINO  Francesco,  Roma IT
  34. DI BATTISTA  Paolo,  Roma IT
  35. DI CASTRO  Elisabetta,  Roma IT
  36. DI GIACOMO  Mauro,  Roma IT
  37. DI GIOVENALE  Laura,  Pomezia IT
  38. FARALLO  Claudia,  Roma IT
  39. FILOMENO  Alba,  Bari IT
  40. FLAMMIA  Ezio,  Roma IT
  41. FLEBUS  Patrizia,  Udine IT
  42. FOLGORI  Roberto,  Roma IT
  43. FOURAKI  Sofia,  Creta GR
  44. FRANZIONI  Aldo,  Bologna
  45. GABUTTI  Irene,  Roma IT
  46. GABUTTI  Isabella,  Roma IT
  47. GABUTTI  Lorenzo,  Roma IT
  48. GALLELLI  Guido,  Roma IT
  49. GALLO  Maria Francesca,  Roma IT
  50. GALLOTTA  Valter,  Roma IT
  51. GAWRONSKI  Piergiorgio,  Roma IT
  52. GENNAI  Benedetta,  Roma IT
  53. GENNAI  Gianluca,  Roma IT
  54. GENNAI  Pierfranco,  Roma IT
  55. GUERRIERI  Ettore,  Roma IT
  56. GUERRISI  Maria,  Roma IT
  57. HAMOUD  Fouad,  Firenze IT
  58. HAMOUD  Nadine,  Firenze IT
  59. ISIDORI  Fernanda,  Roma IT
  60. LANZALACO  Patrizia,  Roma IT
  61. LANZETTA  Letizia,  Roma IT
  62. LAZZARINI  Valeria,  Roma IT
  63. LIGNOLA  Filippo,  Roma IT
  64. LUNATI  Gabriele,  Firenze IT
  65. MACCAGNI  Lucia,  Bologna IT
  66. MACCIO'  Anna Maria,  Roma IT
  67. MANCUSO  Salvatore,  Palermo IT
  68. MARCONI  Monia,  Ancona IT
  69. MARNETTO  Massimo,  Roma IT
  70. MARTUSCELLI  Rosanna,  Roma IT
  71. MASULLO  Adelaide,  Roma IT
  72. MASULLO  Elisabetta,  Roma IT
  73. MASULLO  Rosaria,  Roma IT
  74. MATTEINI  Carla,  Roma IT
  75. MAZZUCA  Luigi,  Roma IT
  76. MEUCCI  Luigi,  Roma IT
  77. MONGE  Mario,  Roma IT
  78. MOSCHINI  Laura,  Roma IT
  79. NOBILE  Giancarlo,  Napoli IT
  80. NUCCI  Francesco,  Roma IT
  81. ORANO  Roberto Ivan,  Roma IT
  82. PALLOTTINI  Francesca,  Roma IT
  83. PANI  Roberto,  Roma IT
  84. PATRIZI  Giovanni,  Roma IT
  85. PELLEGRIN  Rosanna,  Roma IT
  86. PERESANI  Paolo,  Ancona
  87. PEZZELLA  Mario,  Roma IT
  88. PEZZOTTAGRASSI  Angelica,  Roma IT
  89. PITTIN  Elena Anna,  Roma IT
  90. PROCESI  Barbara,  Roma IT
  91. PROCESI  Francesca,  Roma IT
  92. PROCESI  Sergio,  Roma IT
  93. PROSPERI  Tommaso,  Roma IT
  94. PULICAT  Francesca,  Roma IT
  95. QUATTROCCHI  Fedora,  Roma IT
  96. RIZZO  Adele,  Roma IT
  97. SAMBUCCO  Micaela,  Firenze IT
  98. SAMBUCCO  Stefania,  Firenze IT
  99. SCALVENZI  Lanfranco,  Brescia IT
  100. SORTI  Pierluigi,  Roma IT
  101. STEFANELLI  Simone,  Roma IT
  102. TACCETTI  Quintilio,  Roma IT
  103. TAVIAN  Alessia,  Vittorio V. IT
  104. TONALI  Maurizio,  Roma IT
  105. TONNI  Elisabetta,  Roma IT
  106. TOSCANO  Nella,  Palermo IT
  107. VACCHER  Daniela,  Roma IT
  108. VAIANI LISI  Mario,  Roma IT
  109. VANO  Rosanna,  Roma IT

sabato 28 aprile 2012

IL NUOVO SOGGETTO POLITICO Tra Toni Negri e Tommaso d'Aquino

https://www.facebook.com/nella.toscano
 COMMENTO - Alberto Asor Rosa

Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è improntato a un prorompente «ottimismo della volontà». Com'è noto, Antonio Gramsci raccomandava che i due elementi della fatidica coppia - «pessimismo dell'intelligenza» e «ottimismo della volontà» - procedessero sempre insieme. Meno noti i motivi che secondo lui renderebbero raccomandabile, anzi inevitabile, l'accoppiata: «Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche». D'altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltano a ogni sciocchezza». Per cui, appunto: «Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà». Riguarda in qualche modo la citazione gramsciana gli estensori del suddetto «Manifesto»? No, assolutamente no: volevo soltanto che il pensiero gramsciano fosse almeno una volta richiamato, per intero). Mi predisporrei perciò a introdurre qualche elemento pessimistico nel ragionamento del «Manifesto», cercando al tempo stesso di guardarmi dallo spingermi troppo nella direzione opposta, cosa che, ahimè, in casi del genere capita di frequente. Utilizzerò di volta in volta argomenti concettuali ed esempi pratici: le mie esperienze degli ultimi dieci anni me lo consentono (cosa che non a tutti i miei interlocutori accade).


1. Politica. Un perno del «Manifesto», assolutamente condivisibile, è che «democrazia rappresentativa» e «democrazia partecipata» dovrebbero integrarsi e ri-equilibrarsi profondamente. L'idea, invece, che uno dei due versanti, quello della «democrazia rappresentativa», rappresentato essenzialmente dal sistema dei partiti, sia attualmente tutto da buttare e l'altro, quello della «democrazia partecipativa», tutto da esaltare e valorizzare, è completamente sbagliata, e fortemente autolesionistica. Ci sono realtà istituzionali e politiche, con le quali è possibile/necessario mantenere un livello alto di confronto, di scontro e comunque di serio rapporto; e ci sono realtà di base totalmente catturate all'interno del sistema dello sfruttamento e dell'utilitarismo individualistico. In alcune Regioni d'Italia (molte, direi), se si facesse un referendum sull'abusivismo vincerebbero gli abusivisti. La stessa cosa si potrebbe dire del rapporto fra centro e periferia. In taluni casi, l'auspicato decentramento del potere funziona alla grande; in certi altri assolutamente no. Alcuni Comuni sono virtuosi; gli altri (la maggioranza, io penso) no, anzi sono spesso i manutengoli degli interessi privati più sporchi. In casi come questi, oltre che battersi in ogni modo con la denuncia, bisogna ricorrere in un modo o nell'altro alle istanze «superiori»: le Regioni, lo Stato.

L'idea che il quadro sia omogeneo in tutte le sue componenti e su tutti i suoi versanti è distruttiva. Attualmente il quadro è invece frastagliato, poliforme e multicentrico. Al tempo stesso, tutto si tiene. L'idea giusta, appunto, che la «democrazia partecipativa» spinga per una riforma profonda della «democrazia rappresentativa» e del «sistema dei partiti» comporta che nessuna opportunità, nessuna chance sia cammin facendo ignorata e trascurata, e tutte invece siano volte all'unico obiettivo che meriti oggi perseguire: una diversa nozione e pratica della politica.
Il sistema - il sistema tutt'intero, intendo - si può riformare solo se si salva. E si salva solo se viene coinvolto tutt'intero, dalla A alla Z, per quanti sforzi questo comporti, e quanta pazienza e sobrietà richieda. Occorre violentemente attirare l'attenzione sul presente così com'è, se si vuole trasformarlo.

2. Principi, ideologia. È fuor di dubbio che siano fortemente cambiati forme e attori del conflitto. Mi chiedo però fino a che punto il gigantismo del sistema - la globalizzazione, appunto - abbia tolto di mezzo il fondamentale antagonismo fra capitale e lavoro: lo ha se mai anch'esso ingigantito, a livello planetario. Di questo non c'è traccia nel «Manifesto»: si direbbe che i protagonisti del conflitto siano, in questo quadro, attori di una diversa separazione/contrapposizione sociale (e politica, e culturale). Si lotta, infatti, per qualcosa di profondamente diverso dagli obiettivi tradizionali: si lotta per i cosiddetti «beni comuni».

