pubblicata da Nella Toscano il giorno martedì 31 agosto 2010 alle ore 22.40
Lo spettacolo inverecondo a cui abbiamo assistito in occasione della visita di Gheddafi in Italia ci ha dato la chiara rappresentazione del degrado morale e politico in cui è precipitata questa nostra povera Italia, governata dal centro destra e da un devastatore della democrazia come b.
Per fortuna, quando ci sembrava di essere sprofondati nel ridicolo, da Como ci è arrivato un segnale di risveglio incoraggiante da parte di un gruppo di persone che coraggiosamente ha impedito a Dell'Utri di illustrare i diari del Duce!
Ancora una volta però abbiamo dovuto prendere atto di un'opposizione che rinuncia a fare sentire alto il proprio dissenso e questo non può che preoccuparci.
Eppure per uscire da questa situazione drammatica in cui l'Italia si è cacciata ci sarebbe bisogno di una sinistra forte e determinata con una visione del futuro che possa dare speranza a tutti e, soprattutto, a quella parte di Italiani che più sta pagando il prezzo di questo sfacelo.
Penso ai precari della scuola, penso ai lavoratori della Fiat il cui futuro appare incerto, penso al degrado della sanità pubblica che ogni giorno miete vittime, penso all'informazione che non è più libera, penso al degrado ambientale, penso alle pensioni, agli stipendi dei lavoratori che non bastono più per vivere, penso al dramma di chi non ha una casa, penso alla devastazione dellla giustizia ad opera di questa maggioranza, alla sicurezza che non c'è più perchè questo governo toglie i fondi necessari per poterla garantire, penso alla pericolosià di una criminalità sempre più aggressiva, penso a chi non ha più un lavoro, ad un libero mercato libero di affamare chi non ce la fa ed alle altre mille cose che non vanno e mi domando cosa sta facendo la sinistra, o meglio quella che noi chiamiamo sinistra, soprattutto quella che siede in Parlamento, cosa sta proponendo per uscire da questa situazione. Quale è il suo progetto per cambiare l'Italia!
Nessun progetto, nessuna proposta ci risulta sia stata avanzata, anzi si brancola nel buio più totale e allora mi domando, si può continuare così?
La risposta è scontata: Se vogliamo salvarci non si può!
Per questo credo che deve partire dalla base la proposta di un progetto per cambiare l'Italia!
Un progetto che dia risposte alle mille domande e che nasca dalla conoscenza del territorio e dei bisogni reali delle persone, un progetto elaborato dalla base per cercare di far nascere una nuova sinistra unita sulla base di valori condivisi.
Questa è la sfida e questo dobbiamo fare, altre strade non ne vedo!
Nella Toscano
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martedì 31 agosto 2010
sabato 28 agosto 2010
Giacomo Matteotti, un politico al servizio dei più deboli, un "giustizialista" nell' Italia delle "Caste" .
Giacomo Matteotti, un politico al servizio dei più deboli, un "giustizialista" nell' Italia delle "Caste" .
pubblicata da Marisa Clara Celeste Corazzol il giorno sabato 28 agosto 2010 alle ore 9.22
Nell'Italia di oggi, il nome di Giacomo Matteotti vive soltanto nella toponomastica: viale Matteotti, corso Matteotti, largo Matteotti, piazza Matteotti, non c'è quasi città italiana dove non si sia voluto rendere omaggio - subito dopo la Liberazione - alla figura del martire antifascista.
Ma se non fosse per questo, cioè per la sopravvivenza che gli viene garantita dai postini, dai navigatori satellitari e da Google Maps, Matteotti sarebbe scomparso dalla nostra vita pubblica e privata. Come don Abbondio di Carneade, potremmo dire di Matteotti: chi era costui? Non se ne sono ricordati neppure i fondatori del Partito democratico, quando hanno discusso (o hanno fatto finta di discutere) chi più meritasse di far parte del loro "pantheon".
Eppure, una volta ripulita dallo smog delle strade e dalla polvere della storia, la figura di Matteotti sembrerebbe fatta apposta per servire all'Italia del 2010: ogni singolo ingrediente dell'esperienza politica di quest'uomo ci tornerebbe assai utile. A cominciare dal famoso «radicamento sul territorio» di cui oggi tanto si parla o si straparla, e che Matteotti interpretò in modo esemplare dapprima quale amministratore locale di vari comuni del Polesine, poi quale deputato di Rovigo al parlamento nazionale.
Dimentichiamoci la sua morte: massacrato di botte da quattro o cinque energumeni in un pomeriggio romano del giugno 1924, colpito da una pugnalata al cuore, trasportato cadavere in una boscaglia lungo la via Flaminia, occultato alla benemeglio sotto pochi centimetri di terra, fatto ritrovare un paio di mesi più tardi. Così pure, dimentichiamoci la sua esistenza d'oltretomba: il culto quasi religioso che un'Italia soggiogata e impaurita, ma non domata, scelse di votargli per vent'anni dopo il delitto, nell'interminabile attesa di una rivincita.
Dimentichiamo tutto questo, e pensiamo alla vita di Giacomo Matteotti. Guardiamo all'uomo, non al martire. E domandiamoci se non ci sarebbe gran bisogno - qui e adesso - di un politico come lui. Della sua idea di militanza come servizio dell'interesse pubblico anziché del vantaggio privato. Della sua pratica di un riformismo concreto, attuoso, costruito sui fatti anziché sulle parole. Del suo carisma personale, tanto evidente quanto poco sbandierato. E anche (come no?) della sua scommessa sul futuro della socialdemocrazia: della sua battaglia per un mondo più giusto perché meno diseguale.
Il suo fu radicamento economico e sociale, nella misura in cui - rampollo di una famiglia della borghesia agraria - doveva quotidianamente misurarsi con la miseria dei braccianti del delta del Po. Fu anche radicamento intellettuale e morale, nella misura in cui lo studente di legge nella vicina Bologna ritornava appena possibile nella sua Fratta Polesine per studiarne, in biblioteca e in parrocchia, la storia locale. O per rifarsi gli occhi con le meraviglie artistiche del luogo: le tele di Tintoretto e di Tiepolo, la villa Badoer di Palladio.
Da amministratore di Fratta e di altri comuni della provincia di Rovigo, tra il 1912 e il 1920, Matteotti si fece soprattutto la fama dello spulciatore di bilanci: quanti sindaci e segretari comunali se lo sognavano di notte... Il suo primo criterio d'intervento era fondato sulla compatibilità necessaria fra i preventivi di spesa e le risorse finanziarie del municipio. Niente debiti per i comuni: se non c'erano soldi in cassa, si rinunciava alla spesa. Il secondo criterio riguardava non le uscite ma le entrate. Se per le opere pubbliche mancavano i soldi, bisognava aumentare l'imposizione locale.
I contratti per i grandi lavori pubblici andavano scrutinati con la lente d'ingrandimento: nelle stipule con le imprese private, gli amministratori locali di un secolo fa non erano necessariamente più onesti degli amministratori d'oggidì. Bersaglio fisso di Matteotti anche le delibere d'urgenza delle giunte comunali: un'altra fonte di abusi per cent'anni ancora della storia d'Italia.
Al tempo nostro - il tempo della "casta" - l'immagine del brillante giurista trentenne chino sulle carte di minuscoli comuni rodigini (oltre a Fratta, Villamarzana, Villanova del Ghebbo, Fiesso Umbertiano, Frassinelle Polesine) per verificare che non un soldo pubblico facesse una brutta fine, quell'immagine rischia di apparire tanto strana da riuscire surreale. Ma questo era Matteotti, e anche perciò si può avvertire, oggi, un tanto acuto bisogno di lui.
Ci manca come il pane la sua interpretazione della militanza politica quale etica del lavoro e della conoscenza: la medesima forma di militanza che proseguì a Roma, deputato socialista, dal 1919 al '24. «Passava ore e ore - ricorderà un compagno di partito - nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose».
Fondato sulle cose: e la cosa che più turbava Matteotti era la diseguaglianza sociale. Di suo, era molto ricco: aveva ereditato dal padre oltre 150 ettari di terra, gli avversari - da destra o da sinistra - lo irridevano come il «socialista milionario». Più che dei profitti dei suoi terreni, Matteotti si preoccupava dei diseredati del Polesine, analfabeti al 60-70 per cento. Da deputato, le sue battaglie per maggiori finanziamenti alla pubblica istruzione (edilizia scolastica, biblioteche popolari, corsi serali per adulti) fecero tutt'uno con le sue accuse contro gli insegnanti meno scrupolosi, quelli che un ministro veneto di oggi chiamerebbe i "fannulloni".
Del resto, nel 1920, quando un ministro della Pubblica istruzione chiamato Benedetto Croce gli parve discutere dei problemi della scuola restando sempre sul vago, senza padroneggiare i dossier, dallo scranno di Montecitorio Matteotti non fece sconti neppure a lui: «Voi state speculando filosoficamente sulle nuvole. Qui non si viene con i libri di estetica, ma con dei programmi pratici e questi si ha il dovere di assolvere».
Alla sua maniera, il socialista Matteotti era un liberale. Dopo l'avvento al potere di Mussolini, nel 1922, gli capitò di rimproverare al governo certi interventi di sostegno statale all'economia privata, come pure certe misure protezionistiche in materia di dazi doganali. Con Filippo Turati, Matteotti lasciò il Psi e fondò il Psu (Partito socialista unitario) quando si convinse che il filo-sovietismo dei massimalisti avrebbe consegnato l'Italia alle destre, mentre serviva un riformismo socialdemocratico. A quel punto, era comunque troppo tardi. L'ex socialista Mussolini aveva ormai in mano il governo del paese, e non l'avrebbe più mollato per vent'anni, a prezzo di infinite sciagure. Il radicamento di Matteotti sul territorio del suo Polesine contribuì a rendergli chiara la natura di classe del fenomeno fascista: l'alleanza dei ceti medi con gli agrari, contro i diritti acquisiti dal bracciantato in decenni di sacrifici e di lotte. Dopodiché, a quest'uomo delle istituzioni non restò che battersi puntigliosamente, coraggiosamente, disperatamente, per tutelare le ultime vestigia del santuario democratico. Dal 1923 al '24, l'emiciclo di Montecitorio risuonò delle sue denunce contro il ricorso sistematico del governo Mussolini allo strumento dei decreti-legge; contro la tentazione mussoliniana di limitare la libertà di stampa dei giornali antifascisti; contro i numeri truccati della propaganda governativa riguardo alla situazione economica. Il 10 giugno 1924, Matteotti fu ucciso per volontà di Mussolini (o per suo ordine) anche perché si preparava a denunciare un affare di corruzione: una sporca connection ai vertici del potere, concessioni petrolifere all'impresa americana Sinclair Oil in cambio di tangenti a una "cricca" vicinissima al duce e ai massimi dirigenti del Partito nazionale fascista. Sicari al soldo di Mussolini ebbero paura che le rivelazioni di Matteotti sulla "convenzione Sinclair" suscitassero un tale scandalo nel paese da provocare la caduta del governo, e assassinarono il deputato socialista alla vigilia del giorno in cui ne avrebbe parlato alla Camera.
Nell'Italia del 2010, un uomo come Giacomo Matteotti si meriterebbe l'appellativo - parlandone da vivo - di «giustizialista». È infatti questa la parola con cui si suole oggi definire chi ancora crede che la magistratura debba esercitare sino in fondo il suo ruolo di ordine indipendente: perseguendo senza fallo le violazioni del codice penale, quand'anche vengano compiute dalle massime cariche dello stato. Ma è proprio in nome di un'idea nobile, alta, severa della giustizia, che alcuni di noi possono tanto più rimpiangere l'assenza, qui e adesso, di un nuovo Matteotti.
Giacomo Matteotti nasce a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, il 22 maggio del 1885.
I Matteotti sono una famiglia benestante. Dopo il liceo, Giacomo si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove si laurea con una tesi in diritto penale.
Le prime testimonianze della sua militanza politica risalgono al 1904, quando inizia a collaborare al periodico socialista di Rovigo ‘La Lotta’. Non sappiamo su quali letture maturi la sua fede politica, né come viva i contrasti interni al partito socialista dei primi anni del secolo. I biografi di Matteotti ci raccontano che dalla fine del 1910 il giovane socialista è fra i protagonisti della vita politica e amministrativa di Rovigo, che nel 1912 è un fiero avversario della guerra di Libia, e che allo scoppio della prima guerra mondiale si schiera risolutamente per la neutralità.
pubblicata da Marisa Clara Celeste Corazzol il giorno sabato 28 agosto 2010 alle ore 9.22
Nell'Italia di oggi, il nome di Giacomo Matteotti vive soltanto nella toponomastica: viale Matteotti, corso Matteotti, largo Matteotti, piazza Matteotti, non c'è quasi città italiana dove non si sia voluto rendere omaggio - subito dopo la Liberazione - alla figura del martire antifascista.
Ma se non fosse per questo, cioè per la sopravvivenza che gli viene garantita dai postini, dai navigatori satellitari e da Google Maps, Matteotti sarebbe scomparso dalla nostra vita pubblica e privata. Come don Abbondio di Carneade, potremmo dire di Matteotti: chi era costui? Non se ne sono ricordati neppure i fondatori del Partito democratico, quando hanno discusso (o hanno fatto finta di discutere) chi più meritasse di far parte del loro "pantheon".
Eppure, una volta ripulita dallo smog delle strade e dalla polvere della storia, la figura di Matteotti sembrerebbe fatta apposta per servire all'Italia del 2010: ogni singolo ingrediente dell'esperienza politica di quest'uomo ci tornerebbe assai utile. A cominciare dal famoso «radicamento sul territorio» di cui oggi tanto si parla o si straparla, e che Matteotti interpretò in modo esemplare dapprima quale amministratore locale di vari comuni del Polesine, poi quale deputato di Rovigo al parlamento nazionale.
Dimentichiamoci la sua morte: massacrato di botte da quattro o cinque energumeni in un pomeriggio romano del giugno 1924, colpito da una pugnalata al cuore, trasportato cadavere in una boscaglia lungo la via Flaminia, occultato alla benemeglio sotto pochi centimetri di terra, fatto ritrovare un paio di mesi più tardi. Così pure, dimentichiamoci la sua esistenza d'oltretomba: il culto quasi religioso che un'Italia soggiogata e impaurita, ma non domata, scelse di votargli per vent'anni dopo il delitto, nell'interminabile attesa di una rivincita.
Dimentichiamo tutto questo, e pensiamo alla vita di Giacomo Matteotti. Guardiamo all'uomo, non al martire. E domandiamoci se non ci sarebbe gran bisogno - qui e adesso - di un politico come lui. Della sua idea di militanza come servizio dell'interesse pubblico anziché del vantaggio privato. Della sua pratica di un riformismo concreto, attuoso, costruito sui fatti anziché sulle parole. Del suo carisma personale, tanto evidente quanto poco sbandierato. E anche (come no?) della sua scommessa sul futuro della socialdemocrazia: della sua battaglia per un mondo più giusto perché meno diseguale.
Il suo fu radicamento economico e sociale, nella misura in cui - rampollo di una famiglia della borghesia agraria - doveva quotidianamente misurarsi con la miseria dei braccianti del delta del Po. Fu anche radicamento intellettuale e morale, nella misura in cui lo studente di legge nella vicina Bologna ritornava appena possibile nella sua Fratta Polesine per studiarne, in biblioteca e in parrocchia, la storia locale. O per rifarsi gli occhi con le meraviglie artistiche del luogo: le tele di Tintoretto e di Tiepolo, la villa Badoer di Palladio.
Da amministratore di Fratta e di altri comuni della provincia di Rovigo, tra il 1912 e il 1920, Matteotti si fece soprattutto la fama dello spulciatore di bilanci: quanti sindaci e segretari comunali se lo sognavano di notte... Il suo primo criterio d'intervento era fondato sulla compatibilità necessaria fra i preventivi di spesa e le risorse finanziarie del municipio. Niente debiti per i comuni: se non c'erano soldi in cassa, si rinunciava alla spesa. Il secondo criterio riguardava non le uscite ma le entrate. Se per le opere pubbliche mancavano i soldi, bisognava aumentare l'imposizione locale.
I contratti per i grandi lavori pubblici andavano scrutinati con la lente d'ingrandimento: nelle stipule con le imprese private, gli amministratori locali di un secolo fa non erano necessariamente più onesti degli amministratori d'oggidì. Bersaglio fisso di Matteotti anche le delibere d'urgenza delle giunte comunali: un'altra fonte di abusi per cent'anni ancora della storia d'Italia.
Al tempo nostro - il tempo della "casta" - l'immagine del brillante giurista trentenne chino sulle carte di minuscoli comuni rodigini (oltre a Fratta, Villamarzana, Villanova del Ghebbo, Fiesso Umbertiano, Frassinelle Polesine) per verificare che non un soldo pubblico facesse una brutta fine, quell'immagine rischia di apparire tanto strana da riuscire surreale. Ma questo era Matteotti, e anche perciò si può avvertire, oggi, un tanto acuto bisogno di lui.