Dei «beni comuni» Stefano Rodotà, che ne è l'interprete al tempo stesso più innovativo ed equilibrato, dà una definizione che io accolgo e faccio mia. Essi «sono quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». E cioè: ci sono beni, esattamente definiti dal punto di vista delle caratteristiche dominanti, delle possibili fruizioni e delle possibili forme di governance, la cui «proprietà», per così dire, è comune, cioè appartengono «a tutti e a nessuno». Detto così, va benissimo: questi «beni comuni» rientrano perfettamente nel quadro di un programma di «democrazia partecipativa», la quale, oltre a valere per sé, preme sulla «democrazia rappresentativa» per mutarne obiettivi e metodi ed eventualmente per ottenere un sistema di governance giuridico-istituzionale, che sia rispettoso della natura speciale di quel bene (mi riservo di porre a Rodotà una domanda, ma lo farò più avanti).
Ma i «beni comuni» divengono nel «Manifesto» il programma di massima del «nuovo soggetto politico». La cosa mi pare abnorme. Non solo per il pericolo successivamente segnalato dallo stesso Rodotà: «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità d'individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (il manifesto, 12 aprile). Ma soprattutto perché, se i «beni comuni» assurgono a orizzonte ideologico e di valore del nuovo movimento, ci si dovrebbe chiedere più trasparentemente (una delle richieste basilari di una vera «democrazia partecipativa») non solo dove va ma anche da dove viene un movimento così orientato.
La risposta sarebbe lunga e problematica: ma qualcosa si può cominciare a dire. Uno dei punti di partenza possibili è senza ombra di dubbio Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri: Comune (titolo originale dell'opera, molto più significativo di quello della tradizione italiana: Commonwealth), apparso nel 2009 (trad. ital. 2010), che porta il sottotitolo anch'esso estremamente significativo di: Oltre il privato e il pubblico. Lo chiamo in causa per almeno due motivi: perché il «comune» negriano è, esplicitamente, il frutto del palese rifiuto e superamento da parte dell'autore del vecchio operaismo e, più specificamente ancora, della teoria marxiana del valore; e perché i «beni comuni» sono obiettivi strategici logicamente comprensibili e accettabili, solo nella prospettiva biopolitica di una «democrazia della moltitudine», che veda anch'essa il superamento del conflitto di classe di fronte ai bisogni del più indeterminato ma appunto perciò meno obsoleto e più possente soggetto rivoluzionario: «Oggi potremmo dire: "Sta sorgendo una razza multitudinaria"» (Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 409).
Ogni volta, però, che ci si allontana dall'idea che questa sia una società divisa in classi - ossia ci si allontana dalla persuasione laica che esistono sfruttati e sfruttatori, percettori di un enorme surplus di potere a danno di altri che ne hanno poco o punto, a causa del meccanismo economico dominante (lo so, lo dico in maniera troppo rozza e approssimativa, ma qui non posso fare altrimenti) - si aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che la radice della nozione di «bene comune» è teologico-cristiana. Ne ragiona infatti con profondità niente di meno che Tommaso d'Aquino (riprendendo in parte, come soventi gli capita, definizioni aristoteliche): il quale, nella Summa Theologiae (I-II, 90, 3), scrive (traduzione improvvisata, e forse zoppicante): «...Come l'uomo è parte della casa, così la casa è parte della città; e la città è la comunità perfetta, come si dice in Aristotele, Politica (Aristotele, infatti, lì parla della "polis"). E perciò, siccome il bene del singolo uomo non è l'ultimo fine, ma è ordinato in funzione del "bene comune" (ad commune bonum); nello stesso modo, il bene di una casa è ordinato in funzione del bene di una città, la quale è la comunità perfetta».
Tommaso è un autore che i «benecomunisti» non amano citare (solo un piccolo cenno polemico in U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011, pp. 41). Nelle opere di Negri, ad esempio, non ce n'è traccia. Eppure è di fondamentale importanza. Il ritorno al Medio Evo, di cui si parla a proposito dei «benecomunisti», è tutt'altro che banale: significa la riappropriazione, in funzione apparentemente anticapitalistica, di un intero universo concettuale e ideale pre-capitalistico. Insomma: se la società divisa in classi non fosse alla fin fine altro che una «comunità», ovviamente non potrebbero esserci «beni comuni». I cittadini, les citoyens, in lotta per due secoli e mezzo per contendere all'avversario di classe ciò che a loro spetta, diventano «persone», prive di connotazione sociale (secondo un dettame che la teologia cristiana farebbe volentieri proprio): «Unire le persone per bene» intorno a un metodo è molto più agevole che farlo nel merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati...» (U. Mattei, il manifesto, 4 aprile). «Superare i vecchi steccati» è ciò che cercano di fare proprio oggi tutte le forme di «antipolitica».
Sorprende che molti dei firmatari del «Manifesto», che sono stati o sono ancora o si dicono ancora marxisti, non abbiano notato che in questo testo non viene mai nominato, nonché la «classe», neanche il «popolo». La soggettività politica viene trasferita a altre entità per ora poco chiare, autodefinentesti e autordinantesi, quali che la lotta politica fosse il frutto selezionato, alla fin fine, di alcuni gruppi intellettuali, che, come si diceva scherzando una volta, «danno la linea». E naturalmente, insieme con «classe» e con «popolo», spariscono le categorie di «destra» e di «sinistra» (anch'esse mai nominate nel «Manifesto»). I «benecomunisti» stanno più avanti, anche in questo caso, di queste obsolete distinzioni: stanno là dove «le persone per bene» - operai, impiegati, funzionari, banchieri, capitalisti, pensionati, sfruttatori, purché «per bene» - decidono di stare tutte insieme per meglio governare il loro «comune» destino.
Il riferimento a Tommaso d'Aquino non deve però far pensare a una discussione e a un rinfacciamento puramente dottrinari, destituiti di esiti pratici e politici immediati. La dottrina di Tommaso cala infatti di peso in quella attuale, e perfettamente operante, della Chiesa cattolica. Come si fa a non accorgersi di un dato così clamoroso? La filologia in certi casi conta più della logica (ma è anche più rara, molto più rara). Nel Catechismo della Chiesa cattolica (Edizioni Piemme, Città del Vaticano, 1993), la dottrina del «bene comune» occupa il posto centrale nella conformazione dell'agire sociale e pastorale della Chiesa nel mondo (III, II: La comunità umana; 2. La partecipazione alla vita sociale; II. Il bene comune). Il «bene comune», secondo l'ammonimento di Tommaso qui puntualmente richiamato («Non vivete isolati, ripiegandovi, in voi stessi ... invece riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti (bonum commune), è «l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (pp. 361). Non si potrebbe dir meglio in un contesto nel quale il conseguimento del «bene comune» rappresenta il nuovo Sovrano. Ma certo stupisce che il «messaggio» che esce dal progetto di un «nuovo soggetto politico» sia così vicino a quello uscito dal Consiglio Vaticano II (cui il Catechismo fondamentalmente attinge).

3. Comportamenti e passioni. Potremmo ancora citare a lungo dal Catechismo, e anche da molti altri e diversi autori del medesimo orientamento. Siccome le analogie sono indubbiamente clamorose, sarebbe interessante ascoltare una spiegazione del perché, sopprimendo la categoria analitica e pratica del conflitto di classe, tornano a manifestarsi prepotentemente e a dilagare visioni del mondo in cui l'ultraterrenità, e il discorso teologico-scolastico, tornano a farsi dominanti. In attesa che una qualche risposta venga (ma se uno usa gli stessi termini e concetti di un altro, qualcosa di «comune» dev'esserci), osservo che il lungo capitolo che conclude il «Manifesto» sui «comportamenti» «e sulle passioni» non fa che accentuare, ai limiti del disagio, le reazioni che si provano di fronte alla teoria fin qui esposta dei «beni comuni». Un universo di buoni sentimenti - «la compassione e la gioia, l'amore e la speranza, la generosità e il rispetto degli altri», «il sentimento dell'empatia» - dovrebbe prendere il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti - quello delle «passioni negative, l'invidia, l'odio, l'orgoglio, l'ira... la rivalità, la voglia di sopraffare...». Allora, nel nuovo universo, « a predominare sarebbero le virtù sociali delle mitezza e della fermezza...». Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di affrontare l'incredibile violenza dell'attuale sistema di sfruttamento globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte (naturalmente, anche Negri impernia la sua ideologia multitudinaria sull'«amore»: se no, che biopolitica sarebbe? Anche il male, tuttavia, secondo lui, può impadronirsi dell'amore. Il conflitto sarebbe allora fra un amore malato e «cattivo» e un amore buono, autentico. Interessante).


4. «Beni comuni» e «Pubblico». Torno alla domanda che qualche colonna fa avrei voluto rivolgere a Rodotà. Ho citato la sua definizione di «beni comuni», che ora per chiarezza del lettore ritrascrivo: «(Essi) sono quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali, e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». La domanda è: non potrebbe esser questa anche una buona definizione di «pubblico?» E cioè: lo Stato democratico-capitalistico moderno, nella sua complessa strutturazione, è il frutto di spinte contrastanti nelle quali la funzione e l'indirizzo loro impresso da esigenze, interessi e modalità di vita propri delle classi cosiddette subalterne, hanno lasciato un segno consistente. Il «pubblico» oggi non s'identifica certo con lo Stato Leviatano; se mai si potrebbe dire che, nei casi migliori, lo Stato è stato (e in parte ancora è) un'articolazione del «pubblico» - il «pubblico», che tra le proprie funzioni più specifiche e prestigiose ha quella di proiettare la tutela dei beni d'interesse comune «nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». Sanità pubblica, Scuola pubblica, Università, ricerca, sistema delle pensioni, diritti del lavoro, solidarietà sociale, tutela del territorio, sistema della giustizia «imparziale» e nei limiti delle umane abitudini) «uguale per tutti», sono i principali requisiti di un sistema imperniato sul «pubblico» (e non sul «privato»). È la materia, del resto, chiarissimamente descritta e regolata negli artt. 2, 3 e 4 della nostra Costituzione (che forse andrebbero tenuti più presenti).

Se le cose stanno così, non sarebbe meglio, invece che procedere negrianamente «oltre il privato e il pubblico», considerare la battaglia per i «beni comuni» un allargamento e un rafforzamento di quella per il «pubblico», in una visione più dinamica e articolata di quella praticata presentemente?
La cosa è tutt'altro che facile, ma è decisiva. Quel che io vedo è che il «pubblico», costruito prevalentemente con le lotte di generazioni e generazioni di cittadini italiani ed europei, è minacciato, frantumato, reso subalterno da una colossale invasione del «privato». Il governo Monti in Italia, politicamente, ideologicamente ed economicamente, ne rappresenta un esempio di prim'ordine. Allora, se le cose stanno così, all'ordine del giorno oggi non c'è la reclusione insieme di «pubblico» e «privato» nel medesimo cassetto di vecchi arnesi ormai inutili: c'è una gigantesca battaglia per la difesa del «pubblico», che, invece di fermarsi all'esistente, eventualmente si rafforzi e s'allarghi con l'individuazione e la conquista di nuovi territori. Per questo i partiti sono ancora necessari, in Italia e in Europa.
Quel che è accaduto recentemente in Francia dimostra eloquentemente che la forza di organizzazioni centralizzate e ben dirette è essenziale alla causa del mutamento. Se, come si spera, il candidato socialista riuscirà a prevalere, l'intero assetto europeo dei prossimi anni ne risulterà influenzato.
In Italia stiamo molto peggio, lo so, ma le coordinate del lavoro da fare sono molto simili.

5. Il «metodo» viene prima del «merito?» Il metodo adottato dai promotori del «Manifesto», come già s'è detto, appare sul manifesto il 29 marzo. Dopo le prime battute, assai interessanti, di dibattito, due degli organizzatori (Alberto Lucarelli, Ugo Mattei) dichiarano aperta la consultazione per la scelta del nome del «nuovo soggetto politico» (il manifesto, 17 aprile), dando per scontato che a Firenze il prossimo 28 aprile il «nuovo soggetto politico» si faccia (ignorando del tutto riserve e precisazioni come quelle emerse negli interventi già citati di Stefano Rodotà e in quello di Piero Bevilacqua (13 aprile). Un dibattito è serio se serve a determinare le conclusioni. Se le conclusioni sono già date, il dibattito non è serio.

Io spero che a Firenze i promotori ci ripensino: che non nasca un «nuovo soggetto politico» su basi così fragili. Ci sono cento, mille, diecimila cose da fare per un'organizzazione che pratichi seriamente il verbo autentico della Rete: ossia, molti soggetti collocati liberamente all'interno di un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più) dell'insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per una Rete di Reti: ma di questo eventualmente parleremo un'altra volta). Ma l'obiettivo fondamentale e strategico è riconquistare il «pubblico», sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le dimensioni originarie (ad esempio, io provo un grande interesse per la riflessione di Guido Viale sulla «riconversione ecologica dell'economia»: ma anche in questo caso mi chiedo come affrontare una gigantesca problematica del genere limitandosi a praticarla dal basso, e su segmenti limitati di territorio).
Su questo percorso incontreremo molti ostacoli e molti diversi interlocutori: e, se sarà necessario, dovremo usare anche molta astuta e consapevolissima cattiveria.

mercoledì 18 aprile 2012

Abbiamo perso la sovranità nazionale con l'approvazione del pareggiio di bilancio!!!

 http://www.pmi.it/economia/mercati/news/54845/pareggio-di-bilancio-approvato-il-ddl-costituzionale.html
 Il GOLPE silenzioso. PDL, PD E "TERZO POLO" (UDC, FLI, API) HANNO APPROVATO QUESTA PORCATA CHE CI CONSEGNA, COME VEDREMO SOTTO, NELLE MANI DELL' ESM (Il MES, "Meccanismo Europeo di Stabilità) un FALSO "fondo salvastati" che in realtà è un organo sovranazionale che agisce al di sopra della legge e di ogni controllo democratico, che non farà altro che impoverire ulteriormente l'Italia (e gli altri stati periferici dell'Europa)
http://www.nocensura.com/2012/04/e-ufficiale-abbiamo-perso-la-sovranita.html

domenica 26 febbraio 2012

MANIFESTO DEL SITO “Sdebitiamoci” Get out of debt!

https://www.facebook.com/pages/Sdebitiamoci-Get-out-of-debt-/262828030458093 

Sdebitiamoci! Non possiamo, Non Dobbiamo e Non vogliamo pagare questo debito assurdo! E’ giunta l’ora di rivendicare con forza, coerenza e in concreto la nostra libertà di scelta. Il Debito che sta strozzando il nostro Paese insieme a molti altri, è in realtà una costruzione voluta e mantenuta dai finanzieri senza scrupoli e dal sistema bancario cui si aggiunge il “giro” piuttosto torbido delle agenzie di rating. L’Islanda ha reagito e ha vinto; l’Argentina ha reagito e sta vincendo e altre nazioni stanno seguendo questi esempi. La nostra Associazione “Treno delle Donne per la Costituzione” apre questa pagina per raccogliere adesioni CONCRETE di chi realmente vuole agire per contrastare l’attuale situazione e aiutare il Paese a uscire dalla crisi.

Ripristinare un sistema economico umano si può, basta volerlo. Esistono metodi estremamente semplici per creare sistemi economici fuori dall’Euro, che possono consentire ad imprese medie e piccole di proseguire nell’attività e alle famiglie di vivere con dignità.

Perciò SDEBITIAMOCI! Gridiamo forte e chiaro che il debito noi NON LO PAGHIAMO! Uniti si può vincere, ma dobbiamo essere tanti, compatti e determinati. Noi donne, solleviamo con la bandiera della nostra lotta in difesa dei sacrosanti diritti/doveri sanciti dalla Costituzione, anche il vessillo di SDEBITIAMOCI. Se aderirete in tanti potremo fare molto per il nostro Paese e anche per noi stessi.

Ricordate: il DEBITO Non Possiamo, Non Vogliamo, e Non Dobbiamo pagarlo! E questo tam tam vogliamo che percorra l’Europa intera per aggregare tutti coloro che sono decisi a lavorare per Sdebitarsi!!

Vi aspettiamo in tanti e subito!

martedì 14 febbraio 2012

LA SINISTRA DA UN'IDENTITA' SMARRITA AD UN'IDENTITA' INTROVABILE.

GIUSEPPE CARLO MARINO                              
A QUANTI HANNO TEMPO E PAZIENZA DI LEGGERE.
PER UNA RIFLESSIONE SUI LIMITI E SUGLI INGANNI DEL c.d. "RIFORMISMO"





Diacronie Studi di Storia contemporanea

Numero 9, Gennaio 2012
“QUANDO LA CLASSE OPERAIA ANDAVA IN PARADISO.
Le sinistre europee nell’”età dell’oro” del capitalismo” 

Intervista
(a cura di Luca Bufarale e Fausto Pietrancosta)

  1. Che giudizio ritiene di dare sul periodo definito dalla storiografia francese les trente glorieuses, il trentennio 1945-1973, dal secondo dopoguerra ai prodromi della grande crisi economica degli anni settanta? Quale analisi si sente di fare sugli aspetti e le caratteristiche che hanno contribuito a definire quegli anni e il rapporto con l’epoca attuale?

Trente  glorieuses  o la più celebre definizione di Eric Hobsbawm “l’età dell’oro”? E’ lo stesso. Se una siffatta periodizzazione ha la sua base nell’economia (così come la domanda opportunamente suggerisce), occorrerebbe andare indietro fino agli anni Trenta e da lì, in particolare dalla seconda fase del New Deal, procedere in avanti seguendo lo svolgimento di un ciclo unitario delle trasformazioni del capitalismo segnato dal fordismo e dal keynesismo. Il tutto, pur con  assai numerose varianti  territoriali (ovvero “nazionali”), sulle linee dinamiche di una società di massa nella quale si sarebbe sempre più intensificata una proficua dialettica produzione-consumo che richiedeva un rigoroso controllo pubblico sulla moneta e sulle attività finanziarie, un’organica  composizione (mediante un meccanismo  di “concertazione” nei rapporti tra capitale e lavoro) del conflitto sociale e  salari crescenti, nonché l’imposizione di regole e vincoli ad un mercato regolato e razionalizzato dalla politica mediante un’opportuna legislazione. La stesso dramma del ’29,  estesosi dagli Usa all’Europa con effetti assai larghi nel mondo intero, aveva dettato la sua lezione, raccolta dal  presidente Franklin Delano Roosevelt dopo il quadriennio  fallimentare  del suo predecessore Erbert Clark  Hoover: il capitalismo avrebbe potuto sopravvivere ad una sorte che sembrava a molti ormai segnata, soltanto trasformandosi in un sistema idoneo a produrre uno sviluppo crescente stimolato dai consumi, a loro volta alimentati da un processo di redistribuzione sociale dei profitti e della ricchezza. In altri termini, un superamento del liberismo e l’impianto di un sistema che, al di là della stessa liberal-democrazia, potrebbe, in senso lato, dirsi “socialdemocratico”.  La sua concretizzazione in Europa sarebbe avvenuta nei termini di una progressiva affermazione ed estensione dello “Stato sociale” (con esiti persino più avanzati  dell’Opulenty Society  statunitense, ma  sullo sfondo paradigmatico  dell’american way of life),  a partire dal secondo dopoguerra, una volta travolta la variante autoritario-reazionaria della risposta alla crisi del ’29  tentata dai fascismi (che pure, a loro modo – va riconosciuto – si erano mossi verso un’atipica forma totalitaria di “Stato sociale”). Dalla parte opposta al capitalismo, si sarebbe svolta, con una forza propulsiva decrescente, la grande sperimentazione del “socialismo reale” nata dalla rivoluzione d’ottobre.   Nel complesso, un itinerario unico −seppure un quadro molto variegato non uniforme e con molte contraddizioni −  segnò  quelle epocali  trasformazioni del capitalismo che, in Occidente, nell’area euro-atlantica,  andarono a sfociare nella prodigiosa stabilizzazione del “trentennio glorioso”. Per alcuni anni di quel trentennio i riferimenti “alti” di un’inedita espansione sociale del benessere e della ricchezza  sarebbero state la Gran Bretagna laburista e soprattutto le socialdemocrazie nordiche del  Continente.  Il nostro Paese, del resto come  la Germania,  fece il suo ingresso più tardi nell’eldorado: nei primi anni Sessanta, dopo la ricostruzione degli anni di De Gasperi e sotto la spinta radicalmente innovatrice del “miracolo economico”. Personalmente ricordo – ne ho scritto con una certa enfasi nostalgica nel mio Biografia del Sessantotto (Bompiani, 2005) che vissi  quel senso liberatorio di partecipazione ad una vita di colpo fattasi ottimistica e solare (dopo le plumbee caligini degli anni Cinquanta) ad apertura di quel decennio, mentre si  stava aprendo la stagione  del “centro-sinistra”: si discuteva, con speranza, di “riforme strutturali”, di  “programmazione economica”, di piena occupazione, di liquidazione della “questione meridionale”, di emancipazione femminile, di diritti alla salute, allo studio, alla casa, al salario garantito, nello slancio del “primato” riconosciuto alla politica  e  nella rivendicazione collettiva dei  progressi conseguibili con la  socialità, al segno dell’ uguaglianza e della  giustizia sociale, tra fabbriche in espansione e decine di migliaia di cantieri aperti  che stavano rinnovando il volto stesso del Paese. Un tempo favoloso per me. Figuriamoci per i precari e per i  giovani di  oggi!  
Mi si chiede adesso: quale rapporto c’è tra quel passato e i nostri tempi? Non parlerei  di un rapporto. Registrerei, piuttosto, una drastica rottura. Se fossi uno dei classici laudatores temporis acti,  guardando all’economia e agli attuali  diktat del capitalismo finanziario  sulla politica, direi di avere a che fare  non proprio con  una di quelle rotture che innovano la storia, bensì  con una sorta  di ” rottura regressiva” (il ritorno al liberismo e alla conseguenti privatizzazioni in ogni campo, il primato dell’individualismo rampante sulla socialità, la precarizzazione del lavoro, lo smantellamento dello “Stato sociale”) che viene capziosamente presentata e perseguita anche  nelle forme vaghe e indeterminate, e francamente non poco  ingannatrici,  del cosiddetto  “riformismo” . Ma non coltivo  inclinazioni  al rimpianto. E prendo atto del fatto che è cominciata da tempo, almeno a partire dagli anni Ottanta, una nuova fase storica che condurrà le generazioni molto lontano, al di là dei vecchi traguardi della  rivoluzione industriale. Solo che, com’è del tutto ovvio, ancora non sappiamo bene   dove  e   con quali effetti per  il mondo.       