Ci manca come il pane la sua interpretazione della militanza politica quale etica del lavoro e della conoscenza: la medesima forma di militanza che proseguì a Roma, deputato socialista, dal 1919 al '24. «Passava ore e ore - ricorderà un compagno di partito - nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose».
Fondato sulle cose: e la cosa che più turbava Matteotti era la diseguaglianza sociale. Di suo, era molto ricco: aveva ereditato dal padre oltre 150 ettari di terra, gli avversari - da destra o da sinistra - lo irridevano come il «socialista milionario». Più che dei profitti dei suoi terreni, Matteotti si preoccupava dei diseredati del Polesine, analfabeti al 60-70 per cento. Da deputato, le sue battaglie per maggiori finanziamenti alla pubblica istruzione (edilizia scolastica, biblioteche popolari, corsi serali per adulti) fecero tutt'uno con le sue accuse contro gli insegnanti meno scrupolosi, quelli che un ministro veneto di oggi chiamerebbe i "fannulloni".
Del resto, nel 1920, quando un ministro della Pubblica istruzione chiamato Benedetto Croce gli parve discutere dei problemi della scuola restando sempre sul vago, senza padroneggiare i dossier, dallo scranno di Montecitorio Matteotti non fece sconti neppure a lui: «Voi state speculando filosoficamente sulle nuvole. Qui non si viene con i libri di estetica, ma con dei programmi pratici e questi si ha il dovere di assolvere».
Alla sua maniera, il socialista Matteotti era un liberale. Dopo l'avvento al potere di Mussolini, nel 1922, gli capitò di rimproverare al governo certi interventi di sostegno statale all'economia privata, come pure certe misure protezionistiche in materia di dazi doganali. Con Filippo Turati, Matteotti lasciò il Psi e fondò il Psu (Partito socialista unitario) quando si convinse che il filo-sovietismo dei massimalisti avrebbe consegnato l'Italia alle destre, mentre serviva un riformismo socialdemocratico. A quel punto, era comunque troppo tardi. L'ex socialista Mussolini aveva ormai in mano il governo del paese, e non l'avrebbe più mollato per vent'anni, a prezzo di infinite sciagure. Il radicamento di Matteotti sul territorio del suo Polesine contribuì a rendergli chiara la natura di classe del fenomeno fascista: l'alleanza dei ceti medi con gli agrari, contro i diritti acquisiti dal bracciantato in decenni di sacrifici e di lotte. Dopodiché, a quest'uomo delle istituzioni non restò che battersi puntigliosamente, coraggiosamente, disperatamente, per tutelare le ultime vestigia del santuario democratico. Dal 1923 al '24, l'emiciclo di Montecitorio risuonò delle sue denunce contro il ricorso sistematico del governo Mussolini allo strumento dei decreti-legge; contro la tentazione mussoliniana di limitare la libertà di stampa dei giornali antifascisti; contro i numeri truccati della propaganda governativa riguardo alla situazione economica. Il 10 giugno 1924, Matteotti fu ucciso per volontà di Mussolini (o per suo ordine) anche perché si preparava a denunciare un affare di corruzione: una sporca connection ai vertici del potere, concessioni petrolifere all'impresa americana Sinclair Oil in cambio di tangenti a una "cricca" vicinissima al duce e ai massimi dirigenti del Partito nazionale fascista. Sicari al soldo di Mussolini ebbero paura che le rivelazioni di Matteotti sulla "convenzione Sinclair" suscitassero un tale scandalo nel paese da provocare la caduta del governo, e assassinarono il deputato socialista alla vigilia del giorno in cui ne avrebbe parlato alla Camera.
Nell'Italia del 2010, un uomo come Giacomo Matteotti si meriterebbe l'appellativo - parlandone da vivo - di «giustizialista». È infatti questa la parola con cui si suole oggi definire chi ancora crede che la magistratura debba esercitare sino in fondo il suo ruolo di ordine indipendente: perseguendo senza fallo le violazioni del codice penale, quand'anche vengano compiute dalle massime cariche dello stato. Ma è proprio in nome di un'idea nobile, alta, severa della giustizia, che alcuni di noi possono tanto più rimpiangere l'assenza, qui e adesso, di un nuovo Matteotti.
Giacomo Matteotti nasce a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, il 22 maggio del 1885.
I Matteotti sono una famiglia benestante. Dopo il liceo, Giacomo si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove si laurea con una tesi in diritto penale.
Le prime testimonianze della sua militanza politica risalgono al 1904, quando inizia a collaborare al periodico socialista di Rovigo ‘La Lotta’. Non sappiamo su quali letture maturi la sua fede politica, né come viva i contrasti interni al partito socialista dei primi anni del secolo. I biografi di Matteotti ci raccontano che dalla fine del 1910 il giovane socialista è fra i protagonisti della vita politica e amministrativa di Rovigo, che nel 1912 è un fiero avversario della guerra di Libia, e che allo scoppio della prima guerra mondiale si schiera risolutamente per la neutralità.
venerdì 27 agosto 2010
Claudio Fava (SEL): "Coalizione? No all'UDC. Primarie a ottobre"
pubblicata da PUGLIAmo l'Italia: NICHI VENDOLA candidato premier 2013 il giorno venerdì 27 agosto 2010 alle ore 15.36
Nuovo Ulivo? Beh, “nuovo” è un aggettivo impegnativo...», sorride Claudio Fava coordinatore di Sinistra e libertà. «Certo, Ulivo è un’immagine che ha forza evocativa e racconta una stagione di vittoria, ma è nuovo solo se non si limita a indicare chi sta dentro e chi sta fuori dal progetto, e costruisce un’alternativa, una sfida all’Italia».
Non le sembra che ci sia questo aspetto nella proposta di Bersani?
«Alternativa per noi non vuol dire solo liberarsi di Berlusconi, ma incidere in profondità nel tessuto sociale e civile del Paese, che rischia di smarrire se stesso anche se Berlusconi va all’opposizione».
Cosa dovrebbe avere questo Ulivo per essere nuovo?
«Porsi alcuni temi e darsi delle risposte, sul piano sociale, istituzionale, dei valori repubblicani. Penso al caso Fiat: la neutralità non è “novità” è un elemento di tatticismo, di pigrizia politica. Nuovo vuol dire cambiare lo sguardo nel merito, non immaginare solo alleanze tra partiti».
Bersani disegna due cerchi: un Ulivo e un’Alleanza per la democrazia, allargata ad altre forze più lontane dal centrosinistra tradizionale, come l’Udc, forse Montezemolo e i finiani...
«Se l’”alleanza per la democrazia” significa un governo istituzionale mettendo insieme pezzi di destra e di sinistra, mi sembra una proposta impraticabile. Io credo che, davanti a una maggioranza che non c’è più, non ci siano alternative alle elezioni. A destra stanno facendo solo dei giri di walzer per decidere chi resta col cerino in mano. Non credo che i finiani torneranno all’ovile, a votare le impunità del premier».
Bersani però va oltre il governo istituzionale. Propone un’alleanza per la democrazia per andare alle urne, una legislatura costituente per sgombrare il campo dalle macerie del berlusconismo. Voi siete disponibili?
«Una legislatura non può avere come ordine del giorno solo il ripristino della democrazia, bisogna affrontare i nodi economici e sociali del Paese. Non si possono accantonare per 5 anni queste emergenze, la definizione delle priorità sociali. Non si governa evocando la democrazia, bisogna fare delle scelte, quelle che non fece il governo Prodi e che per questo ha pagato. Tutto ciò non si può fare con un’alleanza priva di un grado decente di coerenza politica».
Niente alleanza con Casini, dunque?
«Certo, a lui e a Fini ci unisce un senso rigoroso delle istituzioni, una cultura democratica, ma ci dividono molte cose, a partire da una lettura dei problemi sociali. Un’alleanza con l’Udc può anche essere vittoriosa, ma non può produrre un governo utile e coerente».
Dunque è d’accordo con Veltroni che dice no a Sante Alleanze contro il Cavaliere?
«Una Santa Alleanza avrebbe senso per 3 mesi per fare una nuova legge elettorale. Ma come ho detto non ci sono le condizioni, non credo che Berlusconi starebbe tranquillo all’opposizione. Un’alleanza di quel tipo ha il sapore della difesa di un fortino assediato, ma qui bisogna andare all’assalto dell’accampamento avversario per ricostruire le fondamenta di una nazione. Per farlo non basta un’alleanza, neppure in odore di santità. Serve un progetto in odore di verità».
Non teme che un centrosinistra tradizionale sarebbe troppo debole contro Berlusconi e la Lega?
«La vittoria non si ottiene sommando partiti, ma solidificando un’idea capace di parlare al futuro e alla maggior parte del Paese. In Italia ci sono stati momenti di grandi slanci vitali, anche contro la logica dei numeri. In Sicilia, in alcuni momenti, una ribellione civile ha ribaltato consuetudini decennali. Ma per costruire una rivolta culturale contro il berlusconismo ci vuole coraggio...».
Veniamo alle primarie. Per voi restano imprescindibili?
«Per noi un nuovo Ulivo esiste solo con le primarie, che non servono solo se si vota il giorno dopo. Servono innanzitutto a recuperare un rapporto vitale col Paese. La nostra proposta è chiara, ma continuiamo a ricevere attendismi, veti, tatticismi. L’unico che ha dato un via libera chiaro è stato Bersani, e di questo gli va dato atto».
Quando si dovrebbero fare?
«Al massimo entro ottobre, basta incontrarsi per stabilire data e modalità. Servirebbe poco, solo la volontà di farle e accettare il risultato».
Come giudica un ticket Chiamparino-Vendola?
«Un chiacchiericcio, le primarie sono tali se ci sono diversi progetti in corsa che si misurano col consenso. Stavolta non ci saranno finzioni o incoronazioni designate a tavolino».
27 agosto 2010
Nuovo Ulivo? Beh, “nuovo” è un aggettivo impegnativo...», sorride Claudio Fava coordinatore di Sinistra e libertà. «Certo, Ulivo è un’immagine che ha forza evocativa e racconta una stagione di vittoria, ma è nuovo solo se non si limita a indicare chi sta dentro e chi sta fuori dal progetto, e costruisce un’alternativa, una sfida all’Italia».
Non le sembra che ci sia questo aspetto nella proposta di Bersani?
«Alternativa per noi non vuol dire solo liberarsi di Berlusconi, ma incidere in profondità nel tessuto sociale e civile del Paese, che rischia di smarrire se stesso anche se Berlusconi va all’opposizione».
Cosa dovrebbe avere questo Ulivo per essere nuovo?
«Porsi alcuni temi e darsi delle risposte, sul piano sociale, istituzionale, dei valori repubblicani. Penso al caso Fiat: la neutralità non è “novità” è un elemento di tatticismo, di pigrizia politica. Nuovo vuol dire cambiare lo sguardo nel merito, non immaginare solo alleanze tra partiti».
Bersani disegna due cerchi: un Ulivo e un’Alleanza per la democrazia, allargata ad altre forze più lontane dal centrosinistra tradizionale, come l’Udc, forse Montezemolo e i finiani...
«Se l’”alleanza per la democrazia” significa un governo istituzionale mettendo insieme pezzi di destra e di sinistra, mi sembra una proposta impraticabile. Io credo che, davanti a una maggioranza che non c’è più, non ci siano alternative alle elezioni. A destra stanno facendo solo dei giri di walzer per decidere chi resta col cerino in mano. Non credo che i finiani torneranno all’ovile, a votare le impunità del premier».
Bersani però va oltre il governo istituzionale. Propone un’alleanza per la democrazia per andare alle urne, una legislatura costituente per sgombrare il campo dalle macerie del berlusconismo. Voi siete disponibili?
«Una legislatura non può avere come ordine del giorno solo il ripristino della democrazia, bisogna affrontare i nodi economici e sociali del Paese. Non si possono accantonare per 5 anni queste emergenze, la definizione delle priorità sociali. Non si governa evocando la democrazia, bisogna fare delle scelte, quelle che non fece il governo Prodi e che per questo ha pagato. Tutto ciò non si può fare con un’alleanza priva di un grado decente di coerenza politica».
Niente alleanza con Casini, dunque?
«Certo, a lui e a Fini ci unisce un senso rigoroso delle istituzioni, una cultura democratica, ma ci dividono molte cose, a partire da una lettura dei problemi sociali. Un’alleanza con l’Udc può anche essere vittoriosa, ma non può produrre un governo utile e coerente».
Dunque è d’accordo con Veltroni che dice no a Sante Alleanze contro il Cavaliere?
«Una Santa Alleanza avrebbe senso per 3 mesi per fare una nuova legge elettorale. Ma come ho detto non ci sono le condizioni, non credo che Berlusconi starebbe tranquillo all’opposizione. Un’alleanza di quel tipo ha il sapore della difesa di un fortino assediato, ma qui bisogna andare all’assalto dell’accampamento avversario per ricostruire le fondamenta di una nazione. Per farlo non basta un’alleanza, neppure in odore di santità. Serve un progetto in odore di verità».
Non teme che un centrosinistra tradizionale sarebbe troppo debole contro Berlusconi e la Lega?
«La vittoria non si ottiene sommando partiti, ma solidificando un’idea capace di parlare al futuro e alla maggior parte del Paese. In Italia ci sono stati momenti di grandi slanci vitali, anche contro la logica dei numeri. In Sicilia, in alcuni momenti, una ribellione civile ha ribaltato consuetudini decennali. Ma per costruire una rivolta culturale contro il berlusconismo ci vuole coraggio...».
Veniamo alle primarie. Per voi restano imprescindibili?
«Per noi un nuovo Ulivo esiste solo con le primarie, che non servono solo se si vota il giorno dopo. Servono innanzitutto a recuperare un rapporto vitale col Paese. La nostra proposta è chiara, ma continuiamo a ricevere attendismi, veti, tatticismi. L’unico che ha dato un via libera chiaro è stato Bersani, e di questo gli va dato atto».
Quando si dovrebbero fare?
«Al massimo entro ottobre, basta incontrarsi per stabilire data e modalità. Servirebbe poco, solo la volontà di farle e accettare il risultato».
Come giudica un ticket Chiamparino-Vendola?
«Un chiacchiericcio, le primarie sono tali se ci sono diversi progetti in corsa che si misurano col consenso. Stavolta non ci saranno finzioni o incoronazioni designate a tavolino».
27 agosto 2010
giovedì 26 agosto 2010
Questa è una rapina
di Peter Gomez
25 agosto 2010
Anni di affari e truffe sulla nostra pelle all'ombra del Caimano. Le parolacce elettorali come grande ammissione della Casta
Fino a ieri nel centrodestra a confessare con chiarezza come stavano le cose ci avevano provato, inutilmente, più o meno tutti. Persino Silvio Berlusconi che già a inizio del 1994 aveva spiegato a Indro Montanelli: “Se non entro in politica finisco in galera e fallisco per debiti”. Un concetto semplicissimo. Facile da comprendere. Ribadito sei anni dopo, in un’intervista a La Repubblica, anche da Fedele Confalonieri. “La verità”, diceva il miglior amico del premier, “è che se Silvio non avesse fondato Forza Italia noi oggi saremmo sotto un ponte o in prigione con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento nel lodo Mondadori”.
Ma ci sono voluti 16 anni perché tutti capissero che, dietro la sedicente rivoluzione liberale del leader del Pdl, non c’era altro che il desiderio di difendere i privilegi e la roba. E sono state necessarie decine, anzi centinaia, di dichiarazioni, leggi ad personam e di plateali violazioni del principio della separazione dei poteri, tutte regolarmente prese sotto gamba.
Così adesso, mentre volano gli stracci e i capi popolo di quella che fu l’invincibile armada del Cavaliere si accusano a vicenda di aver partecipato alla vita pubblica solo per concludere al meglio i propri affari, viene da chiedersi come sia stato possibile tutto questo. Viene da domandarsi perché nessuna voce (o quasi) si sia levata quando l’ex ministro del primo governo Berlusconi, Giuliano Ferrara, rivelava inverecondo che “in Italia per far politica bisogna essere ricattabili. Visto che nell’ambiente politico devono sapere qual è il tuo prezzo e quanto è lungo il tuo guinzaglio: se non sei ricattabile, non sei controllabile”. O perché quando Claudio Magris, dalle colonne de Il Corriere della Sera, scriveva che “spetta agli uomini onesti d’ogni parte ribellarsi a questa indegnità politica, egualmente pericolosa e lesiva per tutti, che disonora l’Italia”, nessuno si sia ribellato.
Certo, come ha spiegato il sociologo Vilfredo Pareto, “le oligarchie cadano di schianto”. E quella che ha governato quasi ininterrottamente il Paese a partire dalla fine di Mani Pulite è stata senza dubbio un’oligarchia. Lo dimostrano le facce e i volti gonfi e lividi dei suoi protagonisti (di destra e di sinistra) ai quali non basta nemmeno più il lifting per nascondere l’impietoso incedere degli anni.