  1. Cosa ci può dire in generale circa lo stato delle sinistre europee negli anni cinquanta e sessanta nei diversi contesti nazionali?  È possibile innanzitutto fare alcune generalizzazioni? Quali sono a suo avviso le differenze più significative tra le sinistre dei vari paesi?


Dovremmo intenderci sul concetto di “sinistra”. Il che non è proprio facile. Un punto di possibile accordo su un tracciato argomentativo  già indicato da Norberto Bobbio potrebbe essere questo: chi è di sinistra non si accontenta della realtà data, così com’è e si presenta, ma vuole andare oltre: vuole “cambiare” con l’obiettivo di realizzare le condizioni per un avanzamento delle libertà democratiche verso esiti  di  eguaglianza sociale. E’ implicita nella vocazione al cambiare per “avanzare” quell’idea  di origine settecentesca (che, a pensarci  bene, potrebbe essere soltanto utopica)  che è l’idea del “progresso” cui si associa quella di giustizia sociale. Ammesso che abbia un senso concreto la parola “progredire”, va comunque chiarito se per  progresso si intende rendere migliore l’esistente o costruirne un altro diverso, nel senso di opposto e di radicalmente alternativo. Il chiarimento approda, pertanto, ad una netta differenziazione (che è anche un conflitto inevitabile) tra una “sinistra migliorista” detta comunemente socialdemocratica  e una sinistra antisistema ovvero antagonista, normalmente rappresentata dai partiti comunisti. La guerra fredda avrebbe reso assai drammatica  la contrapposizione, essendo le due parti schierate su  opposti fronti internazionali, con un riferimento fisso per quella “migliorista” (gli Usa) e con un altro ad apertura variabile (l’Urss, ma anche la Cina e il Terzo mondo) per quella antagonista.  A marcare chiaramente la contrapposizione sarebbe stata addirittura la ricostituita Internazionale socialista, organo, piuttosto che di elaborazione strategica, di mera “rappresentanza” di un socialismo che altra prospettiva in concreto non si poneva se non quella di conseguire una gestione più equa e il più possibile “egualitaria” del sistema capitalistico.  Per un socialismo di tal genere si era reso quasi naturale un distanziamento dalle  fonti marxiste della sua dottrina e della sua elaborazione politica – a partire dal  precoce dettato del  “revisionismo” già  sviluppatosi nella  II Internazionale, involutosi   nel definitivo abbandono del marxismo del programma di Bad Godesberg della SPD tedesca  (1959; poi Berliner Program  del 1989) −  culminato in una dura contrapposizione con i comunisti.  Per  i comunisti, i socialdemocratici − assestati com’erano sulla frontiera di un cosiddetto “riformismo” (ideologicamente neutro e comunque  non marxista se non antimarxista) −  ben più che avversari, sarebbero stati addirittura dei nemici: una specie di sindacato giallo al servizio del padronato ovvero della “reazione”, come si usava dire.  Questo, non soltanto nel periodo tra le due guerre. Ma anche molto dopo. Ricordo personalmente (il che può oggi riuscire non poco sorprendente ai giovani  e agli stessi  membri di formazioni politiche che si dicono di sinistra in quanto vantano progetti “riformisti”)  che ancora negli anni settanta-ottanta del secolo scorso per un comunista dire a un qualsiasi avversario “sei un socialdemocratico”  equivaleva a lanciargli contro un’offesa con un misto di  irrisione e di disprezzo!   


  1. Da un lato la fase espansiva del capitalismo seguita alla ricostruzione postbellica, dall’altro i mutamenti sociali e culturali indotti dall’avvento dei fenomeni caratteristici della società di massa. E ancora: le politiche di welfare, la nazionalizzazione dei settori chiave della produzione, la programmazione economica. Come si sono rapportate le sinistre europee ai processi economici in atto nell’arco del trentennio 1945-1973 e come hanno influenzato le dinamiche sociali che ne sono conseguite?

La domanda ben periodizza la questione, appunto nell’arco 1945-1973. Infatti, dopo – con i primi segnali di “sofferenza” del sistema neocapitalistico  nato dalle riforme keynesiane, poi cresciuti fino a rendere diffuso nelle stesse socialdemocrazie  più strutturate e avanzate del Nord Europa l’allarme per l’insostenibilità dello “Stato sociale” (la “crisi fiscale dello Stato” denunziata da James O’Connor) − si sarebbe evidenziata un po’ ovunque, in Europa,  la crisi delle politiche di welfare. In quel  trentennio, erano state soprattutto le sinistre (quelle “miglioriste” o  socialdemocratiche che i comunisti  stigmatizzavano in quanto  e perché funzionali alla salvaguardia e allo sviluppo del capitalismo)  le protagoniste della grande trasformazione che aveva fatto della società di massa la “società dei consumi”.  Soprattutto in Svezia e in Danimarca, ma anche in Germania con la SPD, ben più che “influenzare le dinamiche sociali”, sono state determinanti: quelle dinamiche sociali le hanno tout court  lanciate e guidate nel loro svolgimento, favorendo una distribuzione sociale della ricchezza collettiva nella forma di una piuttosto larga ed evidente  “socializzazione dei profitti”. Il che, come ben sappiano (e come rilevavano , già allora, da opposti punti di vista, sia  le sinistre antagoniste, sia le destre liberali) non  senza  produrre o accentuare altre contraddizioni. Per le sinistre antagoniste, quel processo non rimuoveva affatto  le radici  delle ingiustizie sociali e soltanto  ne mistificava la “gestione strumentale” da parte del sistema capitalistico alienando la coscienza di classe del proletariato,  subdolamente acquietando il conflitto sociale nella gara per il “benessere” e nel conseguente consumismo funzionale ai profitti, sì  da fare dell’ Europa occidentale un’area di privilegio neoimperialistico (in associazione subalterna con gli Usa),  costruita sullo sfruttamento dei tre quarti del pianeta che ne restava ai margini o esclusa; per le destre liberali, di contro,  si trattava di una dissennata  affermazione dello statalismo ai danni dell’iniziativa privata e delle libertà del mercato  di cui lo Stato stesso avrebbe pagato presto le conseguenze in termini di un insostenibile indebitamento pubblico e la società in termini di inflazione, di disinteresse per il lavoro produttivo e di progressivo esaurimento delle capacità di ulteriore crescita economica (tutto il repertorio delle critiche avanzate dai liberisti della Scuola di Chicago). Scontato  che sia la sinistra antagonista che le destre liberali   avessero, come avevano, dei buoni argomenti ai quali affidarsi per avanzare le loro critiche, resta il fatto che le politiche socialdemocratiche determinarono un vero  e proprio salto di qualità nel sistema capitalistico di cui per lungo tempo le masse popolari (soprattutto in virtù del full-employment  e dei salari crescenti)  avrebbero avvertito più i vantaggi immediati che le persistenti contraddizioni, nonché gli effetti perversi e i  limiti di prospettiva.  Di quest’ultimi (gli effetti perversi e i limiti di prospettiva) le sinistre europee, sia  quelle socialdemocratiche che quelle antagonistiche,  si  sarebbero accorte con non poco ritardo per quel che riguarda le conseguenze dello sviluppo sull’ambiente naturale della vita organizzata: questioni, poi, sollevate con crescente allarme, dai Verdi.
Nel contempo, con un crescendo dopo gli anni ottanta, la sinistra socialdemocratica avrebbe vissuto  la lunga ed irreversibile  agonia del suo progetto  all’interno del sistema, a causa della “crisi fiscale”  denunziata e studiata da O’Connor: sarebbe, infatti, venuta meno la  possibilità di operare, tramite lo Stato, per la redistribuzione dei profitti.      

  1. In che modo la coscienza antifascista e la consapevolezza delle conquiste democratiche raggiunte hanno condizionato l’azione delle sinistre europee?

In un modo determinante, almeno fino al Sessantotto. Essere di sinistra ed essere antifascisti era la stessa cosa, sia per i “miglioristi” che per gli antagonisti. Il che, ovviamente, non significa  affatto che poi le due parti  avessero modalità similari e concordi  per dirsi  “democratiche” o “socialiste”. Il più forte legame con l’antifascismo (un legame, che direi quasi costitutivo della loro stessa ragione storico-politica) lo si registra per il PCF e per il PCI. E, certo, non soltanto in conseguenza del ruolo decisivo svolto dall’Urss e dall’Armata rossa nella guerra contro il nazifascismo. Ma per i compiti  di cui quei due partiti si erano ben più degli altri investiti nelle rispettive Resistenze nazionali. Si pensi alla Francia: lì la bandiera della Resistenza fu  inalberata da  De Gaulle, ma senza i comunisti il generale non avrebbe fatto molta strada e non avrebbe poi potuto  vantare alcun successo.  E, in Italia, senza i comunisti non sarebbe mai nata una Resistenza degna del suo nome e non si sarebbe mai sviluppata una vittoriosa guerra di liberazione.

  1. L’integrazione europea e la tensione tra i blocchi, sono stati due nodi che hanno costituito un’occasione di confronto e di scontro tra le varie anime della sinistra. Quali punti di contatto o di differenziazione hanno prodotto il processo di costruzione della Comunità Europea e la contestuale rilettura della recente storia del continente sui partiti, sulle classi dirigenti e sull’opinione pubblica di sinistra in Europa?