Eppure nessuna delle accuse che oggi si rinfacciano i signori della Casta era un vero segreto. Di tanto in tanto sui giornali e su qualche libro si leggeva che davvero, come ulula oggi Pierferdinado Casini, “Umberto Bossi trafficava in banche e quote latte”. La storia della Crediteuronord, la banca della Lega salvata dal crac dalla Banca Popolare di Lodi in cambio dell’appoggio del Carroccio alla scalata Antonveneta, è stata scritta. E è anche stato scritto (senza che nessuno sporgesse denuncie per calunnia) come il big boss Bpl Gianpiero Fiorani, una volta in manette, abbia raccontato di aver versato centinaia di migliaia di euro al ministro, Roberto Calderoli, poi uscito dalla vicenda giudiziaria solo perché il presunto tramite, l’ex ministro a tempo Aldo Brancher, non ha confermato le sue parole. Perfettamente noti sono pure i molti scandali, conditi di mafia, mazzette ai giudici e ai testimoni, che hanno coinvolto il Cavaliere e i suoi uomini. Come pure è noto che il motivo, per cui Berlusconi vuole restare inchiodato alla poltrona, è uno solo: evitare di venir processato e condannato. Tanto che da mesi, il suo ventriloquo Giorgio Straquadanio, spiega senza infingimenti: “Va detto chiaramente noi siamo favorevoli alle leggi ad personam”.
Una posizione che trova proseliti convinti anche nell’Udc. Un partito nel quale si sostiene che una legge scudo per il premier (e magari per tutti gli altri parlamentari) si può fare a condizione che venga inserita nella Costituzione. Nulla di sorprendente per un movimento che basa buona parte della sua forza elettorale sui voti raccolti da Totò Cuffaro, un ex Dc a un passo dalla galera dopo due condanne in primo e secondo grado per favoreggiamento aggravato alla mafia. Una vicenda giudiziaria che (nonostante le smentite) potrebbe ora spingere Cuffaro e una dozzina di parlamentari a lui fedeli a sostenere il moribondo esecutivo del Cavaliere.
Gianfranco Fini, infatti, non tornerà indietro. Non vuole e non può. Ha fatto della legalità il suo grido di battaglia. E non importa che le cronache di settimanali e giornali siano ricche di episodi dai quali emerge come pure per lui le accuse di nepotismo e favoritismo non siano certo una novità. Degli appalti in Rai della famiglia Tulliani (piccoli per la verità) scriveva Dagospia nel 2009. Mentre i rapporti dei suoi fedelissimi con il mondo oscuro delle offshore caraibiche che controllano in Italia migliaia di slot machine sono al centro di articoli de L’espresso già del 2004. La differenza è che allora (e fino a ieri) nessuno ci faceva caso. E il perché è semplice. Queste e altre storie emergevano – se andava bene – di tanto in tanto sulla carta stampata. O al massimo facevano capolino sulla Rete, quando ancora il Web era una faccenda quasi da iniziati. In tv, nei telegiornali invece non passava nulla. E la Casta, poteva mentire sempre, senza temere di essere smentita. Perché, come ha scritto Giovanni Sartori, “dove la tv è libera le bugie hanno gambe corte, mentre da noi hanno le gambe lunghissime”. Oggi la tv non è cambiata. Il controllo sull’informazione resta ferreo. Ma è stata la Casta a cominciare ad andare in pezzi. Forse per una congiura di palazzo. Forse perché alla fine, anche da quello parti, qualche uomo vero c’è. E ciò che prima non veniva detto, non può più essere nascosto. Lo chiamano sputtanamento. Ma, a ben vedere, è la via – tutta italiana – verso un brandello di verità e un simulacro di democrazia.
Da Il Fatto Quotidiano del 25 agosto 2010
25 agosto 2010
Anni di affari e truffe sulla nostra pelle all'ombra del Caimano. Le parolacce elettorali come grande ammissione della Casta
Fino a ieri nel centrodestra a confessare con chiarezza come stavano le cose ci avevano provato, inutilmente, più o meno tutti. Persino Silvio Berlusconi che già a inizio del 1994 aveva spiegato a Indro Montanelli: “Se non entro in politica finisco in galera e fallisco per debiti”. Un concetto semplicissimo. Facile da comprendere. Ribadito sei anni dopo, in un’intervista a La Repubblica, anche da Fedele Confalonieri. “La verità”, diceva il miglior amico del premier, “è che se Silvio non avesse fondato Forza Italia noi oggi saremmo sotto un ponte o in prigione con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento nel lodo Mondadori”.
Ma ci sono voluti 16 anni perché tutti capissero che, dietro la sedicente rivoluzione liberale del leader del Pdl, non c’era altro che il desiderio di difendere i privilegi e la roba. E sono state necessarie decine, anzi centinaia, di dichiarazioni, leggi ad personam e di plateali violazioni del principio della separazione dei poteri, tutte regolarmente prese sotto gamba.
Così adesso, mentre volano gli stracci e i capi popolo di quella che fu l’invincibile armada del Cavaliere si accusano a vicenda di aver partecipato alla vita pubblica solo per concludere al meglio i propri affari, viene da chiedersi come sia stato possibile tutto questo. Viene da domandarsi perché nessuna voce (o quasi) si sia levata quando l’ex ministro del primo governo Berlusconi, Giuliano Ferrara, rivelava inverecondo che “in Italia per far politica bisogna essere ricattabili. Visto che nell’ambiente politico devono sapere qual è il tuo prezzo e quanto è lungo il tuo guinzaglio: se non sei ricattabile, non sei controllabile”. O perché quando Claudio Magris, dalle colonne de Il Corriere della Sera, scriveva che “spetta agli uomini onesti d’ogni parte ribellarsi a questa indegnità politica, egualmente pericolosa e lesiva per tutti, che disonora l’Italia”, nessuno si sia ribellato.
Certo, come ha spiegato il sociologo Vilfredo Pareto, “le oligarchie cadano di schianto”. E quella che ha governato quasi ininterrottamente il Paese a partire dalla fine di Mani Pulite è stata senza dubbio un’oligarchia. Lo dimostrano le facce e i volti gonfi e lividi dei suoi protagonisti (di destra e di sinistra) ai quali non basta nemmeno più il lifting per nascondere l’impietoso incedere degli anni.
Eppure nessuna delle accuse che oggi si rinfacciano i signori della Casta era un vero segreto. Di tanto in tanto sui giornali e su qualche libro si leggeva che davvero, come ulula oggi Pierferdinado Casini, “Umberto Bossi trafficava in banche e quote latte”. La storia della Crediteuronord, la banca della Lega salvata dal crac dalla Banca Popolare di Lodi in cambio dell’appoggio del Carroccio alla scalata Antonveneta, è stata scritta. E è anche stato scritto (senza che nessuno sporgesse denuncie per calunnia) come il big boss Bpl Gianpiero Fiorani, una volta in manette, abbia raccontato di aver versato centinaia di migliaia di euro al ministro, Roberto Calderoli, poi uscito dalla vicenda giudiziaria solo perché il presunto tramite, l’ex ministro a tempo Aldo Brancher, non ha confermato le sue parole. Perfettamente noti sono pure i molti scandali, conditi di mafia, mazzette ai giudici e ai testimoni, che hanno coinvolto il Cavaliere e i suoi uomini. Come pure è noto che il motivo, per cui Berlusconi vuole restare inchiodato alla poltrona, è uno solo: evitare di venir processato e condannato. Tanto che da mesi, il suo ventriloquo Giorgio Straquadanio, spiega senza infingimenti: “Va detto chiaramente noi siamo favorevoli alle leggi ad personam”.
Una posizione che trova proseliti convinti anche nell’Udc. Un partito nel quale si sostiene che una legge scudo per il premier (e magari per tutti gli altri parlamentari) si può fare a condizione che venga inserita nella Costituzione. Nulla di sorprendente per un movimento che basa buona parte della sua forza elettorale sui voti raccolti da Totò Cuffaro, un ex Dc a un passo dalla galera dopo due condanne in primo e secondo grado per favoreggiamento aggravato alla mafia. Una vicenda giudiziaria che (nonostante le smentite) potrebbe ora spingere Cuffaro e una dozzina di parlamentari a lui fedeli a sostenere il moribondo esecutivo del Cavaliere.
Gianfranco Fini, infatti, non tornerà indietro. Non vuole e non può. Ha fatto della legalità il suo grido di battaglia. E non importa che le cronache di settimanali e giornali siano ricche di episodi dai quali emerge come pure per lui le accuse di nepotismo e favoritismo non siano certo una novità. Degli appalti in Rai della famiglia Tulliani (piccoli per la verità) scriveva Dagospia nel 2009. Mentre i rapporti dei suoi fedelissimi con il mondo oscuro delle offshore caraibiche che controllano in Italia migliaia di slot machine sono al centro di articoli de L’espresso già del 2004. La differenza è che allora (e fino a ieri) nessuno ci faceva caso. E il perché è semplice. Queste e altre storie emergevano – se andava bene – di tanto in tanto sulla carta stampata. O al massimo facevano capolino sulla Rete, quando ancora il Web era una faccenda quasi da iniziati. In tv, nei telegiornali invece non passava nulla. E la Casta, poteva mentire sempre, senza temere di essere smentita. Perché, come ha scritto Giovanni Sartori, “dove la tv è libera le bugie hanno gambe corte, mentre da noi hanno le gambe lunghissime”. Oggi la tv non è cambiata. Il controllo sull’informazione resta ferreo. Ma è stata la Casta a cominciare ad andare in pezzi. Forse per una congiura di palazzo. Forse perché alla fine, anche da quello parti, qualche uomo vero c’è. E ciò che prima non veniva detto, non può più essere nascosto. Lo chiamano sputtanamento. Ma, a ben vedere, è la via – tutta italiana – verso un brandello di verità e un simulacro di democrazia.
Da Il Fatto Quotidiano del 25 agosto 2010
mercoledì 25 agosto 2010
Veltroni is not Al Gore… purtroppo
Blog | di Claudio Fava
25 agosto 2010
E’ istruttivo ascoltare i professionisti della politica che inveiscono contro i professionisti della politica, in un esempio imbarazzante di dissociazione della personalità. Ieri Veltroni sul Corriere se la prendeva con un ceto politico che ha umiliato il paese, gli ha sottratto diritti, speranze e verità (un esempio per tutti, spiegava Veltroni: il cantiere della Salerno-Reggio, ancora miseramente aperto). Non ci è chiaro se si tratta dello stesso Walter Veltroni che in codesti anni (mentre i cantieri sulla A3 si aprivano e chiudevano come le sliding doors di una metropolitana) è stato per due volte segretario del più grande partito d’opposizione (e di governo), vicepresidente del Consiglio, ministro, sindaco della capitale e candidato premier.
Se quell’autostrada è ancora incompiuta e se il senso civile della nazione è tracollato, qualche responsabilità (sia pure indiretta, oggettiva, immateriale) gli potrà pur essere attribuita: o no? E che dire di Rutelli – negli ultimi vent’anni segretario di un partito, fondatore di un altro partito, ministro, vicepremier, sindaco della capitale e candidato premier – che ammonisce gli italiani spiegando dov’è il vero riformismo e distribuendo voti e veti a tutti gli altri politici? E che mi dite di Casini – segretario di partito, ministro, vicepremier, presidente della camera – che oggi ci spiega come va riformata la politica per evitare il collasso morale delle istituzioni? Ma insomma, mentre le istituzioni franavano e Berlusconi acquistava per sé i pezzi più pregiati come al mercante in fiera, mentre il paese si smarriva e smarriva il significato delle proprie parole, mentre ci si convinceva tutti che clandestini sono i sudanesi che vengono a nuoto in Italia e non i camorristi che abitano in Parlamento e al governo, mentre tutto questo accadeva, questi illuminati censori della cattiva politica dov’erano? Erano lì, al governo, all’opposizione, sempre in ruoli di assoluta responsabilità istituzionale.
Ma perché Al Gore, il giorno dopo la sua sconfitta alle elezioni presidenziali, si ritira dalla politica attiva, per quale ragione l’ex presidente Clinton, esaurito il suo mandato, riappare solo per accompagnare la figlia al matrimonio e invece in Italia da un quarto di secolo i destini del paese vengono scritti, storpiati e riscritti sempre dallo stesso manipolo di primi della classe senza che nessuno di loro – dopo aver fatto di tutto: il candidato trombato, il segretario di partito, il ministro della repubblica – senta come urgenza dello spirito un elegante, definitivo passo indietro?
25 agosto 2010
E’ istruttivo ascoltare i professionisti della politica che inveiscono contro i professionisti della politica, in un esempio imbarazzante di dissociazione della personalità. Ieri Veltroni sul Corriere se la prendeva con un ceto politico che ha umiliato il paese, gli ha sottratto diritti, speranze e verità (un esempio per tutti, spiegava Veltroni: il cantiere della Salerno-Reggio, ancora miseramente aperto). Non ci è chiaro se si tratta dello stesso Walter Veltroni che in codesti anni (mentre i cantieri sulla A3 si aprivano e chiudevano come le sliding doors di una metropolitana) è stato per due volte segretario del più grande partito d’opposizione (e di governo), vicepresidente del Consiglio, ministro, sindaco della capitale e candidato premier.
Se quell’autostrada è ancora incompiuta e se il senso civile della nazione è tracollato, qualche responsabilità (sia pure indiretta, oggettiva, immateriale) gli potrà pur essere attribuita: o no? E che dire di Rutelli – negli ultimi vent’anni segretario di un partito, fondatore di un altro partito, ministro, vicepremier, sindaco della capitale e candidato premier – che ammonisce gli italiani spiegando dov’è il vero riformismo e distribuendo voti e veti a tutti gli altri politici? E che mi dite di Casini – segretario di partito, ministro, vicepremier, presidente della camera – che oggi ci spiega come va riformata la politica per evitare il collasso morale delle istituzioni? Ma insomma, mentre le istituzioni franavano e Berlusconi acquistava per sé i pezzi più pregiati come al mercante in fiera, mentre il paese si smarriva e smarriva il significato delle proprie parole, mentre ci si convinceva tutti che clandestini sono i sudanesi che vengono a nuoto in Italia e non i camorristi che abitano in Parlamento e al governo, mentre tutto questo accadeva, questi illuminati censori della cattiva politica dov’erano? Erano lì, al governo, all’opposizione, sempre in ruoli di assoluta responsabilità istituzionale.
Ma perché Al Gore, il giorno dopo la sua sconfitta alle elezioni presidenziali, si ritira dalla politica attiva, per quale ragione l’ex presidente Clinton, esaurito il suo mandato, riappare solo per accompagnare la figlia al matrimonio e invece in Italia da un quarto di secolo i destini del paese vengono scritti, storpiati e riscritti sempre dallo stesso manipolo di primi della classe senza che nessuno di loro – dopo aver fatto di tutto: il candidato trombato, il segretario di partito, il ministro della repubblica – senta come urgenza dello spirito un elegante, definitivo passo indietro?
‘B. ha divorziato dal Paese. Sarà un crepuscolo violento’
di Carlo Tecce
25 agosto 2010
Marco Belpoliti: Il dissolvimento è anche del suo corpo, il sogno è diventato insulto
Cadono sassi dal palazzo che crolla. Marco Belpoliti risponde da un’isola sperduta, l’ultimo insulto di Francesco Giro, lontano chilometri, sembra fasullo: “Come dice?”. No, il sottosegretario Giro dice: “L’editoriale di Famiglia Cristiana è pornografia”. L’autore del Corpo del capo e Senza vergogna s’avvicina al telefono: “Tempo fa avevo previsto due eventi: il 25 luglio e l’8 settembre, un disfarsi progressivo di un regime politico e mediatico. Un disfarsi violento”.
E di lingue acuminate: Casini contro Bossi e Bossi contro Verdini, e tutti contro tutti…
Sintomi del pensionamento del capo. La confusione provoca mal di testa e terrore, le truppe lottano per un pezzetto, sbattono i piedi perché sentono il cambiamento. Non parlano di politica per assenza della stessa. Hanno paura del nuovo: la Seconda o Terza Repubblica che verrà, i naufraghi della Prima e di Mani Pulite hanno trovato rifugio in Forza Italia e poi nel Popolo della Libertà. Sarà traumatico conoscere il futuro.
Quando arriva il futuro per noi?
Ho lasciato l’Italia nei giorni dell’espulsione di Fini e dei finiani. Le puntate successive erano facili da pronosticare. La storia italiana replica con facilità, il cammino dal 25 luglio all’8 settembre è ben avviato. Impressiona il 9 settembre, in vent’anni di Berlusconi ne abbiamo sviscerato le contraddizioni ma dimenticato un particolare: cosa accadrà al suo tramonto? Siamo impreparati.
Come rimediare?
Forse la soluzione è nel saggio di Javier Cercas, presto in uscita: Anatomia di un istante, un viaggio nel fallito colpo di Stato spagnolo del 23 febbraio del 1981. Lì erano avanti, Franco era morto e il franchista Adolfo Suàrez trascinava la Spagna nella democrazia. Qui il franchismo è morente e il nostro Suàrez sconosciuto. Siamo così indietro che dobbiamo ricominciare da poco. Dalle basi: dalla democrazia. Succederà…
Quel giorno i dossier di Vittorio Feltri saranno un paragrafo storico?