Al confronto e ai motivi di scontro, riferibili anche al quadro della guerra fredda,  ho  già  accennato. Per quanto riguarda il processo di integrazione europea, era scontato che la sinistra antagonistica vi scorgesse il pericolo di una  specie di “normalizzazione geopolitica” a  consolidamento, in Europa, dell’”impero americano” nell’orbita atlantista della Nato.  Non a caso i comunisti francesi (pur con tutto il loro noto, tenacissimo legame con l’Urss  e il “socialismo reale”) furono per molti versi, e paradossalmente,  in sintonia con il  generale De Gaulle che della Nato e  dell’“impero americano” (nonché di una certa Europa) era un convinto  avversario.  Tuttavia, anche se è vero che una parte rilevante nell’attivazione dei processi di integrazione europea spettò principalmente al ceto politico del cattolicesimo democratico, tutte le sinistre (compresa quelle comuniste) entrarono in tempi diversi nell’orbita delle iniziative concrete per l’unificazione europea su un filo comune costituito dalla tradizione pacifista e internazionalista  del movimento  operaio: un filo  − al quale si annodavano, in Italia, anche quelli della tradizione  mazziniana (si pensi in particolare ,  al precoce orientamento europeista della  sinistra rosselliana e  azionista ) − che, avvolgendo in vario grado tutte le forme organizzate di coscienza democratica,  non poteva non coinvolgere, a maggior ragione,  tutti i più vari richiami al socialismo. Con la costruzione dell’Europa era in gioco, per le socialdemocrazie, sia la fine definitiva  del cosiddetto “pericolo tedesco” per la pace, sia  l’avvenire di una pacifica espansione e condivisione dei sempre più incerti vantaggi offerti alle masse dal “capitalismo sociale”. Mentre, poi, nell’inedita, assai originale costruzione ideale dell’eurocomunismo di Enrico Berlinguer, l’europeismo sarebbe stato indicato come strada maestra per realizzare una “democrazia reale” (e quindi  un’autentica società  socialista)  al di là del capitalismo e della subalternità al capitalismo dei partiti socialdemocratici. Naturalmente, sugli orientamenti berlingueriani influiva molto la peculiare lezione di Gramsci sulle esigenze tattico-strategiche della cosiddetta “guerra di posizione” come fase preliminare e necessaria per il cambiamento rivoluzionario in aree di capitalismo maturo quali erano certamente quelle dell’Europa occidentale.

  1. Quale influenza hanno avuto i movimenti anticolonialisti e le rivoluzioni in Asia, Africa e America Latina (rivoluzione cinese, rivoluzione cubana, guerra del Viet Nam, lotte di liberazione nelle colonie portoghesi etc.) nel dibattito all’interno delle sinistre europee e nella ridefinizione del concetto di imperialismo? A suo avviso la seconda metà degli anni settanta, con la crisi dei movimenti di liberazione e la loro degenerazione in regimi burocratico-autoritari, ha costituito una frattura importante nella visione che le sinistre europee avevano del “Terzo Mondo” e delle sue possibilità di emancipazione?

Un’influenza  assai rilevante  nel dibattito della sinistre di formazione e tradizione comuniste. Addirittura, in tale orbita,  provocarono, negli anni  sessanta (con esiti destinati ad approfondirsi negli anni successivi), una frattura che, in Italia, fu quella tra  “Potere operaio” e “Lotta Continua”, determinata  dal contrapposto giudizio sulla natura del potere sovietico, sulla funzione internazionale dell’Urss e persino su Lenin e sul leninismo. Per “Lotta Continua” (ed anche per il gruppo de “Il Manifesto”) tornò in voga, tra gli altri,  Leone Trockji, riesumato dalla sua tragica vicenda di eresiarca e assunto tra i riferimenti alti e “nobili” del comunismo antistalinista.  Essere comunisti guardando all’Urss  − ovvero alle sue trasformazioni dopo la rivoluzione di ottobre per effetto dello stalinismo e poi del neostalinismo brezneviano − significò altra cosa dall’essere comunisti guardando alla rivoluzione cinese (in ispecie a quella “culturale” di  Mao Zedong  di  cui si ignoravano le sanguinose violenze) e alla Cuba guevarista e al Vietnam di Ho Chi Minh . Si era formato, in un certo senso, un “neocomunismo”, una sorta di “comunismo libertario” − del tipo di quello che in Italia ebbe la sua migliore espressione appunto nel gruppo de “Il Manifesto” − parallelo e simmetrico al cosiddetto neoimperialismo nel quale, ormai, i “neocomunisti” includevano la stessa Unione Sovietica: un’inclusione, mi  sembra, non proprio corretta, dato che la politica internazionale dell’Urss, pur con mille contraddizioni, tramite la stessa  espansione della sua egemonia sui movimenti di liberazione e sui nuovi assetti geopolitici che ne derivavano, mirava a disarticolare il quadro mondiale dell’imperialismo americano appoggiando (come nell’Egitto di Nasser) le lotte guidate dalle borghesie nazionali.   Naturalmente, poi, la deriva burocratico-autoritaria  di alcuni movimenti di liberazione nel loro farsi  potere statuale (penso, oltre che agli sviluppi della situazione politica nel Vietnam liberato,  alla stessa Cuba di Fidel Castro, ma anche alla realtà africana nella quale, a parte la sempre controversa Libia di Gheddafi, non c’era molto da sperare dalla Tunisia di Habib Bourguiba, dall’Egitto postnasseriano di Anwar Sadat, dalla  Somalia  di Mohammed  Barre e dall’’Etiopia  di Haile Mengistu) generò disorientamento, nonché molte travagliate sospensioni del giudizio e delusione.  Non era conforme alle speranze delle sinistre antagoniste (sempre più costituite da litigiose formazioni “neocomuniste” più o meno antisovietiche)  il dover  prendere atto del fatto che le cosiddette “rivoluzioni nazionali” dei paesi del Terzo mondo non avevano alla loro base un alcunché di “proletario” in senso proprio marxiano, ma erano tutt’al più degli slanci  anticolonialisti guidati da  “ribelli” ed élite locali  (spesso di origine militare)  la cui  vocazione progressista era molto dubbia o comunque fortemente limitata da condizioni strutturali di arretratezza.  E’ ovvio che della delusione stessero in vario modo approfittando le sinistre “miglioriste”  nel tentativo di reagire al loro tramonto riproponendosi come una “terza via” tra capitalismo e “socialismo reale (penso  alla SPD di Willy Brandt, ma soprattutto a quel singolare socialismo liberista rappresentato da Tony Blair).

  1. In che modo i partiti della sinistra si sono rapportati ai movimenti collettivi della fine degli anni sessanta? Quali relazioni virtuose, criticità o distanze sono nate e si sono consolidate tra la sinistra “istituzionale” e questi movimenti?

Invero,  parlare di “sinistra istituzionale” non è una forzatura terminologica soltanto se – pur salvaguardandosi  l’idea fondamentale della sinistra che è quella, come ho già detto,  di “cambiare”  la realtà in funzione del “progresso” – tale  opposizione si trasferisce nelle forme istituzionali di un sistema rappresentativo di tipo liberaldemocratico  (la formazione dei ceti dirigenti tramite i partiti e i sindacati, le procedure elettorali e quelle, soprattutto, per la produzione legislativa  tramite il parlamento) sì da diventare, laddove non riesca a diventare essa stessa “governo” o a parteciparvi, qualcosa di simile,  per dirla alla maniera degli inglesi, di un’”opposizione di Sua Maestà”. Questa condizione riguarda ogni tipo di “sinistra migliorista”, o riformista o socialdemocratica che dir si voglia. Mi sembra scontato che quanti coltivino  un’idea di sinistra come opposizione al sistema non possano che trovarsi da un’altra parte della cosiddetta “sinistra istituzionale”. Di relazioni “virtuose” tra  i due fronti non riuscirei ad indicarne. Semmai, insisterei sulle distanze, molto rilevanti fino allo scontro, soprattutto laddove, come in Italia, il conflitto sociale è stato molto intenso e talvolta drammatico: uno scontro che la componente più estremista ha spinto talvolta, come è noto, fino alla “lotta armata”, senza escludere il  terrorismo.  La  “sinistra istituzionale”  è stata accusata dall’altra, l’”antagonista”,  di essere funzionale agli interessi del padronato e di rappresentare, nel migliore dei casi, un’opposizione di facciata. Una siffatta critica, da parte dei movimenti (assumendo una configurazione detta, dal punto di vista delle istituzioni, “extraparlamentare”), ha investito in tempi piuttosto recenti,  come è noto, anche il Pci e gli stessi sindacati confederali (si ricordi l’attacco dei cosiddetti “autonomi” alla Cgil di Luciano Lama). Di qui la  storia di una divaricazione a sinistra  che per me costituisce  appena un passato prossimo , mentre, per i giovani, è già un passato remoto.
Il massimo della divaricazione si evidenziò quando il Pci,  da opposizione parlamentare (e sempre meno opposizione sociale), divenne addirittura governo con la Dc di Andreotti , ai tempi della “solidarietà nazionale”.  Allora, i movimenti “extraparlamentari”, nati, appunto, alla fine degli anni sessanta e ulteriormente sviluppatisi con la loro esuberante combattività nel decennio successivo, divennero il bacino di un’opposizione antagonistica  di tale intensità e drammaticità da rendere improponibile l’ipotesi che tra essi e la “sinistra istituzionale” (compreso il Pci) potesse intercorrere una qualsiasi “relazione virtuosa”.  D’altra parte, mi chiedo e chiedo, che cosa è da intendersi  per “virtuoso”?  Non mi sembra che sia corretto applicare una categoria di giudizio morale ai processi storico-concreti della lotta politica. E, anche se fosse corretto, non saprei proprio come farlo.

  1. Come la crisi economica degli anni settanta ha contribuito a ridefinire il panorama politico delle sinistre in Europa?