Berlusconi ha un palese segreto che nelle dittature tradizionali era l’esercito. Ovvero un vasto schieramento mediatico: telegiornali, rotocalchi, quotidiani. Parti che aggrediscono col fuoco di fila, parti che cantano buone novelle. Quando la situazione è sotto controllo, e la legislatura lunga e larga, l’esercito fa ordinaria amministrazione: censura le notizie cattive e gonfia il resto. Ma appena un nemico s’avvicina, l’esercito reagisce con durezza per volere del capo. L’esercito è forte e capace di orientare i cittadini, arruolato grazie a un conflitto d’interessi mai nemmeno sfiorato. Ora siamo a un passo dalla svolta, in fondo a una Prima Repubblica mascherata. Scopriamo le facce più o meno scampate a Tangentopoli.
Come scompare un regime?
All’improvviso. Eppure una sera precisa e discussa che la storia segnerà. Il ciclo di Berlusconi s’è dissolto a Casoria, al compleanno di Noemi Letizia: era l’ultimo atto di onnipotenza, oltre qualsiasi vergogna e qualsiasi limite. In ordine di cronaca seguono due divorzi per liberarsi dalle catene: da Veronica Lario e da Gianfranco Fini. Un doppio divorzio con il Paese. I notisti politici appuntavano il rientro da luna di miele, invece era un matrimonio smontato. Una fuga dai cittadini oltre che da Veronica e da Fini.
Fotogramma: agosto romano di afa e turisti, il presidente del Consiglio passeggia in tuta scolorita e mostra la fatica sul volto.
Non può fare altro. La sua fisicità è il programma politico del Pdl. Chi di corpo colpisce di corpo perisce. Uscirà di scena – e la scena è questa – quando il suo corpo s’incurverà come una candela sempre accesa ormai consumata. L’immagine e il potere di Berlusconi sono una cosa sola. È arrivato il momento del dissolvimento perché il corpo servito è più vecchio di vent’anni e il sogno azzurro è l’insulto.
Addio anche al privato che diventa politica con il corpo, le mogli e i figli?
L’italiano ha il comportamento del pendolo, oscilla tra due estremi e oggi siamo al culmine delle foto in bermuda o in montagna su Chi. Spinti da Berlusconi che trasforma il privato in pubblico per fare politica. Un controsenso che, siamo ottimisti, deve finire. Per forza.
Da Il Fatto Quotidiano del 25 agosto 2010
25 agosto 2010
Marco Belpoliti: Il dissolvimento è anche del suo corpo, il sogno è diventato insulto
Cadono sassi dal palazzo che crolla. Marco Belpoliti risponde da un’isola sperduta, l’ultimo insulto di Francesco Giro, lontano chilometri, sembra fasullo: “Come dice?”. No, il sottosegretario Giro dice: “L’editoriale di Famiglia Cristiana è pornografia”. L’autore del Corpo del capo e Senza vergogna s’avvicina al telefono: “Tempo fa avevo previsto due eventi: il 25 luglio e l’8 settembre, un disfarsi progressivo di un regime politico e mediatico. Un disfarsi violento”.
E di lingue acuminate: Casini contro Bossi e Bossi contro Verdini, e tutti contro tutti…
Sintomi del pensionamento del capo. La confusione provoca mal di testa e terrore, le truppe lottano per un pezzetto, sbattono i piedi perché sentono il cambiamento. Non parlano di politica per assenza della stessa. Hanno paura del nuovo: la Seconda o Terza Repubblica che verrà, i naufraghi della Prima e di Mani Pulite hanno trovato rifugio in Forza Italia e poi nel Popolo della Libertà. Sarà traumatico conoscere il futuro.
Quando arriva il futuro per noi?
Ho lasciato l’Italia nei giorni dell’espulsione di Fini e dei finiani. Le puntate successive erano facili da pronosticare. La storia italiana replica con facilità, il cammino dal 25 luglio all’8 settembre è ben avviato. Impressiona il 9 settembre, in vent’anni di Berlusconi ne abbiamo sviscerato le contraddizioni ma dimenticato un particolare: cosa accadrà al suo tramonto? Siamo impreparati.
Come rimediare?
Forse la soluzione è nel saggio di Javier Cercas, presto in uscita: Anatomia di un istante, un viaggio nel fallito colpo di Stato spagnolo del 23 febbraio del 1981. Lì erano avanti, Franco era morto e il franchista Adolfo Suàrez trascinava la Spagna nella democrazia. Qui il franchismo è morente e il nostro Suàrez sconosciuto. Siamo così indietro che dobbiamo ricominciare da poco. Dalle basi: dalla democrazia. Succederà…
Quel giorno i dossier di Vittorio Feltri saranno un paragrafo storico?
Berlusconi ha un palese segreto che nelle dittature tradizionali era l’esercito. Ovvero un vasto schieramento mediatico: telegiornali, rotocalchi, quotidiani. Parti che aggrediscono col fuoco di fila, parti che cantano buone novelle. Quando la situazione è sotto controllo, e la legislatura lunga e larga, l’esercito fa ordinaria amministrazione: censura le notizie cattive e gonfia il resto. Ma appena un nemico s’avvicina, l’esercito reagisce con durezza per volere del capo. L’esercito è forte e capace di orientare i cittadini, arruolato grazie a un conflitto d’interessi mai nemmeno sfiorato. Ora siamo a un passo dalla svolta, in fondo a una Prima Repubblica mascherata. Scopriamo le facce più o meno scampate a Tangentopoli.
Come scompare un regime?
All’improvviso. Eppure una sera precisa e discussa che la storia segnerà. Il ciclo di Berlusconi s’è dissolto a Casoria, al compleanno di Noemi Letizia: era l’ultimo atto di onnipotenza, oltre qualsiasi vergogna e qualsiasi limite. In ordine di cronaca seguono due divorzi per liberarsi dalle catene: da Veronica Lario e da Gianfranco Fini. Un doppio divorzio con il Paese. I notisti politici appuntavano il rientro da luna di miele, invece era un matrimonio smontato. Una fuga dai cittadini oltre che da Veronica e da Fini.
Fotogramma: agosto romano di afa e turisti, il presidente del Consiglio passeggia in tuta scolorita e mostra la fatica sul volto.
Non può fare altro. La sua fisicità è il programma politico del Pdl. Chi di corpo colpisce di corpo perisce. Uscirà di scena – e la scena è questa – quando il suo corpo s’incurverà come una candela sempre accesa ormai consumata. L’immagine e il potere di Berlusconi sono una cosa sola. È arrivato il momento del dissolvimento perché il corpo servito è più vecchio di vent’anni e il sogno azzurro è l’insulto.
Addio anche al privato che diventa politica con il corpo, le mogli e i figli?
L’italiano ha il comportamento del pendolo, oscilla tra due estremi e oggi siamo al culmine delle foto in bermuda o in montagna su Chi. Spinti da Berlusconi che trasforma il privato in pubblico per fare politica. Un controsenso che, siamo ottimisti, deve finire. Per forza.
Da Il Fatto Quotidiano del 25 agosto 2010
martedì 24 agosto 2010
LA GRANDE MENZOGNA
di Francesco Baicchi - 19 agosto 2010
La disinformazione è da sempre uno degli strumenti più utilizzati dalle dittature
La disinformazione è necessaria per creare una immagine accattivante del 'padrone' del momento, per nasconderne gli errori e le sconfitte(e talvolta la follia), per far credere ai sudditi più distratti chesi sta operando per il loro bene e non nell'interesse di pochi oligarchi.
Proprio per questo la presenza di una informazione libera e pluralista è condizione indispensabile della democrazia, come, al contrario, il controllo dei media è il primo obiettivo degli autocrati.
Non è un caso se l'art. 21 della nostra Costituzione detta precise norme in favore della libertà di espressione, purtroppo sempre più spessoaggirate dal monopolio televisivo.
Fra le tante bugie che i mezzi di informazione di proprietà o comunque controllati da Berlusconi ci propinano in queste settimane una è particolarmente pericolosa e dovrebbe essere più frequentemente e con maggior convinzione smentita dalla opposizione: l'entità del consenso di cui il Presidente del Consiglio godrebbe fra gli italiani.
Il'gioco delle tre carte' si appoggia sul numero dei seggi di differenza (cento) di cui dispone la maggioranza, che non hanno peròalcun rapporto con la volontà espressa dall'elettorato e dipendono solo dai meccanismi (incostituzionali) della legge elettorale.
Infatti,se leggiamo l'esito del voto del 2008 vediamo che il partito di proprietà del premier ha ottenuto solo il 37,4% dei voti espressi,corrispondente a meno del 29% dei potenziali elettori; grazie alla legge elettorale che si è fatto 'su misura' dispone però del 44%dei seggi alla Camera.
Analogamente la Lega dispone del 10% dei seggi pur avendo ottenuto l'8,3% dei votanti e il 6,4% degli aventi diritto.
Ecco come si formano i 340 seggi della maggioranza (272 più 60, più 8del Movimento meridionalista di Lombardo).
Ma è forse utile ricordare che nel 2006 Forza Italia ottenne meno del doppio dei voti di AN, e, alla luce del crollo della artificiosa fusione fra i due partiti, si può ritenere che una parte non irrisoria di questi voti non sia espressione di consenso al premier.
Così come non ci sono dubbi sul fatto che i voti alla Lega, che di Berlusconi ha detto a più riprese tutto il male possibile, non possano essere considerati automaticamente 'berlusconiani'.
Naturalmente Lui, nonostante il suo patologico narcisismo, queste cifre le conosce benissimo, come le conoscono i suoi dipendenti (in Parlamento e fuori) che, per invocare il ricorso alle urne in caso di caduta del Governo, continuano a parlare di 'tradimento' di un consenso popolareche abbiamo visto esistere solo in alcuni miracolosi sondaggi di opinione.
Il ruolo di richiamo alla Costituzione che sta svolgendo il Presidente Napolitano è dunque fondamentale e merita il massimo rispetto e l'appoggio incondizionato di tutte le forze politiche democratiche.
E' il momento di scelte di campo che non consentono meschine furbizie e assurdi patriottismi di bandiera; nell'ampia maggioranza che consentì di bocciare col referendum lo stravolgimento costituzionale tentato nel 2006, e nella mobilitazione della 'società civile' che ne fu protagonista è possibile individuare una piattaforma comune per il ripristino di un sistema elettorale democratico e per garantire il ritorno a un effettivo pluralismo dell'informazione.
La disinformazione è da sempre uno degli strumenti più utilizzati dalle dittature
La disinformazione è necessaria per creare una immagine accattivante del 'padrone' del momento, per nasconderne gli errori e le sconfitte(e talvolta la follia), per far credere ai sudditi più distratti chesi sta operando per il loro bene e non nell'interesse di pochi oligarchi.
Proprio per questo la presenza di una informazione libera e pluralista è condizione indispensabile della democrazia, come, al contrario, il controllo dei media è il primo obiettivo degli autocrati.
Non è un caso se l'art. 21 della nostra Costituzione detta precise norme in favore della libertà di espressione, purtroppo sempre più spessoaggirate dal monopolio televisivo.
Fra le tante bugie che i mezzi di informazione di proprietà o comunque controllati da Berlusconi ci propinano in queste settimane una è particolarmente pericolosa e dovrebbe essere più frequentemente e con maggior convinzione smentita dalla opposizione: l'entità del consenso di cui il Presidente del Consiglio godrebbe fra gli italiani.
Il'gioco delle tre carte' si appoggia sul numero dei seggi di differenza (cento) di cui dispone la maggioranza, che non hanno peròalcun rapporto con la volontà espressa dall'elettorato e dipendono solo dai meccanismi (incostituzionali) della legge elettorale.
Infatti,se leggiamo l'esito del voto del 2008 vediamo che il partito di proprietà del premier ha ottenuto solo il 37,4% dei voti espressi,corrispondente a meno del 29% dei potenziali elettori; grazie alla legge elettorale che si è fatto 'su misura' dispone però del 44%dei seggi alla Camera.
Analogamente la Lega dispone del 10% dei seggi pur avendo ottenuto l'8,3% dei votanti e il 6,4% degli aventi diritto.
Ecco come si formano i 340 seggi della maggioranza (272 più 60, più 8del Movimento meridionalista di Lombardo).
Ma è forse utile ricordare che nel 2006 Forza Italia ottenne meno del doppio dei voti di AN, e, alla luce del crollo della artificiosa fusione fra i due partiti, si può ritenere che una parte non irrisoria di questi voti non sia espressione di consenso al premier.
Così come non ci sono dubbi sul fatto che i voti alla Lega, che di Berlusconi ha detto a più riprese tutto il male possibile, non possano essere considerati automaticamente 'berlusconiani'.
Naturalmente Lui, nonostante il suo patologico narcisismo, queste cifre le conosce benissimo, come le conoscono i suoi dipendenti (in Parlamento e fuori) che, per invocare il ricorso alle urne in caso di caduta del Governo, continuano a parlare di 'tradimento' di un consenso popolareche abbiamo visto esistere solo in alcuni miracolosi sondaggi di opinione.
Il ruolo di richiamo alla Costituzione che sta svolgendo il Presidente Napolitano è dunque fondamentale e merita il massimo rispetto e l'appoggio incondizionato di tutte le forze politiche democratiche.
E' il momento di scelte di campo che non consentono meschine furbizie e assurdi patriottismi di bandiera; nell'ampia maggioranza che consentì di bocciare col referendum lo stravolgimento costituzionale tentato nel 2006, e nella mobilitazione della 'società civile' che ne fu protagonista è possibile individuare una piattaforma comune per il ripristino di un sistema elettorale democratico e per garantire il ritorno a un effettivo pluralismo dell'informazione.
mercoledì 4 agosto 2010
Rabindranath Tagore «Nel cuore dell’Universo, nella luce infinita, nella pura verità dell’Amore»
Per tutta la nostra vita non siamo che alla ricerca di una illuminazione, di una luce che emani così immensa energia da condurre in una dimensione spirituale, in una visione dove non esiste sostanza ma l’Invisibile.
Il silenzio di alcuni luoghi, l’avventura nel mondo conosciuto e il periplo nel complesso e segreto cosmo interiore, le numerose vicende della vita e le inebrianti manifestazioni dell’Amore, non sono altro che le “occasioni” messe a disposizione da questo ciclo di vita, per avvicinarsi alla meta, alla Luce Creatrice.
Quasi mettersi in viaggio per scandagliare le zone più profonde, lambire l’essenza che compone il nostro nucleo, la nostra sostanza, il centro dove persiste l’equilibrio vitale.
Non è un caso che molti saggi ritornino nel luogo in cui sono nati, dove sentono le loro profonde radici, nella loro terra, nel luogo dell’anima, del loro Essere: il giardino dove passeggiavano, la vecchia casa come uno scrigno memoriale, il profumo di quel luogo unico che pervade ogni fibra, che ricrea nella mente le immagini e le emozioni.
Ripudiare le proprie radici allontana dall’equilibrio interiore: riconoscere la propria oasi mentale, custodire il rifugio della mente, significa salvarsi dal naufragio nel tempo che divora ogni cosa.
Molte visioni si susseguono nella mente. Si possono sognare le lontane stagioni quando il sole infuocava il nostro cuore, quando il profumo del mare si insediava dentro di noi e i nostri occhi vedevano ciò che non era visibile: la voglia insopprimibile di liberarsi nell’aria, di liquefarsi nel sole, di sciogliersi nell’acqua e ritornare agli elementi naturali. Nel lungo e faticoso viaggio verso la propria casa mentale, fare i conti con il destino che ci è stato inflitto, strappando quel sottile filo che ci tiene incatenati alla nostra materia. Nei gesti di una mano, nella dolcezza di parole offerte come dono, nelle poesie fissate nel tempo del dolore e del pianto, nel giorno e nella notte, sognando un mondo senza sofferenza, nell’ultimo istante senza fine, tutto può essere estasi e caduta abissale.
La prima volta che lessi le poesie di Tagore mi venne in mente questo racconto zen. Un giovane monaco si recò dal maestro per studiare sotto la sua guida. Quando arrivò da lui, dichiarò: «Sono giunto qui per cercare la verità; da dove devo incominciare per entrare nello zen?». Il maestro domandò: «Senti il mormorio del torrente di montagna?», «Sì, maestro, lo sento» rispose il giovane. «Allora, entra da lì” fu la risposta del maestro.
In un istante mi resi conto che, «per quanto grandi possano essere la nostra conoscenza e la nostra comprensione concettuale, di fronte all’esperienza reale esse sono come fiocchi di neve su un fuoco». Era un semplice invito a “guardare”, a risvegliare il proprio sé.
L’esistenza può condurre la mente al di là, oltre la vita stessa, nel rumore dell’acqua che scorre veloce, nel vento violento, nell’imbrunire nella foresta, nei giardini fioriti come a seguire il “vento e le nuvole”, le stelle che stanno in cielo e le impronte che stanno in terra. E gli occhi del poeta sono “pieni di desiderio”, sfidano l’acqua scura, la pioggia del monsone, i sentieri sinuosi e le inevitabili sofferenze della vita.