Forse è ancora troppo presto per tentare un’analisi accurata di quanto è accaduto  dagli anni settanta in poi. E risulta parecchio difficile persino aver chiari e concreti riferimenti  per identificare oggi la “sinistra”  in una convulsione  di cambiamenti epocali che sta rendendo almeno antiquate se non addirittura del tutto inservibili le categorie in  uso nella cultura politica dell’età della “rivoluzione industriale“  di cui la cosiddetta  “postmodernità” − ovvero  la nuova rivoluzione strutturale postfordista che già nel 2000  ho definito, nel mio quasi ignorato  Eclissi del principe e crisi della storia,  “elettronico-informatica” − sta evidentemente segnando  la fine,  con la progressiva de-industrializzazione e con le conseguenti radicali trasformazioni in fieri nella morfologia delle classi e dei ceti sociali  che stanno mettendo in liquidazione sia la tradizionale “classe operaia” , sia la stessa tradizionale “borghesia”. Ecco, piuttosto che di “crisi economica” (ma quanto è lunga, di grazia, questa crisi!), parlerei di una “svolta epocale” consistente nell’apertura di un nuovo corso storico, di per sé rivoluzionario (nel senso dei processi  rivoluzionari indicati da Marx ed Engels  per lo sviluppo storico dei “sistemi di produzione”), di cui non è ancora possibile prevedere le forme mature di stabilizzazione nell’economia e nella società. Del resto – l’ho già scritto altrove e lo vado ripetendo – avrebbero mai potuto prevedere i deputati degli Stati generali francesi   dove sarebbe  arrivato alla fine  il processo rivoluzionario  di cui essi erano gli ancora inconsapevoli protagonisti all’atto del  “giuramento della Pallacorda”?  Certo non pare che esista  ai nostri giorni una qualsiasi sala della pallacorda nella quale “giurare”, da sinistra, per cambiare la realtà di un mondo che sempre più produce insicurezza e angoscia. Prevale, con l’insicurezza, la tendenza alla frantumazione. Un po’ tutti  restano confusi e si dividono  dinanzi  alle politiche e alle economie neoliberiste;  e i “miglioristi” (riformisti), in particolare, sembrano rassegnati a diventarne sostanzialmente i complici sofferenti, subendo il diktat della globalizzazione capitalistica.  La  crisi politica delle sinistre è  evidenziata  dai risultati delle consultazioni elettorali svoltesi nel 2010  in diversi Stati europei :  i socialisti francesi crollano ad un misero 16%; i tedeschi al 21%, gli svedesi al 24%; vanno meglio, ma  in discesa, i socialisti portoghesi  di José Socrates  che  perdono la maggioranza assoluta. Eppure  il SE (il partito della Sinistra Europea)  potrebbe ancora contare su forze ancora assai rilevanti nei vari Paesi: in Germania il 21-23% dell’elettorato sul quale per adesso riesce ad attestarsi  la SPD, se unito a quello di una LINKE al 12% e all’altro dei Verdi al 10%, oscillerebbe tra il 48 e il 50%; in Portogallo, sommando il 36%  dei socialisti di Socrates agli altri della sinistra (il 10%  dell’altra formazione socialista, l’8% di comunisti e verdi) si otterrebbe un rassicurante 54%. Superando la frantumazione, analoghi risultati potrebbero realizzarsi  nell’immediato  per la sinistra greca di George Papandreou e, in prospettiva, anche in Francia e in Spagna e in Italia. Solo che, in concreto, la divaricazione  tra “miglioristi” e antagonisti  non solo impedisce  la formazione di un fronte comune, ma  riaccende il fuoco di  vecchi, insuperati contrasti  sulla questione degli orientamenti strategici nei confronti del capitalismo. In questo, sembra sempre più che i “miglioristi”,  ovvero i cosiddetti “riformisti” , al di là dei proclami di opposizione, si stiano addirittura adattando a ritenere ineluttabile il corso liberista del capitalismo funzionale alla globalizzazione: un’evidente, grave  involuzione del tradizionale orientamento keynesiano delle socialdemocrazie.      
  1. Si può ritenere corretta una lettura che vede l’uso del termine “sinistra” non solo nell’accezione partitica ma soprattutto come espressione dell’incontro tra culture politiche, orientamenti di pensiero e visioni del mondo, spesso anche molto differenti tra loro ? Che ruolo ebbero in tal senso le realtà non propriamente partitiche nella ridefinizione della sinistra?

 Il termine “sinistra” non è mai stato  usabile soltanto nell’accezione partitica. Non si è di sinistra (e,simmetricamente, non si è  di destra) senza una specifica, seppure molto larga e sempre dilatabile, “visione del mondo” che nasce dal confronto dialettico tra diversi fuochi di elaborazione e di riflessione sulla condizione umana  alla ricerca di un qualche senso da dare alla vita (individuale e sociale), nonché, complessivamente alla storia. Il marxismo non sarebbe nato senza Hegel e l’hegelismo, senza la dialettica tra illuminismo e filosofia romantica, senza il confronto, sui grandi temi delle libertà reali e dei diritti del lavoro a fronte delle  ingiustizie e delle oppressioni; una dialettica che aveva già attraversato sia le correnti filantropiche laiche sia  altre di origine cristiana, nonché  il dibattito dei socialisti premarxiani. Guardando ai  processi  più vicini a noi nel tempo, appare evidente che alla formazione di una cultura politica di sinistra, ben al di là dei partiti e spesso a prescindere dalle loro specifiche vicende, abbiano grandemente contribuito certe importanti  culture politiche “trasversali” e radicali quali quelle  scaturite dalla riflessione sui diritti umani e sui diritti civili, sulla condizione femminile (il femminismo), sulla scienza  e sulla natura per la preservazione dell’ambiente della vita (l’ecologismo), ecc.  E hanno anche contribuito le visioni utopiche e profetiche (compresa quella cattolica che in Italia aveva già conosciuto l’originale elaborazione cattolico-comunista di Felice Balbo e di Franco Rodano). Per questo amo ripetere che, a maggior ragione in un’età come la nostra − che rende assai ardua la ricostituzione di un’identità della sinistra dinanzi al permeante “pensiero unico” della globalizzazione capitalistica − è importante, addirittura urgente, che i giovani riattivino la dialettica tra la realtà e l’utopia (si veda, in proposito il mio recente Globalmafia, edito da Bompiani).  Mi sembra che qualcosa del genere stia già accadendo con il movimento degli indignados. Altra cosa sarà mettere a punto un’efficace strategia.

  1. Quale ruolo hanno svolto le diverse generazioni politiche nella costruzione dell’identità della sinistra?

Le generazioni  (un concetto, questo di “generazione”, assai complesso e difficilmente usabile in storiografia, anche se io, come qualcuno sa, ci  ho tentato) all’atto della loro epifania giovanile hanno sempre avuto la tendenza a produrre opposizione al sistema, ma nell’orizzonte dei “valori” prodotti e professati dalle componenti progressiste della tradizione culturale e politica, ovvero della “paternità sociale”,  con la quale sono solite confrontarsi  all’interno del medesimo sistema: in altri termini, tendono a contestare ai “padri” di non essere stati all’altezza dei loro propositi , se non, addirittura, di avere eluso o falsificato o, peggio ancora,  tradito, i valori  costitutivi  dello loro profferte di modernità e di progresso civile. In altri termini, si sono mostrate inclini  a criticare e  a superre  il presente assumendo come riferimento il passato.  Così come accadde nel ’68 quando in Germania i giovani contestavano ai padri di  essere rimasti  sostanzialmente dei nazisti mentre esibivano un ricostituito volto democratico e, in Italia, quando i giovani  accusavano i padri di avere eluso o accantonato il portato ideale della Resistenza e dell’antifascismo. Ma, dopo il ’68, qualcosa si è rotto in questa dinamica: le generazioni emergenti, soprattutto dagli anni ottanta in poi , quasi certamente per effetto dei cambiamenti epocali indotti dal passaggio alla “postmodernità”,  hanno preso a guardare quasi esclusivamente al  futuro.  Si tratta, mi sembra, di un integrale processo di de-storicizzazione della “visione del mondo”, della cultura, della progettualità sociale e della politica e delle stesse istanze di cambiamento del presente (percepito come sempre più evanescente e funzionale al futuro),  che sta investendo anche la sinistra. La corsa al futuro va rendendo sempre meno consapevoli dell’esigenza di prepararlo, di fondarlo questo, assai spesso adulato, futuro, confrontando il presente con il passato. La storia viene così  sepolta nei suoi archivi, al massimo delegata a certi antiquati specialisti della memoria il cui sapere sarebbe inutile per la costruzione dell’avvenire; una “crisi della storia” forse irreversibile  ovvero, per meglio dire, della “storicità” , appunto come ho già scritto in un saggio appena citato pocanzi che pochi hanno avuto la pazienza di leggere.  Se ne producono effetti di distorsione e di falsificazione (spesso del tutto inconsapevoli)  sul concetto e sullo stesso linguaggio politico di quanti si dicono ancora di sinistra. Il che è da rilevare ampiamente per le parole “riformismo” e “riformista” che spesso si pronunciano , direi ormai quasi normalmente, senza avere idee chiare su quel che le rende di per sé  incompatibili con le istanze –pur ancora talvolta confusamente avvertite e intenzionalmente coltivate − di un reale, profondo, strutturale  cambiamento della realtà. 


10.Socialdemocratici, laburisti e socialisti, comunisti ortodossi e dissidenti, anarchici e trotskisti: è condivisibile la lettura in base alla quale tra queste anime e questi gruppi della sinistra contaminazioni e osmosi furono più frequenti di quanto normalmente si ritenga? La classica distinzione tra “riformisti” e “rivoluzionari” può sempre essere adottata in maniera univoca e monolitica o vanno proposte distinzioni che configurino diversi e a volta paralleli percorsi delle varie realtà della sinistra in Europa in base al paese e al momento storico?