E non importa fare lunghi viaggi in luoghi sconosciuti o paesi lontani ma occorre guardare il mondo con occhi nuovi perché l’unico vero viaggio che conduce alla scoperta e alla conoscenza è dentro se stessi. Tutto è lì, davanti a noi, deve solo essere osservato, colto nella sua meraviglia: «Per molti giorni, per molte miglia,/ con molte spese, per molti paesi,/ sono andato a vedere i monti,/ sono andato a vedere il mare./ Ma a due passi da casa,/ quando ho aperto gli occhi,/ non ho visto/ una goccia di rugiada/ sopra una spiga di grano».
Si devono aprire le porte della conoscenza, dell’infinita dolcezza della vita, occorre guardarsi intorno con gli occhi dell’anima, cogliere il “dolce ricordo” dei fiori nel proprio giardino, la gioia nel cuore: un raggio d’oro può illuminare il cammino «entra nel giardino della tua vita/ nel sentiero fiorito dei tuoi giorni/ dove la musica può nascere/ dalla loro profondità…».
Il canto lirico di Tagore ritrova così “schiere di loto” in Stormi nel cielo: «I miei canti sono schiere di loto/ dove sono nati/ non sono rimasti./ Sono senza radici,/ ma hanno foglie e fiori./ Con la gioia della luce/ danzano sulle onde delle acque./ Sono senza casa e senza raccolto,/ come ospiti sconosciuti/ s’ignora quando arrivano»; si alimenta “l’infinita gioia” che si può nascondere nelle “prime verdi gemme dei cedri in fiore”; il dolce profumo dell’henna e il cielo azzurro intenso; il “velo color zafferano che inebria gli occhi”, i “rami di mirtilli che tremano” e l’energia universale che tutto muove.
E il suo cuore vibra nella luce del mattino che inonda la vista, nella “luce d’oro che danza sulle foglie”, nella luce della vita che dispiega l’incanto dell’essere viventi, nella fiamma ardente che allontana dagli abissi di tenebre, nel calore che fa “bruciare il cuore”: le parole nascono da verità profondamente sentite, il fiume della ragione mai smarrisce il suo corso e segue fedelmente l’idea che «non si deve mai perdere di vista il vero essere, fondamentale è vedere chi veramente si è».
Sentire “in ogni luogo”, vedere “in ogni cosa”. Questo ci ricorda continuamente Tagore.
L’uomo, il poeta, il saggio Tagore contempla e alimenta una fusione con gli elementi naturali, le visioni si fanno vive come fosse davanti al divino, riportano all’Armonia universale da adorare con semplicità e bontà d’animo: ecco il miracolo della vita, la forza dei sentimenti, la meraviglia del seme che germoglia e l’inebriarsi per tutto ciò che ci circonda.
La ricerca dell’Armonia è nelle mani dell’Uomo, è sufficiente desiderarla, coglierla nell’amore, nel profondo del cuore, nei paesaggi della natura che irrompe davanti ai nostri occhi, nei gesti e nelle semplici cose quotidiane della vita stessa.
Ecco allora che “nell’acqua d’uno stagno” o nel “vagare nella terra delle meraviglie”, nel semplice “fiore che sboccia” e “nel sentiero tortuoso” che conduce al simbolico fiume, il poeta contempla, innumerevoli volte, tutto ciò che viene offerto, all’ombra d’un albero o “alla luce di marzo”: la semplicità delle visioni riempie il cuore e il canto della terra fa risuonare la verità fino a scrivere «attraverso la mia porta/ davanti agli occhi/ ho visto mille volte/ l’universo eterno».
Tutto si fonde nel canto della vita. La parola di Tagore è la testimonianza della costante contemplazione, una poesia della natura, un percorso nei luoghi dell’anima, nelle “ali della morte”, nella percezione del divino, nei “fogli strappati della vita”, nelle immagini del paesaggio bengalese, nel cammino che conduce alla vera essenza della vita.
Fin dall’infanzia Tagore è affascinato «dalle più lontane profondità del cielo/ tutto pervaso dallo splendore del sole…», dagli alberi del giardino, dalla catena dell’Himalaya, dal parco della villa sul Gange del fratello, dalla “verde primavera” e dalle “nuvole nel cielo infinito”: la sua verità poetica sarà «le mie canzoni sono una sola cosa/ col mio amore, come l’acqua che mormora/ con le sue onde, le sue correnti».
E proprio sulle onde dell’oceano della gioia, fluttua la poesia del poeta, come a seguire con pacati gesti il lento fluire dell’acqua che asseconda le anse del fiume, il paesaggio della sua terra, il Bengala, colto nei cieli stellati e nei tramonti dorati, le passeggiate nei giardini verdeggianti, tra profumi di fiori e atmosfere d’incanto nella luce spirituale.
La Gioia del verde davanti alle meraviglie del mondo, è la stupefacente bellezza che avvolge e ispira, è la musica nella vita, la luce del mattino, il dolce succo vitale, il silenzioso mistero dell’amore.
Quando sbocciano i fiori profumatissimi di mahua, quando l’aria intiepidisce al profumo dei bakulas, Tagore osserva, al di sopra, il cielo del Bengala pieno di luce mentre la brezza accarezza il viso, “sente” sotto di sé, la terra verde e il mormorio dell’acqua del fiume che lambisce l’Uomo.
Cantando con il padre le Upanishad, le preghiere dei libri Vedici, il poeta «tiene il cuore in silenzio come un fiore/ veglia i sogni come fa la luna crescente» e scrive, in “Stormi nel cielo”, «il mio cuore s’innalza in cielo/ vuole fiorire come l’aurora»… perché «il cuore ha cercato di vedere/ quello che nella gioia e nelle pene/ a più riprese lo ha reso perfetto».
E tutto si miscela, gli antichi canti Vaisnava di musicisti poeti, la poesia d’un baul poeta pellegrino d’antica tradizione indiana, le visioni e le percezioni d’un saggio poeta.
L’amore dell’uomo per l’uomo che segue la propria coscienza, la carità e la tolleranza, la comprensione spirituale e la legge divina che governa il mondo «mi sono meravigliato della semplicità/ di questo grande mondo intorno a me/ della disinvoltura tenera e familiare/ con la quale il mio cuore scopre/ l’Eterno Straniero» e ancora, in Ali della morte «sono solo un poeta…/vedo quest’Universo nella sua interezza/ nei cieli un milione di stelle testimoniano/ la sua bellezza suprema…/ Nel cielo/ vedo la grande rilucente Rosa/ schiusa, petalo a petalo».
Nei Ricordi Tagore rivive la “luce autunnale”, camminando su e giù lungo la veranda, scrivendo poesie che accompagnano il desiderio di “far disegni”, sovente rimasti nella mente senza “tracciare nemmeno una linea”, mentre “l’oro fuso di quella luce” fa maturare la poesia come il “grano per il contadino” e la gioia si diffonde nel “gioco delle nuvole” e l’amarezza non è che “un soffio nell’azzurro cielo”. E, infine, tutto passa attraverso lo sguardo d’un dorato filtro: «Ora le mie poesie sono arrivate alle porte degli uomini: qui è permesso quell’andare e venire senza scopo; ci sono porte dopo porte e stanze dopo stanze. Quante volte dobbiamo tornare, con il solo bagliore di luce intravisto da una finestra?… La mente ha da fare con un’altra mente, la volontà deve venire a condizione con un’altra volontà, attraverso tanti ostacoli intricati, prima d’arrivare al momento del dare e dell’avere. La ragione di vita, che da quegli ostacoli irrompe con violenza, spruzza e spumeggia in riso e lacrime, danza e rotea rapidamente, in turbini dai quali non si può avere un’idea definita del suo corso».
Eppure «il tempo passa/ tu continui a versare/ e c’è ancora spazio da riempire»: c’è il profumo della vita, il gioco delle rivelazioni e dei misteri, l’amore semplice come un canto, nessuna ombra dietro l’incanto nelle calde ore del meriggio.
V’è sempre il tempo per il viaggio, attraverso i segni profondi della vita, perché dalla “ricerca complessa nasce la semplicità d’una melodia” fino a giungere al “santuario della nostra coscienza”, al tempio dove la terra, il sole, l’acqua, il cielo, il vento, tutto ciò che si vede, si vive, si ama, formano il fragile vaso da riempire di nuova vita.
La bellezza del Creato, così come i misteriosi angoli della propria stanza, fino all’orlo dell’eternità, conducono alla profonda pienezza, quasi una “dolce carezza universale”, un dolcissimo miele nascosto nei giorni della vita, nel teatro multiforme dell’esistenza: frugando e tastando il mondo appare il “significato delle cose”, la volontà di costruire la propria vita in modo semplice, il desiderio di riunire, sotto il grande cielo, ciò che è stato sparso in mille meraviglie.
Nelle stagioni che avanzano, nei nuovi scenari e profumi che, inevitabilmente, si alternano.
Tagore, il poeta, il mistico e il profeta, il saggio in fluenti vesti, l’uomo che nel profondo del suo cuore è rimasto il figlio dei Saggi dell’antica India che recitavano «il mondo è nato dalla grande gioia/ il mondo è conservato dalla grande gioia/ e nella grande gioia entriamo dopo la morte».
Nella luce che svanisce, nell’ultima luce del tramonto… sempre riesce a sentire la gioia che riempie la terra e mai può “lasciare che il tempo passi invano”.
Tagore ricorderà: «Fin dall’infanzia ero stato dotato di una viva sensibilità che faceva vibrare la mia mente all’unisono con il mondo circostante – quello delle cose e quello degli uomini. Presso la nostra casa tenevamo un piccolo giardino: per me era un luogo fatato, ove i miracoli della bellezza erano evento abituale. Quasi ogni giorno quando albeggiava saltavo giù dal letto in gran fretta per rendere un saluto al primo raggio che filtrava tra gli ondeggianti rami delle palme del giardino, mentre l’erba brillava di rugiada al brivido della brezza mattutina».
Eppure la sua vita sarà contrassegnata dal dolore. Il dolore accompagnerà Tagore, ne sentirà la stretta lancinante e, in pochi anni, vedrà morire prima la moglie, poi una delle tre figlie, poi il figlio più piccolo, nonché il padre. Tagore infonderà tutto se stesso nell’arte e scriverà poesie che renderanno pienamente l’urto della morte: «C’è un poeta/ nel cuore dell’Universo!/Descrive sempre/ la bellezza dei fiori/cancella spesso/le insoddisfazioni dell’uomo/ma non riesce a far tacere mai/il grido di dolore”, e ancora, “Il dolore che ho dimenticato/nell’animo sta bruciando/nelle oscure/spiagge dei sogni” e, infine, ancor più tristemente “Il dolore è come una notte/nella stagione della pioggia:/piove continuamente, senza interruzione./ La gioia è come il lampo, messaggero di breve sorriso».
E poi, vi sarà quella che Tagore chiamerà la “visione”, la religione dell’Uomo: «Io avevo sofferto dolori che avevano lasciato in ricordo una lunga scia fiammeggiante attraverso i miei giorni, ma ora sentivo che con essi mi ero prestato a un’opera di creazione che eccedeva i miei limiti personali, così come le stelle, individualmente splendendo, tutte insieme rischiaravano la storia universale. Avvertivo con grande gioia che nella mia vita era subentrato un senso di distacco, dovuto all’idea del mistero di un incontro a due che si realizzava in un sodalizio creativo. E compresi di aver finalmente trovato la mia religione, la religione dell’Uomo, in cui l’infinito si definisce in termini umani, e ci diventa prossimo, quasi bisognoso del nostro amore e del nostro sostegno».
Tutto ciò non basterà per distogliere la mente da ciò che riteneva essenziale per la sua vita «perché il fiore regna tra le spine/in tutto il suo splendore» e l’uomo Tagore porta con sé un ideale di saggezza, una voce interiore consapevole della necessità d’un rinnovamento spirituale nella terra in cui è nato come quando, ne La Religione dell’Uomo, ricorderà ciò che scriveva un antico poeta: «L’illusione degli uomini di trovare la gioia in questa vuota esistenza, somiglia a quella dei bambini che credono di poppare il latte materno mentre si succhiano il dito».
Fino a quarant’anni Tagore sarà completamente assorbito dalla poesia e dall’impegno letterario ma, ad un certo punto, sentirà il bisogno di impegnarsi per l’istruzione dei bambini, di offrire un sistema educativo differente da quello vigente che non teneva in considerazione l’accrescimento spirituale ed artistico: «L’istruzione più elevata è quella che non ci dà soltanto delle nozioni, ma sviluppa la nostra vita nell’armonia con la totalità dell’essere». Tagore fonderà una scuola pedagogica a Santiniketan che diventerà l’Università internazionale Vishva-Bharati, (Vishva in Sanscrito significa Universo e Bharati significa Saggezza) il cui obbiettivo sarà “bussare alle porte della mente” e nella quale «gli uomini si riuniscono per il supremo fine della vita, nella pace della natura, dove la vita non è solo meditativa, ma alacre in tutte le proprie attività… dove l’alba e il tramonto e la silente gloria delle stelle non sono quotidianamente ignorati… dove la natura nel rigoglio dei suoi fiori e dei suoi frutti è sentita in letizia dall’uomo; e dove il vecchio e il giovane, il maestro e lo scolaro siedono alla stessa tavola per dividere il cibo quotidiano, il cibo della loro vita quotidiana». Il motto che Tagore sceglierà per la sua Università sarà il versetto sanscrito: «Yatra Visvam bhavaty eka-nidam» (Là dove tutto il mondo si unisce in un nido).
Le sue parole saranno pervase da un senso di carità e tolleranza, coltivate giorno dopo giorno, nell’infinita bellezza del mondo visto con gli occhi di un uomo che riesce a percepire l’invisibile, l’essenza stessa d’ogni visione spirituale, il Dono dell’Amore.
Le poesie di Tagore sono luce che illumina nel magico scenario della terra, nel senso della Natura, nel «sottile grido d’un falco volante nel sole di un torrido meriggio indiano» che mandava un segnale al ragazzo solitario che era il giovane Tagore: il segnale di una «distante affinità che non aveva bisogno di parole».
E Tagore scriverà: «All’inizio qualcuno potrà negare la verità del fatto che una rosa dia maggiore soddisfazione di una moneta d’oro. Ma in seguito dovrà ammetterla se parliamo di valori naturali ed immediati». Ecco allora l’ultima visione: «Se dovessimo attraversare un deserto di sabbie aurifere, il crudele scintillio di quelle morte pagliuzze diventerebbe una persecuzione, mentre la vista di una rosa sarebbe per noi una musica di paradiso».
Il crudele scintillio del vile metallo o il nostro cuore che ha luce divina: «Se sei murato in te è solo notte. Apri gli occhi, e fuori di te troverai luce infinita».
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Rabindranath Tagore (noto anche con il nome di Gurudev) è il nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur. Nato a Calcutta, 6 maggio 1861, da una ricca famiglia di intellettuali (il padre era filosofo), comincia a comporre poesie all’età di otto anni e, crescendo, la passione di scrittore e poeta si sviluppa in lui sempre più. Nel 1877, viene mandato a studiare Diritto nel Regno Unito dal padre e rientra in India nel 1880.
La sua straordinaria creatività artistica lo indirizza anche verso la musica, la danza e la pittura, e grazie alla sua visione filosofico-religiosa, nel tempo diviene molto noto e apprezzato in tutto il mondo.
Tagore si proponeva di conciliare e integrare Oriente ed Occidente: un’opera difficile, cui però egli era preparato dall’esempio del nonno che, nel 1928, aveva fondato il “Sodalizio dei credenti in Dio”, integrando il monoteismo cristiano ed il politeismo induista. Nel 1901 crea a Santiniketan (che significa: asilo di pace) presso Bolpur, a 100 chilometri da Calcutta, una scuola dove attuare concretamente i propri ideali pedagogici: impartire lezioni agli alunni all’aperto e a contatto con la natura, in forma di conversazione fra allievi e maestri, miscelando filosofie orientali e occidentali. Il pensiero religioso-filosofico alla base dell’opera di Tagore è espresso soprattutto in “Sadhana”, in cui raccoglie una scelta delle conferenze tenute nella sua scuola di Santiniketan. Il suo pensiero si fonda su un panteismo mistico partendo dalla contemplazione della natura, nella quale Tagore vede in ogni sua manifestazione la permanenza immutabile di Dio e quindi l’identità tra l’assoluto e il particolare, tra l’essenza di ogni uomo e quella dell’universo. È stato uno dei maggiori maestri nel XX secolo a cercare il significato dell’esistenza nella riconciliazione con l’universale e con l’essere supremo che percorre tutta la filosofia indiana. Tagore è stato tradotto in tutte le lingue europee ed è uno degli autori di origini bengalesi più noto in Occidente. Il pensiero di Tagore esercita un così enorme fascino sul mondo occidentale, che nel 1913 arriva a premiarlo con il prestigioso Premio Nobel per la letteratura e lui devolve la somma del premio a favore della scuola di Santiniketan, ed è proprio lì che muore il 7 agosto 1941, lasciando dietro di sé la divulgazione del suo pensiero, l’attività politica e la sua immensa produzione artistica.
(Massimo Barile)
Petali sulle ceneri
Tu ti doni a me come un fiore che non si schiude
che all’avvicinarsi della sera,
la cui presenza è tradita dal profumo che libera
nell’ombra. Così viene a passi silenziosi
la primavera, quando le gemme gonfiano
le cortecce.
Tu t’imponi al mio spirito come le alte onde
della marea crescente, il mio cuore si nasconde
sotto canti burrascosi.
Presentivo il tuo arrivo come la notte affretta l’alba.
Un cielo nuovo mi è stato rivelato attraverso
le nuvole che diventano rosse.
Il silenzio di alcuni luoghi, l’avventura nel mondo conosciuto e il periplo nel complesso e segreto cosmo interiore, le numerose vicende della vita e le inebrianti manifestazioni dell’Amore, non sono altro che le “occasioni” messe a disposizione da questo ciclo di vita, per avvicinarsi alla meta, alla Luce Creatrice.
Quasi mettersi in viaggio per scandagliare le zone più profonde, lambire l’essenza che compone il nostro nucleo, la nostra sostanza, il centro dove persiste l’equilibrio vitale.
Non è un caso che molti saggi ritornino nel luogo in cui sono nati, dove sentono le loro profonde radici, nella loro terra, nel luogo dell’anima, del loro Essere: il giardino dove passeggiavano, la vecchia casa come uno scrigno memoriale, il profumo di quel luogo unico che pervade ogni fibra, che ricrea nella mente le immagini e le emozioni.
Ripudiare le proprie radici allontana dall’equilibrio interiore: riconoscere la propria oasi mentale, custodire il rifugio della mente, significa salvarsi dal naufragio nel tempo che divora ogni cosa.
Molte visioni si susseguono nella mente. Si possono sognare le lontane stagioni quando il sole infuocava il nostro cuore, quando il profumo del mare si insediava dentro di noi e i nostri occhi vedevano ciò che non era visibile: la voglia insopprimibile di liberarsi nell’aria, di liquefarsi nel sole, di sciogliersi nell’acqua e ritornare agli elementi naturali. Nel lungo e faticoso viaggio verso la propria casa mentale, fare i conti con il destino che ci è stato inflitto, strappando quel sottile filo che ci tiene incatenati alla nostra materia. Nei gesti di una mano, nella dolcezza di parole offerte come dono, nelle poesie fissate nel tempo del dolore e del pianto, nel giorno e nella notte, sognando un mondo senza sofferenza, nell’ultimo istante senza fine, tutto può essere estasi e caduta abissale.
La prima volta che lessi le poesie di Tagore mi venne in mente questo racconto zen. Un giovane monaco si recò dal maestro per studiare sotto la sua guida. Quando arrivò da lui, dichiarò: «Sono giunto qui per cercare la verità; da dove devo incominciare per entrare nello zen?». Il maestro domandò: «Senti il mormorio del torrente di montagna?», «Sì, maestro, lo sento» rispose il giovane. «Allora, entra da lì” fu la risposta del maestro.
In un istante mi resi conto che, «per quanto grandi possano essere la nostra conoscenza e la nostra comprensione concettuale, di fronte all’esperienza reale esse sono come fiocchi di neve su un fuoco». Era un semplice invito a “guardare”, a risvegliare il proprio sé.
L’esistenza può condurre la mente al di là, oltre la vita stessa, nel rumore dell’acqua che scorre veloce, nel vento violento, nell’imbrunire nella foresta, nei giardini fioriti come a seguire il “vento e le nuvole”, le stelle che stanno in cielo e le impronte che stanno in terra. E gli occhi del poeta sono “pieni di desiderio”, sfidano l’acqua scura, la pioggia del monsone, i sentieri sinuosi e le inevitabili sofferenze della vita.
E non importa fare lunghi viaggi in luoghi sconosciuti o paesi lontani ma occorre guardare il mondo con occhi nuovi perché l’unico vero viaggio che conduce alla scoperta e alla conoscenza è dentro se stessi. Tutto è lì, davanti a noi, deve solo essere osservato, colto nella sua meraviglia: «Per molti giorni, per molte miglia,/ con molte spese, per molti paesi,/ sono andato a vedere i monti,/ sono andato a vedere il mare./ Ma a due passi da casa,/ quando ho aperto gli occhi,/ non ho visto/ una goccia di rugiada/ sopra una spiga di grano».
Si devono aprire le porte della conoscenza, dell’infinita dolcezza della vita, occorre guardarsi intorno con gli occhi dell’anima, cogliere il “dolce ricordo” dei fiori nel proprio giardino, la gioia nel cuore: un raggio d’oro può illuminare il cammino «entra nel giardino della tua vita/ nel sentiero fiorito dei tuoi giorni/ dove la musica può nascere/ dalla loro profondità…».
Il canto lirico di Tagore ritrova così “schiere di loto” in Stormi nel cielo: «I miei canti sono schiere di loto/ dove sono nati/ non sono rimasti./ Sono senza radici,/ ma hanno foglie e fiori./ Con la gioia della luce/ danzano sulle onde delle acque./ Sono senza casa e senza raccolto,/ come ospiti sconosciuti/ s’ignora quando arrivano»; si alimenta “l’infinita gioia” che si può nascondere nelle “prime verdi gemme dei cedri in fiore”; il dolce profumo dell’henna e il cielo azzurro intenso; il “velo color zafferano che inebria gli occhi”, i “rami di mirtilli che tremano” e l’energia universale che tutto muove.
E il suo cuore vibra nella luce del mattino che inonda la vista, nella “luce d’oro che danza sulle foglie”, nella luce della vita che dispiega l’incanto dell’essere viventi, nella fiamma ardente che allontana dagli abissi di tenebre, nel calore che fa “bruciare il cuore”: le parole nascono da verità profondamente sentite, il fiume della ragione mai smarrisce il suo corso e segue fedelmente l’idea che «non si deve mai perdere di vista il vero essere, fondamentale è vedere chi veramente si è».
Sentire “in ogni luogo”, vedere “in ogni cosa”. Questo ci ricorda continuamente Tagore.
L’uomo, il poeta, il saggio Tagore contempla e alimenta una fusione con gli elementi naturali, le visioni si fanno vive come fosse davanti al divino, riportano all’Armonia universale da adorare con semplicità e bontà d’animo: ecco il miracolo della vita, la forza dei sentimenti, la meraviglia del seme che germoglia e l’inebriarsi per tutto ciò che ci circonda.
La ricerca dell’Armonia è nelle mani dell’Uomo, è sufficiente desiderarla, coglierla nell’amore, nel profondo del cuore, nei paesaggi della natura che irrompe davanti ai nostri occhi, nei gesti e nelle semplici cose quotidiane della vita stessa.
Ecco allora che “nell’acqua d’uno stagno” o nel “vagare nella terra delle meraviglie”, nel semplice “fiore che sboccia” e “nel sentiero tortuoso” che conduce al simbolico fiume, il poeta contempla, innumerevoli volte, tutto ciò che viene offerto, all’ombra d’un albero o “alla luce di marzo”: la semplicità delle visioni riempie il cuore e il canto della terra fa risuonare la verità fino a scrivere «attraverso la mia porta/ davanti agli occhi/ ho visto mille volte/ l’universo eterno».
Tutto si fonde nel canto della vita. La parola di Tagore è la testimonianza della costante contemplazione, una poesia della natura, un percorso nei luoghi dell’anima, nelle “ali della morte”, nella percezione del divino, nei “fogli strappati della vita”, nelle immagini del paesaggio bengalese, nel cammino che conduce alla vera essenza della vita.
Fin dall’infanzia Tagore è affascinato «dalle più lontane profondità del cielo/ tutto pervaso dallo splendore del sole…», dagli alberi del giardino, dalla catena dell’Himalaya, dal parco della villa sul Gange del fratello, dalla “verde primavera” e dalle “nuvole nel cielo infinito”: la sua verità poetica sarà «le mie canzoni sono una sola cosa/ col mio amore, come l’acqua che mormora/ con le sue onde, le sue correnti».
E proprio sulle onde dell’oceano della gioia, fluttua la poesia del poeta, come a seguire con pacati gesti il lento fluire dell’acqua che asseconda le anse del fiume, il paesaggio della sua terra, il Bengala, colto nei cieli stellati e nei tramonti dorati, le passeggiate nei giardini verdeggianti, tra profumi di fiori e atmosfere d’incanto nella luce spirituale.
La Gioia del verde davanti alle meraviglie del mondo, è la stupefacente bellezza che avvolge e ispira, è la musica nella vita, la luce del mattino, il dolce succo vitale, il silenzioso mistero dell’amore.
Quando sbocciano i fiori profumatissimi di mahua, quando l’aria intiepidisce al profumo dei bakulas, Tagore osserva, al di sopra, il cielo del Bengala pieno di luce mentre la brezza accarezza il viso, “sente” sotto di sé, la terra verde e il mormorio dell’acqua del fiume che lambisce l’Uomo.
Cantando con il padre le Upanishad, le preghiere dei libri Vedici, il poeta «tiene il cuore in silenzio come un fiore/ veglia i sogni come fa la luna crescente» e scrive, in “Stormi nel cielo”, «il mio cuore s’innalza in cielo/ vuole fiorire come l’aurora»… perché «il cuore ha cercato di vedere/ quello che nella gioia e nelle pene/ a più riprese lo ha reso perfetto».
E tutto si miscela, gli antichi canti Vaisnava di musicisti poeti, la poesia d’un baul poeta pellegrino d’antica tradizione indiana, le visioni e le percezioni d’un saggio poeta.
L’amore dell’uomo per l’uomo che segue la propria coscienza, la carità e la tolleranza, la comprensione spirituale e la legge divina che governa il mondo «mi sono meravigliato della semplicità/ di questo grande mondo intorno a me/ della disinvoltura tenera e familiare/ con la quale il mio cuore scopre/ l’Eterno Straniero» e ancora, in Ali della morte «sono solo un poeta…/vedo quest’Universo nella sua interezza/ nei cieli un milione di stelle testimoniano/ la sua bellezza suprema…/ Nel cielo/ vedo la grande rilucente Rosa/ schiusa, petalo a petalo».
Nei Ricordi Tagore rivive la “luce autunnale”, camminando su e giù lungo la veranda, scrivendo poesie che accompagnano il desiderio di “far disegni”, sovente rimasti nella mente senza “tracciare nemmeno una linea”, mentre “l’oro fuso di quella luce” fa maturare la poesia come il “grano per il contadino” e la gioia si diffonde nel “gioco delle nuvole” e l’amarezza non è che “un soffio nell’azzurro cielo”. E, infine, tutto passa attraverso lo sguardo d’un dorato filtro: «Ora le mie poesie sono arrivate alle porte degli uomini: qui è permesso quell’andare e venire senza scopo; ci sono porte dopo porte e stanze dopo stanze. Quante volte dobbiamo tornare, con il solo bagliore di luce intravisto da una finestra?… La mente ha da fare con un’altra mente, la volontà deve venire a condizione con un’altra volontà, attraverso tanti ostacoli intricati, prima d’arrivare al momento del dare e dell’avere. La ragione di vita, che da quegli ostacoli irrompe con violenza, spruzza e spumeggia in riso e lacrime, danza e rotea rapidamente, in turbini dai quali non si può avere un’idea definita del suo corso».
Eppure «il tempo passa/ tu continui a versare/ e c’è ancora spazio da riempire»: c’è il profumo della vita, il gioco delle rivelazioni e dei misteri, l’amore semplice come un canto, nessuna ombra dietro l’incanto nelle calde ore del meriggio.
V’è sempre il tempo per il viaggio, attraverso i segni profondi della vita, perché dalla “ricerca complessa nasce la semplicità d’una melodia” fino a giungere al “santuario della nostra coscienza”, al tempio dove la terra, il sole, l’acqua, il cielo, il vento, tutto ciò che si vede, si vive, si ama, formano il fragile vaso da riempire di nuova vita.
La bellezza del Creato, così come i misteriosi angoli della propria stanza, fino all’orlo dell’eternità, conducono alla profonda pienezza, quasi una “dolce carezza universale”, un dolcissimo miele nascosto nei giorni della vita, nel teatro multiforme dell’esistenza: frugando e tastando il mondo appare il “significato delle cose”, la volontà di costruire la propria vita in modo semplice, il desiderio di riunire, sotto il grande cielo, ciò che è stato sparso in mille meraviglie.
Nelle stagioni che avanzano, nei nuovi scenari e profumi che, inevitabilmente, si alternano.
Tagore, il poeta, il mistico e il profeta, il saggio in fluenti vesti, l’uomo che nel profondo del suo cuore è rimasto il figlio dei Saggi dell’antica India che recitavano «il mondo è nato dalla grande gioia/ il mondo è conservato dalla grande gioia/ e nella grande gioia entriamo dopo la morte».
Nella luce che svanisce, nell’ultima luce del tramonto… sempre riesce a sentire la gioia che riempie la terra e mai può “lasciare che il tempo passi invano”.
Tagore ricorderà: «Fin dall’infanzia ero stato dotato di una viva sensibilità che faceva vibrare la mia mente all’unisono con il mondo circostante – quello delle cose e quello degli uomini. Presso la nostra casa tenevamo un piccolo giardino: per me era un luogo fatato, ove i miracoli della bellezza erano evento abituale. Quasi ogni giorno quando albeggiava saltavo giù dal letto in gran fretta per rendere un saluto al primo raggio che filtrava tra gli ondeggianti rami delle palme del giardino, mentre l’erba brillava di rugiada al brivido della brezza mattutina».
Eppure la sua vita sarà contrassegnata dal dolore. Il dolore accompagnerà Tagore, ne sentirà la stretta lancinante e, in pochi anni, vedrà morire prima la moglie, poi una delle tre figlie, poi il figlio più piccolo, nonché il padre. Tagore infonderà tutto se stesso nell’arte e scriverà poesie che renderanno pienamente l’urto della morte: «C’è un poeta/ nel cuore dell’Universo!/Descrive sempre/ la bellezza dei fiori/cancella spesso/le insoddisfazioni dell’uomo/ma non riesce a far tacere mai/il grido di dolore”, e ancora, “Il dolore che ho dimenticato/nell’animo sta bruciando/nelle oscure/spiagge dei sogni” e, infine, ancor più tristemente “Il dolore è come una notte/nella stagione della pioggia:/piove continuamente, senza interruzione./ La gioia è come il lampo, messaggero di breve sorriso».
E poi, vi sarà quella che Tagore chiamerà la “visione”, la religione dell’Uomo: «Io avevo sofferto dolori che avevano lasciato in ricordo una lunga scia fiammeggiante attraverso i miei giorni, ma ora sentivo che con essi mi ero prestato a un’opera di creazione che eccedeva i miei limiti personali, così come le stelle, individualmente splendendo, tutte insieme rischiaravano la storia universale. Avvertivo con grande gioia che nella mia vita era subentrato un senso di distacco, dovuto all’idea del mistero di un incontro a due che si realizzava in un sodalizio creativo. E compresi di aver finalmente trovato la mia religione, la religione dell’Uomo, in cui l’infinito si definisce in termini umani, e ci diventa prossimo, quasi bisognoso del nostro amore e del nostro sostegno».
Tutto ciò non basterà per distogliere la mente da ciò che riteneva essenziale per la sua vita «perché il fiore regna tra le spine/in tutto il suo splendore» e l’uomo Tagore porta con sé un ideale di saggezza, una voce interiore consapevole della necessità d’un rinnovamento spirituale nella terra in cui è nato come quando, ne La Religione dell’Uomo, ricorderà ciò che scriveva un antico poeta: «L’illusione degli uomini di trovare la gioia in questa vuota esistenza, somiglia a quella dei bambini che credono di poppare il latte materno mentre si succhiano il dito».
Fino a quarant’anni Tagore sarà completamente assorbito dalla poesia e dall’impegno letterario ma, ad un certo punto, sentirà il bisogno di impegnarsi per l’istruzione dei bambini, di offrire un sistema educativo differente da quello vigente che non teneva in considerazione l’accrescimento spirituale ed artistico: «L’istruzione più elevata è quella che non ci dà soltanto delle nozioni, ma sviluppa la nostra vita nell’armonia con la totalità dell’essere». Tagore fonderà una scuola pedagogica a Santiniketan che diventerà l’Università internazionale Vishva-Bharati, (Vishva in Sanscrito significa Universo e Bharati significa Saggezza) il cui obbiettivo sarà “bussare alle porte della mente” e nella quale «gli uomini si riuniscono per il supremo fine della vita, nella pace della natura, dove la vita non è solo meditativa, ma alacre in tutte le proprie attività… dove l’alba e il tramonto e la silente gloria delle stelle non sono quotidianamente ignorati… dove la natura nel rigoglio dei suoi fiori e dei suoi frutti è sentita in letizia dall’uomo; e dove il vecchio e il giovane, il maestro e lo scolaro siedono alla stessa tavola per dividere il cibo quotidiano, il cibo della loro vita quotidiana». Il motto che Tagore sceglierà per la sua Università sarà il versetto sanscrito: «Yatra Visvam bhavaty eka-nidam» (Là dove tutto il mondo si unisce in un nido).