Certamente le differenze di  strategia e di “vissuto sociale” di quel che chiamasi “sinistra”  sono state rilevanti,  da Paese a Paese, in rapporto ai diversi gradi di intensità e di estensione del conflitto sociale in ciascuna realtà e in rapporto alle  rispettive tradizioni “nazionali” dei movimenti di massa con un particolare ruolo di  quelle costituite storicamente dai  movimenti operai. E, naturalmente, le differenze non escludono né i confronti dialettici, né le osmosi e le reciproche contaminazioni. Si pensi alla netta differenza tra il laburismo britannico nato e sviluppatosi su un itinerario di originaria e reiterata  autonomia  dal marxismo  rispetto alle altre dell’Europa continentale per le quali il rapporto con il marxismo è stato invece costitutivo, almeno dal 1848 in poi. Ma è anche vero che la stessa storia del laburismo ha generato, al suo interno, delle componenti “marxiste” che  sono ancora  presenti come correnti “comuniste” – per quanto assai minoritarie – nello stesso  Labour Party. Anche per tutte le altre “differenze” (spesso, molto più che “differenze”, vere e proprie contrapposizioni) sono da registrare delle osmosi, ma fondamentalmente sul terreno concreto della prassi (mai della “dottrina”) dei loro militanti laddove le circostanze storiche abbiano fatto prevalere, sulle divisioni, delle comuni esigenze di lotta: per esempio, sul terreno dell’opposizione al fascismo o nel fuoco vivo di rivolte generazionali come il Sessantotto. In altri termini, piuttosto che di vere e proprie osmosi si è trattato,  come nei casi appena citati, di spontanee  “convergenze d’impeto” delle rispettive basi di militanza  determinate da un comune trascinamento negli impegni immediati e nelle passioni delle lotte. Quelle che chiamo “convergenze d’impeto”  potevano  essere registrate da parte degli avversari della sinistra nei termini di una  pericolosa fusione di forze  in un compatto fronte eversivo, ma chiunque conosca le cose dall’interno della sinistra sa bene che, a dispetto del comune trascinamento, i militanti  dei vari gruppi mantenevano tenacemente le loro diverse mentalità e culture politiche. Il che è particolarmente vero per gli anarchici, ed anche con più evidenza per i cosiddetti “radicali”,  della cui reale appartenenza alla sinistra in senso proprio c’è sempre stato molto da dubitare, essendo essi in gran parte − quale che sia la loro spesso autentica autorappresentazione di “rivoluzionari” − nient’altro che l’estrema espressione giacobina del liberalismo (di  per sé individualista e dalle indiscutibili origini “borghesi”).
Ma veniamo ad un altro punto della  domanda. Mi si chiede se ha ancora un senso la  classica distinzione tra “riformisti” e “rivoluzionari”. Ebbene, tutto quello che ho fin qui detto nel corso della nostra conversazione mi accredita come un fermo sostenitore della necessità, non solo teorica ma anche pratico-politica, di tener fede a tale distinzione. Lo spartiacque tra i due campi è costituito dall’orientamento nei confronti del sistema capitalistico. Occorre scegliere prendendo atto di una contraddizione non eludibile:  un sistema fondato sul culto dell’individualismo e su organiche diseguaglianze nonché sul mito del cosiddetto “libero mercato” (imposto dall’egemonia capitalistica dopo il 1989) non è compatibile con una prospettiva di  “democrazia reale” fondata sulla socializzazione e finalizzata alla giustizia sociale. Tertium non datur.  Quindi, fare “opposizione” all’interno del sistema capitalistico con il fine ufficiale di  “migliorarlo” è ben altra cosa di battersi  per il suo superamento, a tal punto  da far diventare persino dubbio che un’”opposizione” di  tal genere sia da riconoscere come un’opposizione reale, appena  sufficiente a definire un’identità di Sinistra (con la “m” maiuscola). Tra l’altro (ne ho già accennato) quanti riducono oggi l’essere di sinistra ad una vocazione “riformista” non sanno bene di che cosa stiano parlando: quali “riforme”?  Riformare l’esistente per andare indietro?  In Italia c’è già gente  ufficialmente di sinistra (ma  come dirla di Sinistra?) disposta ad accettare che siano da prendersi per  “riforme” certe leggi che vanno in una direzione opposta alla socialità e alla socializzazione o che sono surrettiziamente delle “controriforme” come, per citarne una, quella della ministra Gelmini per l’Università. E, continuando su questa strada, potrebbero assumere come  “riforma” anche un netto arretramento  delle conquiste  del mondo del lavoro accondiscendendo a modifiche regressive dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori.
 Certo, se proprio si volesse essere molto generosi con i concetti e con le parole, ci sarebbe da aver comprensione e rispetto per il fatto che siano esistiti, come continuano ad esistere, persino dei liberali (così come in passato dei “democristiani”) a loro modo decisi a ritenersi e a professarsi di “sinistra”. Ma non credo che per “cambiare il mondo” qual è, e quale non vogliamo più che sia,  risulti utile seguirli nelle loro presunzioni. Il che, mi sembra, è di particolare urgenza per una Sinistra che voglia riconquistarsi una sua certificante e non immaginaria identità di fronte al capitalismo globalizzato.   

  1. Dal suo punto di vista, quali sono gli errori che la sinistra italiana ha compiuto nel trentennio 1945-1973? Quali sono stati i nodi non risolti che poi l'hanno portata alla crisi della fine degli anni ottanta? Quali meriti e quale ruolo positivo hanno giocato le sinistre nel processo di ricostruzione materiale e morale in Italia dopo il ventennio fascista e la guerra? 


 Con questa domanda, in pratica  mi si chiede di  ripercorrere  l’intera storia politica e sociale della   cosiddetta “prima repubblica”. Francamente, non è un impegno che posso assumermi nei limiti di questa conversazione. Posso soltanto fissare alcuni punti fermi. E  comincio con quelli che riguardano i “meriti” complessivi delle sinistre italiane: senza la loro azione, pur travagliata e spesso contraddittoria, non avremmo avuto la  repubblica, la Costituzione di cui andiamo giustamente fieri, lo Stato sociale, lo Statuto dei lavoratori,  la conquista di numerosi diritti civili per entrambi i sessi e, soprattutto, quel tanto che – nonostante i limiti e poi il recente degrado prodottosi sulla mentalità e sul costume di una larghissima area sociale con il berlusconismo  −   ci è dato di costatare in termini di capillare e diffusa educazione alla democrazia.  E che dire quanto agli errori? A voler rispondere, gli interrogativi si moltiplicano.  In che senso errori, se di errori è corretto parlare, e rispetto a chi e a che cosa? E poi, è meglio parlare di errori o di sbandamenti? E ancora: sbandamenti della prassi politica o concrete impossibilità di far diversamente nelle condizioni date di un Paese complesso e assai conflittuale come il nostro, con ceti popolari di recente e mai  pienamente superata arretratezza, con un generalizzato costume tendente alla corruzione della vita pubblica e al trasformismo della politica?   In ogni caso, errori, sbandamenti  o impossibilità che siano, la loro identificazione e la loro valutazione dipendono dai due punti di vista, ben poco conciliabili tra loro, della sinistra  socialdemocratica  da una parte e della sinistra comunista e  antagonista dall’altra. Per  l’una, l’errore complessivo della sinistra sarebbe consistito nella sua mancata unificazione sul terreno del riformismo, con una Bad Godersberg italiana. E, con un siffatto giudizio – a parte molto improbabili valutazioni autocritiche circa l’inferiorità culturale e progettuale del loro miope ceto politico americanista rispetto alle ben più laica ed autonoma SPD tedesca − la responsabilità dell’errore verrebbe addossata  alla controparte comunista  e antagonista. Nodo irrisolto: la tardiva, e mai del tutto chiara, rottura del Pci con l’Unione sovietica; una mancata adesione al “mondo libero” e antitotalitario dell’Occidente antisovietico , indicata come responsabile della divisione delle forze socialiste,  ovvero di una contrapposizione a sinistra  determinata da due opposte e inconciliabili scelte  di modelli di civiltà,  alla quale la polemica politica ha fatto risalire, nella vita della repubblica,  le cause di quell’interminabile stagione democristiana che, secondo Alberto  Ronchey ed  altri, avrebbe caratterizzato l’Italia come una “democrazia bloccata”, incapace di sviluppare una dialettica democratica tra Sinistra e Destra in un rassicurante ambito liberaldemocratico: una democrazia  sotto la vigilanza sempre allarmata degli americani (in sostanza in uno Stato consegnato ad una “sovranità limitata”), appiattitasi  sul “centrismo”  già strategicamente impostato da De Gasperi come unica  formula politica possibile per l’Italia,  mantenutasi negli anni,  in un circolo vizioso di sostanziale stagnazione, a dispetto della timida e insufficiente variante del “centro-sinistra”. Si sarebbe trattato, in altri termini, della mancata rimozione di quell’ostacolo all’unità della sinistra che Ronchey chiamava “fattore K” , il fattore che più inquietava, e addirittura terrorizzava, le masse dei moderati italiani  e che – in un orizzonte internazionale diviso nei due fronti avversi  della guerra fredda −  faceva gravare sulla Sinistra il divieto americano di accedere autonomamente alla guida del governo, dati gli sconvolgenti effetti che se ne temevano  per il sistema di alleanze della Nato.   Di contro, sia i comunisti  che i più vari militanti della sinistra antagonista hanno abbondanti motivi  per sostenere  che soltanto il loro impegno di tenere in vita una strategia rivoluzionaria sulla  linea strategica  inaugurata dalla “rivoluzione di ottobre” (pur ancorata alla giudiziosa tattica della “guerra di posizione”) ha consentito alla sinistra italiana di continuare ad esistere come… una vera Sinistra senza cedere alle sirene dell’americanismo. Semmai, nel caso specifico di questa sinistra rivoluzionaria,, gli errori sarebbero da vedersi nelle non poche incertezze e  incoerenze  registratesi  tra opportunismi e contaminazioni  − penso, per le contaminazioni, a quel certo “migliorismo” formatosi come  corrente all’interno del Pci − nel perseguimento di tale strategia, a partire dalla “doppiezza” già denunziata da Togliatti.
Per il resto, mi tengo qui molto sulle generali per  indicare qualcuno degli errori  addebitabili quasi in esclusiva a quella parte della sinistra italiana  che ha avuto modo di accedere in vari tempi al governo del Paese  insieme alla Dc. Normalmente – se si fa un po’ eccezione  per il finale tentativo di Bettino Craxi di conquistarsi un ruolo più incisivo sfruttando la “rendita di posizione”, ovvero di interdizione, assicuratagli dal suo oscillante e precario 10-14% in un parlamento formato con il sistema elettorale proporzionale − si trattò di un ruolo di governo segnato dalla subalternità. I socialisti  nei governi Moro degli anni sessanta e in quelli successivi  del “centro-sinistra”   si erano adattati, nonostante i loro programmi, a non ancorare gli sviluppi concreti dello “Stato sociale” ad un’organica  “programmazione economica”:  il loro era stato, ben al  di sotto di un vero e proprio socialismo,  una specie di  keynesismo d’abord.  Infine, negli anni ruggenti di Craxi e della “Milano da bere” vissuti nel connubio con la Dc di Andreotti  (1983-1987, nonché i successivi al segno del  vivace protagonismo craxiano), gli anni della corruzione sviluppatasi nel sistema di Tangentopoli, quei socialisti sempre meno connotati da credibile socialismo avrebbero interpretato il loro ruolo soprattutto come quello di una forza-guida  della società dei consumi e del consumismo, favorendo la dilatazione delle spesa pubblica a scapito del bilancio dello Stato, il cui crescente indebitamento sarebbe stato scriteriatamente rinviato alle future generazioni. E, in tale allegro contesto, in uno con la stabilizzazione di un organico sistema di corruzione della politica e dell’economia, sarebbero diventati anche organici i rapporti con i poteri mafiosi  più o meno occultamente radicatisi, in varie forme, nell’intero territorio nazionale, e resi ancora più forti da una contestuale espansione del fenomeno nel quadro internazionale. Il fatto che  il prezzo dell’intera vicenda di dissesto e corruzione  sia stato poi  pagato soprattutto dal Psi (il più antico ed illustre, e per decenni benemerito,  partito dei lavoratori italiani)  con la sua fine ingloriosa  proprio a cent’anni dalla sua fondazione, è un fatto che costituisce una sconfitta storica dell’intera sinistra italiana. Tanto pesante e tanto scottante quella sconfitta, da aver reso improponibile in Italia persino il nome “socialismo”.   