Le sue parole saranno pervase da un senso di carità e tolleranza, coltivate giorno dopo giorno, nell’infinita bellezza del mondo visto con gli occhi di un uomo che riesce a percepire l’invisibile, l’essenza stessa d’ogni visione spirituale, il Dono dell’Amore.
Le poesie di Tagore sono luce che illumina nel magico scenario della terra, nel senso della Natura, nel «sottile grido d’un falco volante nel sole di un torrido meriggio indiano» che mandava un segnale al ragazzo solitario che era il giovane Tagore: il segnale di una «distante affinità che non aveva bisogno di parole».
E Tagore scriverà: «All’inizio qualcuno potrà negare la verità del fatto che una rosa dia maggiore soddisfazione di una moneta d’oro. Ma in seguito dovrà ammetterla se parliamo di valori naturali ed immediati». Ecco allora l’ultima visione: «Se dovessimo attraversare un deserto di sabbie aurifere, il crudele scintillio di quelle morte pagliuzze diventerebbe una persecuzione, mentre la vista di una rosa sarebbe per noi una musica di paradiso».
Il crudele scintillio del vile metallo o il nostro cuore che ha luce divina: «Se sei murato in te è solo notte. Apri gli occhi, e fuori di te troverai luce infinita».
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Rabindranath Tagore (noto anche con il nome di Gurudev) è il nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur. Nato a Calcutta, 6 maggio 1861, da una ricca famiglia di intellettuali (il padre era filosofo), comincia a comporre poesie all’età di otto anni e, crescendo, la passione di scrittore e poeta si sviluppa in lui sempre più. Nel 1877, viene mandato a studiare Diritto nel Regno Unito dal padre e rientra in India nel 1880.
La sua straordinaria creatività artistica lo indirizza anche verso la musica, la danza e la pittura, e grazie alla sua visione filosofico-religiosa, nel tempo diviene molto noto e apprezzato in tutto il mondo.
Tagore si proponeva di conciliare e integrare Oriente ed Occidente: un’opera difficile, cui però egli era preparato dall’esempio del nonno che, nel 1928, aveva fondato il “Sodalizio dei credenti in Dio”, integrando il monoteismo cristiano ed il politeismo induista. Nel 1901 crea a Santiniketan (che significa: asilo di pace) presso Bolpur, a 100 chilometri da Calcutta, una scuola dove attuare concretamente i propri ideali pedagogici: impartire lezioni agli alunni all’aperto e a contatto con la natura, in forma di conversazione fra allievi e maestri, miscelando filosofie orientali e occidentali. Il pensiero religioso-filosofico alla base dell’opera di Tagore è espresso soprattutto in “Sadhana”, in cui raccoglie una scelta delle conferenze tenute nella sua scuola di Santiniketan. Il suo pensiero si fonda su un panteismo mistico partendo dalla contemplazione della natura, nella quale Tagore vede in ogni sua manifestazione la permanenza immutabile di Dio e quindi l’identità tra l’assoluto e il particolare, tra l’essenza di ogni uomo e quella dell’universo. È stato uno dei maggiori maestri nel XX secolo a cercare il significato dell’esistenza nella riconciliazione con l’universale e con l’essere supremo che percorre tutta la filosofia indiana. Tagore è stato tradotto in tutte le lingue europee ed è uno degli autori di origini bengalesi più noto in Occidente. Il pensiero di Tagore esercita un così enorme fascino sul mondo occidentale, che nel 1913 arriva a premiarlo con il prestigioso Premio Nobel per la letteratura e lui devolve la somma del premio a favore della scuola di Santiniketan, ed è proprio lì che muore il 7 agosto 1941, lasciando dietro di sé la divulgazione del suo pensiero, l’attività politica e la sua immensa produzione artistica.
(Massimo Barile)
Petali sulle ceneri
Tu ti doni a me come un fiore che non si schiude
che all’avvicinarsi della sera,
la cui presenza è tradita dal profumo che libera
nell’ombra. Così viene a passi silenziosi
la primavera, quando le gemme gonfiano
le cortecce.
Tu t’imponi al mio spirito come le alte onde
della marea crescente, il mio cuore si nasconde
sotto canti burrascosi.
Presentivo il tuo arrivo come la notte affretta l’alba.
Un cielo nuovo mi è stato rivelato attraverso
le nuvole che diventano rosse.
martedì 3 agosto 2010
Dichiarazione rilasciata da don Ciotti, sui vergognosi tagli al numero verde!!!
Ricevo da Paolo Borrello e volentieri pubblico:
Un numero per intercettare la speranza Gabriela, Tina, Anita. La loro libertà è iniziata con una telefonata. Sono alcune delle donne "trafficate", finite, loro malgrado, nel giro della tratta e della prostituzione, uno dei mercati più disumani tra quelli in mano alle mafie.
Hanno chiamato un giorno la postazione locale del "numero verde", hanno trovato una persona che le ha ascoltate, sostenute, indirizzate. Da lì è cominciata la speranza: la denuncia degli sfruttatori, l'accoglienza in strutture protette, il lavoro, la dignità. Un percorso costruito con la collaborazione di tanti: associazioni e servizi sociali, forze di polizia, magistratura, amministrazioni. In dieci anni sono 14mila le persone che hanno trovato in quei numeri di telefono - punto forte del sistema introdotto dall'articolo 18 del testo unico sull'immigrazione - l'occasione del riscatto. Ma dal 31 luglio non sarà più così. Ragioni economiche e di bilancio hanno portato il governo alla decisione di chiudere le postazioni locali del numero verde. Resterà solo quella centrale, insufficiente perché le chiamate chiedono interventi tempestivi, spesso immediati, indicazioni dettagliate, attenzione non burocratica, conoscenza specifica dei territori. Se tutto questo manca, il rischio è che le richieste d'aiuto, formulate da persone spaventate, disperate, che spesso conoscono poco o nulla la nostra lingua, somiglino ai messaggi nella bottiglia che i naufraghi affidano alle onde dell'oceano.
La speranza è che il governo ci ripensi e che trovi almeno i 600mila euro necessari a continuare il servizio per quest'anno e nel frattempo convochi tutte le parti in causa - pubbliche e private - per una riorganizzazione. Nessuno vuole negare la realtà della crisi economica e la necessità di ridurre il più possibile le spese. Ma bisogna distinguere tra gli sprechi, che vanno eliminati, e i costi. Questo è un costo, ma quando parla di "sociale" il costo è spesso un investimento. Una persona che esce dallo sfruttamento e dall'emarginazione può diventare una grande risorsa per la società, è una persona che dall'attenzione che le è stata rivolta sviluppa quel legame di corresponsabilità alla base del bene comune. Senza contare che ridurre l'area degli abusi e dei traffici significa fare terra bruciata attorno alle mafie. Solo negli ultimi cinque anni, tra il 2004 e il 2009, sono state ben 3455 le persone indagate o arrestate per tratta e sfruttamento della prostituzione minorile.
Stupisce che a fronte dell'efficacia dell'azione dei magistrati e delle forze di polizia contro il crimine organizzato si voglia chiudere o quantomeno indebolire uno strumento prezioso per colpire i mercati delle mafie, cioè la base del loro potere. E viene da fare un'amara analogia col disegno di legge sulle intercettazioni. Da un lato s'intende porre un limite all'intercettazione dei giochi criminali, anche dimenticando il dettato di una legge che porta il nome di Giovanni Falcone, dall'altro il limite viene posto all'intercettazione della speranza. E' un'iniziativa non solo ingiusta ma controproducente. Perché la speranza di Gabriela, di Tina, di Anita, di tante donne, uomini, minori è anche la nostra. Sono le persone più deboli e indifese a indicarci la strada del nostro futuro. Non possiamo risanare i nostri conti, le nostre traballanti economie, se non riconosciamo a tutti la dignità di persone e i mezzi per contribuire al bene comune.
Un numero per intercettare la speranza Gabriela, Tina, Anita. La loro libertà è iniziata con una telefonata. Sono alcune delle donne "trafficate", finite, loro malgrado, nel giro della tratta e della prostituzione, uno dei mercati più disumani tra quelli in mano alle mafie.
Hanno chiamato un giorno la postazione locale del "numero verde", hanno trovato una persona che le ha ascoltate, sostenute, indirizzate. Da lì è cominciata la speranza: la denuncia degli sfruttatori, l'accoglienza in strutture protette, il lavoro, la dignità. Un percorso costruito con la collaborazione di tanti: associazioni e servizi sociali, forze di polizia, magistratura, amministrazioni. In dieci anni sono 14mila le persone che hanno trovato in quei numeri di telefono - punto forte del sistema introdotto dall'articolo 18 del testo unico sull'immigrazione - l'occasione del riscatto. Ma dal 31 luglio non sarà più così. Ragioni economiche e di bilancio hanno portato il governo alla decisione di chiudere le postazioni locali del numero verde. Resterà solo quella centrale, insufficiente perché le chiamate chiedono interventi tempestivi, spesso immediati, indicazioni dettagliate, attenzione non burocratica, conoscenza specifica dei territori. Se tutto questo manca, il rischio è che le richieste d'aiuto, formulate da persone spaventate, disperate, che spesso conoscono poco o nulla la nostra lingua, somiglino ai messaggi nella bottiglia che i naufraghi affidano alle onde dell'oceano.
La speranza è che il governo ci ripensi e che trovi almeno i 600mila euro necessari a continuare il servizio per quest'anno e nel frattempo convochi tutte le parti in causa - pubbliche e private - per una riorganizzazione. Nessuno vuole negare la realtà della crisi economica e la necessità di ridurre il più possibile le spese. Ma bisogna distinguere tra gli sprechi, che vanno eliminati, e i costi. Questo è un costo, ma quando parla di "sociale" il costo è spesso un investimento. Una persona che esce dallo sfruttamento e dall'emarginazione può diventare una grande risorsa per la società, è una persona che dall'attenzione che le è stata rivolta sviluppa quel legame di corresponsabilità alla base del bene comune. Senza contare che ridurre l'area degli abusi e dei traffici significa fare terra bruciata attorno alle mafie. Solo negli ultimi cinque anni, tra il 2004 e il 2009, sono state ben 3455 le persone indagate o arrestate per tratta e sfruttamento della prostituzione minorile.
Stupisce che a fronte dell'efficacia dell'azione dei magistrati e delle forze di polizia contro il crimine organizzato si voglia chiudere o quantomeno indebolire uno strumento prezioso per colpire i mercati delle mafie, cioè la base del loro potere. E viene da fare un'amara analogia col disegno di legge sulle intercettazioni. Da un lato s'intende porre un limite all'intercettazione dei giochi criminali, anche dimenticando il dettato di una legge che porta il nome di Giovanni Falcone, dall'altro il limite viene posto all'intercettazione della speranza. E' un'iniziativa non solo ingiusta ma controproducente. Perché la speranza di Gabriela, di Tina, di Anita, di tante donne, uomini, minori è anche la nostra. Sono le persone più deboli e indifese a indicarci la strada del nostro futuro. Non possiamo risanare i nostri conti, le nostre traballanti economie, se non riconosciamo a tutti la dignità di persone e i mezzi per contribuire al bene comune.
lunedì 2 agosto 2010
domenica 1 agosto 2010
La Juve su Dzeko, il Pdl punta a Tanoni
di Fabio Di Iorio
1 agosto 2010
Come ogni anno, con il mese di agosto entra nel vivo il mercato dei politici, durante il quale ogni compagine prova a rafforzarsi o a fare quadrare i bilanci in vista della ripresa del torneo a fine agosto. A farla da padrone, ancora una volta, è il Pdl, la squadra che ha le maggiori risorse da investire per confermare la leadership nazionale e provare ancora a farsi rispettare in Europa.
Dopo la dolorosa rinuncia al pilastro Fini (forza, esperienza, ma troppi problemi di spogliatoio) patron Berlusconi si è rivolto all’Udc, aspettandosi porte aperte dopo l’avallo del passaggio di Vietti al Csm. Ma mister Casini ha risposto con un secco no alla cessione dei suoi talenti più interessanti e di prospettiva: ritiene, forse non a torto, di poter monetizzare molto di più dalla loro vendita dopo un altro anno di esperienza nel campionato dell’opposizione. Auguri. Allora Berlusconi si è rivolto al suo omologo Rutelli (con il quale ha da tempo riallacciato i rapporti dopo le antiche contrapposizioni). Anche qui, però, niente da fare: forte del nuovo sponsor (con Api si vola) il trainer romano non vuole indebolire la propria compagine puntando ad una nuova, clamorosa salvezza. Finora, quindi, il Pdl ha potuto solo acquisire il cartellino di alcuni svincolati (Tanoni, Melchiorre) e sta sondando il mercato estero: piace l’argentino Merlo dell’Indipendiente. Ma non basta: gli impegni sono tanti e serve una rosa più ampia.
Grandi manovre anche nel Pd, una squadra da rifondare con i giovani e che qualcuno sta pensando di affidare all’emergente Vendola (reduce da un sorprendente campionato di B vinto alla guida della sua squadra pugliese). Schemi all’avanguardia, bel gioco e capacità di far maturare i ragazzi le sue armi. Tuttavia a gioco lungo la società dovrebbe decidere di affidarsi ancora una volta all’esperienza di mister Bersani. Vendola, quindi, dovrebbe accontentarsi di guidare la squadra primavera.
Squadra che vince non si cambia è invece il motto della Lega Nord, reduce da un campionato coronato da una insperata qualificazione in Champions league. Tutti confermati i suoi campioni, da Maroni a Calderoli, da Cota a Zaia, in attesa di nuovi talenti setacciati sui campetti di periferia. Si coccola il talento acerbo di Renzo Bossi – “el Trota” – capace di numeri ad effetto ma ancora indisciplinato tatticamente. Crescerà. Intanto è stato mandato a fare esperienza nella Lega pro lombarda, dove avrà occasione di giocare con continuità.
Tutto fermo nell’Idv del vulcanico presidente Di Pietro. A bloccare il mercato sarebbe lo scontro societario in atto con il DS De Magistris, che punterebbe a rilevare la maggioranza azionaria con l’appoggio di una cordata di imprenditori locali. Staremo a vedere.
Negli affollati corridoi dell’hotel Gallia, storica sede del mercato, rimbalza intanto una voce tutta da confermare: i partiti della sinistra indipendente, la cui iscrizione è stata cancellata dalla Lega, potrebbero ripartire dalle regionali federandosi ed affidandosi ad una vecchia volpe ormai fuori dai giochi, Fausto Bertinotti. Fantacalcio?
1 agosto 2010
Come ogni anno, con il mese di agosto entra nel vivo il mercato dei politici, durante il quale ogni compagine prova a rafforzarsi o a fare quadrare i bilanci in vista della ripresa del torneo a fine agosto. A farla da padrone, ancora una volta, è il Pdl, la squadra che ha le maggiori risorse da investire per confermare la leadership nazionale e provare ancora a farsi rispettare in Europa.
Dopo la dolorosa rinuncia al pilastro Fini (forza, esperienza, ma troppi problemi di spogliatoio) patron Berlusconi si è rivolto all’Udc, aspettandosi porte aperte dopo l’avallo del passaggio di Vietti al Csm. Ma mister Casini ha risposto con un secco no alla cessione dei suoi talenti più interessanti e di prospettiva: ritiene, forse non a torto, di poter monetizzare molto di più dalla loro vendita dopo un altro anno di esperienza nel campionato dell’opposizione. Auguri. Allora Berlusconi si è rivolto al suo omologo Rutelli (con il quale ha da tempo riallacciato i rapporti dopo le antiche contrapposizioni). Anche qui, però, niente da fare: forte del nuovo sponsor (con Api si vola) il trainer romano non vuole indebolire la propria compagine puntando ad una nuova, clamorosa salvezza. Finora, quindi, il Pdl ha potuto solo acquisire il cartellino di alcuni svincolati (Tanoni, Melchiorre) e sta sondando il mercato estero: piace l’argentino Merlo dell’Indipendiente. Ma non basta: gli impegni sono tanti e serve una rosa più ampia.
Grandi manovre anche nel Pd, una squadra da rifondare con i giovani e che qualcuno sta pensando di affidare all’emergente Vendola (reduce da un sorprendente campionato di B vinto alla guida della sua squadra pugliese). Schemi all’avanguardia, bel gioco e capacità di far maturare i ragazzi le sue armi. Tuttavia a gioco lungo la società dovrebbe decidere di affidarsi ancora una volta all’esperienza di mister Bersani. Vendola, quindi, dovrebbe accontentarsi di guidare la squadra primavera.
Squadra che vince non si cambia è invece il motto della Lega Nord, reduce da un campionato coronato da una insperata qualificazione in Champions league. Tutti confermati i suoi campioni, da Maroni a Calderoli, da Cota a Zaia, in attesa di nuovi talenti setacciati sui campetti di periferia. Si coccola il talento acerbo di Renzo Bossi – “el Trota” – capace di numeri ad effetto ma ancora indisciplinato tatticamente. Crescerà. Intanto è stato mandato a fare esperienza nella Lega pro lombarda, dove avrà occasione di giocare con continuità.