  1. Quale ruolo ha giocato nella definizione di un'identità comune della sinistra europea la peculiarità della sinistra italiana, della sua storia così diversa da quella delle tradizioni europee - come quella socialista francese, quella socialdemocratica tedesca e scandinava, quella laburista inglese?

Anche una risposta a questa domanda comporterebbe la fatica di scrivere, ben più che un saggio, un ampio e complesso  trattato. Spero che qualcuno abbia mezzi e tempo per scriverlo. Da marxista,  e comunista non pentito qual sono, ritengo che la sinistra italiana avrebbe potuto giocare (ma non ha giocato)  un ruolo decisivo nella definizione di un’identità comune della sinistra europea, con Gramsci e con il gramscismo, ovvero con quella mirabile strategia elaborata da Gramsci per mettere in concreta sintonia democrazia e socialismo ai fini di un autentico cambiamento rivoluzionario nelle società  avanzate dell’Occidente.  Ad assumere questo ruolo ci tentò  Enrico Berlinguer con la sua proposta di “eurocomunismo”. Non ci riuscì. Può darsi, almeno lo spero,  che qualche forza emergente della “sinistra che non si accontenta”  prima o poi ci riesca, in forme nuove adeguate ai tempi. La lezione di Gramsci è sempre più attuale, così come sta riprendendo quota, dopo anni di oblio e di dileggiante abbandono, l’analisi marxista del capitalismo di fronte agli effetti devastanti del potere mondiale del capitalismo finanziario.
Detto questo, certo non va dimenticato il contributo rilevantissimo che  una particolare sinistra italiana (quella liberalsocialista del partito d’azione nato dal lavoro politico e dalla tragica testimonianza di Carlo Rosselli) diede alla stessa idea di Europa,  a partire  dal  “Manifesto di Ventotene”, scritto  sotto la scure fascista, al confino di polizia,  da due grandi esponenti della sinistra libertaria del livello di  Altiero Spinelli e di  Ernesto Rossi con proposte profetiche (poi, purtroppo, solo parzialmente  valorizzate e largamente eluse dal processo di unificazione europea).  Spostando l’attenzione alla sinistra socialdemocratico-migliorista, non è facile cogliere e vagliare un ruolo specifico svolto per la formazione di una sinistra europea dal Psi, al di là della costante recitazione “atlantista” ed americanista di un Giuseppe Saragat alla testa del suo gracile e corrotto Psdi.  Si può immaginare− ma andrebbe specificamente studiato – il ruolo poi svolto da Bettino Craxi per  lo sviluppo omogeneo, in Europa, di  una sorta di spurio “socialismo  liberista” o, se si preferisce, opportunista (da tempo Craxi aveva abbandonato Marx e il marxismo, inizialmente nel nome di un riscoperto Proudhon!) nel quadro delle intense relazioni intrattenute a fine secolo con i vari Tony Blair, Felipe Gonzàles, Francois Mitterand, Mario Soares, Michel Rocard e Andreas Papandreou.

Lei è un attento osservatore della realtà politica dell’Italia: come vede l'ormai più che decennale crisi d'identità della sinistra italiana e la difficile unità delle sue molte anime?

La crisi di identità della sinistra italiana (e non solo di quella italiana) è di lunga durata. Fa bene la domanda  a suggerire che è “più che decennale”. Sarebbe impossibile indicarne una precisa  data di partenza. Si tratta, infatti, di un processo che è tutt’uno con gli sviluppi della trasformazione epocale (di cui ho già parlato) divenuta sempre più evidente, in Italia e in tutto l’Occidente, dagli anni ottanta del secolo scorso in poi. Centrale in questa crisi, come ho già detto, è il portato delle profonde mutazioni  indotte dalla “rivoluzione elettronico-informatica” nel sistema di produzione e nella morfologia delle classi e dei ceti sociali.   La ricerca di identità  va diventando  affannosa, e forse ormai disperata, perché ci si accorge di non possederne una qualsiasi che risulti convincente. Per l’identità, accade esattamente quel che è dato constatare anche per la memoria storica: la si invoca tanto più  ansiosamente, e con enfasi, quanto più ci si accorge che la si sta smarrendo.  Il dato storico, in Italia, è che tutti i partiti dell’assai composita e frantumata  sinistra sviluppatasi nell’imperfetto processo di unificazione sociale di centocinquanta anni di Stato unitario non hanno varcato la soglia  del nuovo millennio: né il Psi, né il Pci, né tutte le loro controverse e litigiose filiazioni e diaspore nel tempo. Ritengo che adesso la “forma-partito” (che è, come aveva già ben colto tempestivamente Pietro Ingrao, una forma politica ottocentesca, propria di una società di massa ancora appartenente al vecchio e superato quadro  della  “rivoluzione industriale”) non sia la più idonea a dare organicità alla ricomposizione delle cosiddette “anime” della sinistra. Oltre tutto – a parte quel che serve ai fini della rappresentanza in parlamento tramite le dinamiche elettorali – non saprei proprio se una siffatta “organicità” sia ancora necessario proporsela come un traguardo. Il futuro probabilmente si costruisce nell’attivazione (tramite canali tra i quali Internet sarà sempre più chiamato a svolgere un ruolo fondamentale)  di ampie aree di dibattito collettivo e di dialettici movimenti interindividuali di critica all’esistente e di consequenziale impegno politico. Naturalmente per una siffatta attivazione e per la l’espansione sociale del processo saranno ancora importanti i gruppi di “militanza”, con un ruolo analogo, seppure ampiamente rinnovato, a quello che Lenin e Gramsci attribuivano alle “avanguardie”.  

  1. E in chiave europea di quale identità possiamo parlare oggi per la sinistra? Il riformismo è l'unico destino possibile per la sinistra europea?

Se tentassi di dare una risposta soltanto per…rispondere, mi sentirei colpevolmente elusivo e imperdonabilmente retorico. Quanto ho già detto  per l’Italia mi sembra valga anche per l’Europa.  Aggiungo, per dirla con l’acuto  Zygmunt  Bauman, che in una “società liquida”  è normale che diventino altrettanto “liquide”, anche le idee e le culture politiche. La cosa, ovviamente, vale sia per quel che si è ancora soliti indicare come sinistra, sia  per quel che, di contro, si indica (forse con minore pericolo di sbagliarne l’identificazione) come destra. Rimane certo, al di là della loro  “liquefazione” (o, se si preferisce della loro consunzione),  che le due parole  continuano ad assolvere un ruolo identitario, e a mantenere un valore significante,  proprio attraverso la loro contrapposizione: si è di “sinistra” perché non si è di “destra” e viceversa. Certamente sono parole da usare in un modo diverso  rispetto all’uso che se ne faceva in passato, dati i profondi cambiamenti strutturali che la grande trasformazione in corso (la “rivoluzione della postmodernità) ha determinato  a carico dei loro rispettivi, tradizionali soggetti sociali di riferimento:  il proletariato industriale (la classe operaia)  e il padronato (la borghesia nazionale). Tuttavia, il  doverle  usare  adesso in modo diverso, non fa  affatto venir meno per una sinistra che voglia ancora così “identificarsi”, il suo compito storico di  lottare contro tutte le forze manifeste o surrettizie della “destra” che siano di ostacolo alla realizzazione di una “democrazia reale” (di per sé necessariamente anticapitalistica), idonea a rimuovere le ingiustizie e a conseguire il più ampio rispetto dei diritti umani in una nuova società il più possibile egualitaria. Se, nella condizioni imposte dalla “postmodernità”, tutto questo appare come un’utopia, ebbene − l’ho già detto −  è giocoforza per la sinistra attivare una dialettica tra l’utopia e i processi reali della trasformazione. Mi sembra che dal mondo giovanile stiano emergendo dei segnali incoraggianti, in una siffatta direzione. Il laboratorio per la formazione di una nuova sinistra è appena aperto e non è dato prevedere a quali risultati perverrà in futuro una difficile elaborazione che non può comunque dipendere né da tenere nostalgie per un grande e nobile passato ormai irrimediabilmente archiviato, né da interminabili tentativi  di “rifondazione” di travolte esperienze.  Meno che mai, da un adeguamento, che pur si reputi giudizioso e voglia proporsi con animo “progressista”, ai diktat della globalizzazione capitalistica. Se il cosiddetto “riformismo” (che è appunto, un siffatto  adeguamento  subalterno, per quanto a volte sofferto)  fosse l’unico destino della sinistra europea, dovremmo rassegnarci in Europa a non avere più una … Sinistra!  Nessuno, infatti, neppure con la migliore finesse  di valutazione, riuscirebbe più a distinguerla dalla Destra.