Tutto fermo nell’Idv del vulcanico presidente Di Pietro. A bloccare il mercato sarebbe lo scontro societario in atto con il DS De Magistris, che punterebbe a rilevare la maggioranza azionaria con l’appoggio di una cordata di imprenditori locali. Staremo a vedere.
Negli affollati corridoi dell’hotel Gallia, storica sede del mercato, rimbalza intanto una voce tutta da confermare: i partiti della sinistra indipendente, la cui iscrizione è stata cancellata dalla Lega, potrebbero ripartire dalle regionali federandosi ed affidandosi ad una vecchia volpe ormai fuori dai giochi, Fausto Bertinotti. Fantacalcio?
Archivio cartaceo | di Marco Travaglio
BLOG di Marco Travaglio
31 luglio 2010
Proniviri
L’ altra sera, al Gran Coniglio del P3dl riunito a Palazzo Grazioli, Denis Verdini passeggiando nervosamente nella stanza ordinava a Sandro Bondi: “Carta, calamaio e penna!”. L’apposito James subito eseguiva e, curvo sullo scrittoio a ribaltino, vergava il comunicato della Banda Bassotti per liquidare Fini e deferire ai probiviri altri tre deviazionisti. Un unicum nella storia, dall’età della pietra a oggi: mai nessun politico, nemmeno in certi stati africani dove gli avversari venivano eliminati per via non giudiziaria, ma gastroenterica, era stato cacciato dal suo partito per eccessi di legalità. Dettava dunque Verdini: “L’Ufficio di Presidenza…’. Sandro, apri una parente. L’hai aperta? ‘…che siamo noi…’. Chiudi la parente. ‘…considera le posizioni dell’on. Fini assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Pdl’. Virgola, anzi punto e virgola, due punti. Massì, abbondiamo, abbondantis abbondandum!”.
Ogni tanto bussavano alla porta e Verdini, colto da un sussulto, guadagnava prontamente il cornicione, temendo da un momento all’altro l’irruzione dei gendarmi o degl’ispettori della Banca d’Italia che lo tallonano da tempo. Ma niente paura: una volta era La Russa che faceva capolino soffiando in una lingua di menelik per portare un po’ di buonumore. Un’altra volta era B. con un reggiseno a mo’ di bandana e un tanga a tracolla per raccomandare di andarci giù pesanti col traditore, poi tornava ai consueti passatempi. “Allora, Sandro, dov’eravamo rimasti? Ah sì: Fini è colluso con la giustizia e l’antimafia, continua pervicacemente a non rubare e per giunta rifiuta di tenerci il sacco, farci il palo e coprirci la fuga”. “Scusi se oso, magnifico Denis”, esalava James, “ma così dicendo qualcuno penserà che il documento l’abbia scritto Gambadilegno. Forse è meglio dire le stesse cose in forma più aulica: tipo che Fini ha fatto mancare ‘il vincolo di solidarietà ai propri compagni di partito, vorrebbe consegnare alle Procure tempi, modi e contenuti degli organigrammi istituzionali e di partito’, ‘pone in contraddizione legalità e garantismo, si mostra esitante nel respingere i teoremi su mafia e politica’… Che dici? Tanto chi vuol capire capisce”. “Oh, mettila giù come ti pare, ma lascia perdere le rime baciate. Purchè si capisca qual è il problema: quello non ruba e non lascia rubare, mettendoci in cattiva luce con gli amici degli amici e disorientando il nostro elettorato. Tanto poi ci pensano il Giornale e Libero a tirar fuori i dossier e il Corriere a gabellare il tutto come un capriccio caratteriale. E fai un po’ prestino ché c’ho una partita di assegni di passaggio e non vorrei perdermela”.
Intanto, anticipando i desiderata di Denis, l’ambasciatore Sergio Romano calzava la feluca d’ordinanza e le ghette primavera-estate delle grandi occasioni (le portava già a Plombières nel 1858, quando accompagnò Costantino Nigra e la contessa di Castiglione a rendere visita a Napoleone III e a passarvi le acque), aveva già telegrafato il consueto puntuto editoriale al Corriere della Sera, di quelli che da soli riescono a metterne in fuga il 14% dei lettori. “Di grazia – ammoniva il sempre vispo diplomatico, alternando il monocolo al più moderno e civettuolo pince-nez – risparmiateci questo spettacolo avvilente”, non “bisticciate” e “passate alla ricerca di formule che possano assicurare continuità e stabilità del governo”, “componendo le divergenze e accordandovi su un percorso comune” con “un’intesa fondata sulle vere esigenze del Paese” che “gioverà a coloro che avranno seriamente tentato di realizzarla”. Insomma gliele ha cantate chiare, come sempre. Dal canto suo, il Pd si accreditava come autorevole alternativa al P3dl, mandando al Csm l’ottimo Vietti, già autore della legge porcata sul falso in bilancio, e Calvi, l’avvocato di D’Alema, che terrà compagnia all’avvocato di Bossi, Brigandì, e a uno dei 67 avvocati di B., tale Palumbo. Perché, come dice Bersani, “siamo pronti per qualsiasi soluzione”. Anche a sostituire B. facendo le stesse cose.
*
31 luglio 2010
Proniviri
L’ altra sera, al Gran Coniglio del P3dl riunito a Palazzo Grazioli, Denis Verdini passeggiando nervosamente nella stanza ordinava a Sandro Bondi: “Carta, calamaio e penna!”. L’apposito James subito eseguiva e, curvo sullo scrittoio a ribaltino, vergava il comunicato della Banda Bassotti per liquidare Fini e deferire ai probiviri altri tre deviazionisti. Un unicum nella storia, dall’età della pietra a oggi: mai nessun politico, nemmeno in certi stati africani dove gli avversari venivano eliminati per via non giudiziaria, ma gastroenterica, era stato cacciato dal suo partito per eccessi di legalità. Dettava dunque Verdini: “L’Ufficio di Presidenza…’. Sandro, apri una parente. L’hai aperta? ‘…che siamo noi…’. Chiudi la parente. ‘…considera le posizioni dell’on. Fini assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Pdl’. Virgola, anzi punto e virgola, due punti. Massì, abbondiamo, abbondantis abbondandum!”.
Ogni tanto bussavano alla porta e Verdini, colto da un sussulto, guadagnava prontamente il cornicione, temendo da un momento all’altro l’irruzione dei gendarmi o degl’ispettori della Banca d’Italia che lo tallonano da tempo. Ma niente paura: una volta era La Russa che faceva capolino soffiando in una lingua di menelik per portare un po’ di buonumore. Un’altra volta era B. con un reggiseno a mo’ di bandana e un tanga a tracolla per raccomandare di andarci giù pesanti col traditore, poi tornava ai consueti passatempi. “Allora, Sandro, dov’eravamo rimasti? Ah sì: Fini è colluso con la giustizia e l’antimafia, continua pervicacemente a non rubare e per giunta rifiuta di tenerci il sacco, farci il palo e coprirci la fuga”. “Scusi se oso, magnifico Denis”, esalava James, “ma così dicendo qualcuno penserà che il documento l’abbia scritto Gambadilegno. Forse è meglio dire le stesse cose in forma più aulica: tipo che Fini ha fatto mancare ‘il vincolo di solidarietà ai propri compagni di partito, vorrebbe consegnare alle Procure tempi, modi e contenuti degli organigrammi istituzionali e di partito’, ‘pone in contraddizione legalità e garantismo, si mostra esitante nel respingere i teoremi su mafia e politica’… Che dici? Tanto chi vuol capire capisce”. “Oh, mettila giù come ti pare, ma lascia perdere le rime baciate. Purchè si capisca qual è il problema: quello non ruba e non lascia rubare, mettendoci in cattiva luce con gli amici degli amici e disorientando il nostro elettorato. Tanto poi ci pensano il Giornale e Libero a tirar fuori i dossier e il Corriere a gabellare il tutto come un capriccio caratteriale. E fai un po’ prestino ché c’ho una partita di assegni di passaggio e non vorrei perdermela”.
Intanto, anticipando i desiderata di Denis, l’ambasciatore Sergio Romano calzava la feluca d’ordinanza e le ghette primavera-estate delle grandi occasioni (le portava già a Plombières nel 1858, quando accompagnò Costantino Nigra e la contessa di Castiglione a rendere visita a Napoleone III e a passarvi le acque), aveva già telegrafato il consueto puntuto editoriale al Corriere della Sera, di quelli che da soli riescono a metterne in fuga il 14% dei lettori. “Di grazia – ammoniva il sempre vispo diplomatico, alternando il monocolo al più moderno e civettuolo pince-nez – risparmiateci questo spettacolo avvilente”, non “bisticciate” e “passate alla ricerca di formule che possano assicurare continuità e stabilità del governo”, “componendo le divergenze e accordandovi su un percorso comune” con “un’intesa fondata sulle vere esigenze del Paese” che “gioverà a coloro che avranno seriamente tentato di realizzarla”. Insomma gliele ha cantate chiare, come sempre. Dal canto suo, il Pd si accreditava come autorevole alternativa al P3dl, mandando al Csm l’ottimo Vietti, già autore della legge porcata sul falso in bilancio, e Calvi, l’avvocato di D’Alema, che terrà compagnia all’avvocato di Bossi, Brigandì, e a uno dei 67 avvocati di B., tale Palumbo. Perché, come dice Bersani, “siamo pronti per qualsiasi soluzione”. Anche a sostituire B. facendo le stesse cose.
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Sanità e appalti, la ’Ndrangheta comanda a Milano
1 agosto 2010
Chiriaco intercettato dalla Dia: "Qui i calabresi la spina dorsale del Pdl". Un poderoso lavoro della lobby guidata dal direttore dell'Asl di Pavia, anche per le Regionali
“Hai capito, qui i calabresi sono la spina dorsale del Popolo della libertà. Tutti io li ho inventati. Per cui con loro non ci sono problemi. Con Labate, Greco e con il sindaco”. E ancora: “Questo gruppo qua ha 1.800 voti”. Se poi ci si aggiunge il presidente del consiglio comunale “arriviamo a 2.200 e questo può essere la base su cui lavorare per la candidatura della cosa”. Gli investigatori traducono in Rosanna Gariboldi, moglie del deputato piddiellino Giancarlo Abelli.
Sono le 10 del 9 giugno 2009 quando la microspia, nascosta dentro alla Bmw registra tutto. La voce è quella di Carlo Antonio Chiriaco, direttore dell’Asl di Pavia, uomo delle tessere, amico di boss, massoni e deputati, finito in carcere il 13 luglio con altre 155 persone, accusate di associazione mafiosa. Assieme a un amico, fa i conti per le prossime elezioni. L’intercettazione è la prova decisiva di come in Lombardia siano ormai sovrapposti i piani tra mafia e politica. Il tutto è annotato in un’informativa della Dia di Milano firmata dal colonnello Stefano Polo e depositata nei duecento faldoni del maxi blitz tra Lombardia e Calabria. Circa cento pagine che raccontano l’infiltrazione dei clan nella pubblica amministrazione lombarda.
Cosche e politica, dunque. Questo il disegno. Sotto, scrive la Dia, “un vorticoso giro d’accordi solo in parte leciti”, attraverso i quali “Chiriaco è riuscito a piazzare persone a lui legate”. L’elenco è sterminato. Si va dal Comune, alla Provincia fino alla Regione. Ci sono consiglieri, assessori e sindaci compiacenti come Giovanni Valdes, primo cittadino di Borgarello che, oltre ad avere un assessore con parentele pericolose, almeno in un caso ha truccato un’asta in favore di Chiriaco. Punto di partenza obbligato sono le amministrative 2009 a Pavia. Qui, la tornata elettorale regala un posto in consiglio a Dante Labate (non indagato), calabrese e fratello di Massimo Labate, ex consigliere comunale di Reggio Calabria indagato (e poi assolto) per concorso esterno a causa dei suoi presunti rapporti con uomini della cosca Libri. C’è poi Luigi Greco, assessore ai lavori pubblici. Anche per lui nessun avviso di garanzia. Si prosegue con il sindaco Alessandro Cattaneo (non indagato) che in campagna elettorale pensa bene di portare a modello di buona amministrazione la giunta di Reggio Calabria capeggiata dall’allora sindaco (oggi governatore) Giuseppe Scopelliti. Lo stesso Scopelliti che in quel 2009, a quanto risulta a Il Fatto, incontra a Milano Paolo Martino, boss della ‘ndrangheta legato alla cosca De Stefano. Di Scopelliti parla anche Chiriaco. “Ho detto a Dante (Labate,ndr), se tu vuoi fare l’assessore devi fare venire Peppe Scopelliti, così scatta il meccanismo dell’identità calabrese”. Sempre secondo la Dia, Chiriaco è riuscito “a piazzare” alla Provincia di Pavia Vittorio Poma, che oggi siede sulla poltrona della presidenza del consiglio e non risulta coinvolto nell’inchiesta.
Tutti questi movimenti “sono l’anticamera delle Regionali”, vale a dire “l’officina in cui le cariche concesse sulla base di pericolosi accordi sarebbero poi state utilizzate” per costruire quello che Chiriaco definisce “un centro di potere” che doveva tirare la volata a lady Abelli. Candidatura superata dal suo arresto e passata poi a Giancarlo. Ancora prima Chiriaco parla “della compravendita di voti” con la Gariboldi. “Guarda – dice – è solo un lavoro di metodo, dopodiché il mercato di voti non supera i 20 mila”.
Sanità e appalti pubblici rappresentano una naturale conseguenza di questo lavoro di lobby. Anche qui si parla di “un centro di potere a disposizione della ‘ndrangheta”. A illustrarlo il solito Chiriaco: “Qua trattiamo tutto, da noi dipendono tutti gli ospedali e i cantieri, diamo noi i soldi, abbiamo una squadra che funziona a meraviglia”. Il suo gruppo, scrive la Dia, “ha un controllo quasi completo” del Cda dell’ospedale San Matteo. “Chiriaco si è assicurato, per la sua coalizione, l’assegnazione dell’incarico di presidente del San Matteo ad Alessandro Moneta”. Ex assessore regionale, già sindaco di Milano 3 e amico di Silvio Berlusconi, Moneta ad oggi non risulta coinvolto nell’inchiesta. Chiriaco avrebbe poi influenzato anche l’Azienda servizi per la mobilità di Pavia, grazie alla nomina nel cda di Giampaolo Chirichelli (non indagato). Lo stesso che ricopre la carica di presidente del cda di Finlombarda, vale a dire la finanziaria della Regione. Ricapitolando. Mafia, politica, affari. Nomi, cariche e rapporti pericolosi. Questa è la storia. Solo una piccola parte, però. Il resto deve ancora arrivare.
di Eleonora Lavaggi e Davide Milosa
Chiriaco intercettato dalla Dia: "Qui i calabresi la spina dorsale del Pdl". Un poderoso lavoro della lobby guidata dal direttore dell'Asl di Pavia, anche per le Regionali
“Hai capito, qui i calabresi sono la spina dorsale del Popolo della libertà. Tutti io li ho inventati. Per cui con loro non ci sono problemi. Con Labate, Greco e con il sindaco”. E ancora: “Questo gruppo qua ha 1.800 voti”. Se poi ci si aggiunge il presidente del consiglio comunale “arriviamo a 2.200 e questo può essere la base su cui lavorare per la candidatura della cosa”. Gli investigatori traducono in Rosanna Gariboldi, moglie del deputato piddiellino Giancarlo Abelli.
Sono le 10 del 9 giugno 2009 quando la microspia, nascosta dentro alla Bmw registra tutto. La voce è quella di Carlo Antonio Chiriaco, direttore dell’Asl di Pavia, uomo delle tessere, amico di boss, massoni e deputati, finito in carcere il 13 luglio con altre 155 persone, accusate di associazione mafiosa. Assieme a un amico, fa i conti per le prossime elezioni. L’intercettazione è la prova decisiva di come in Lombardia siano ormai sovrapposti i piani tra mafia e politica. Il tutto è annotato in un’informativa della Dia di Milano firmata dal colonnello Stefano Polo e depositata nei duecento faldoni del maxi blitz tra Lombardia e Calabria. Circa cento pagine che raccontano l’infiltrazione dei clan nella pubblica amministrazione lombarda.
Cosche e politica, dunque. Questo il disegno. Sotto, scrive la Dia, “un vorticoso giro d’accordi solo in parte leciti”, attraverso i quali “Chiriaco è riuscito a piazzare persone a lui legate”. L’elenco è sterminato. Si va dal Comune, alla Provincia fino alla Regione. Ci sono consiglieri, assessori e sindaci compiacenti come Giovanni Valdes, primo cittadino di Borgarello che, oltre ad avere un assessore con parentele pericolose, almeno in un caso ha truccato un’asta in favore di Chiriaco. Punto di partenza obbligato sono le amministrative 2009 a Pavia. Qui, la tornata elettorale regala un posto in consiglio a Dante Labate (non indagato), calabrese e fratello di Massimo Labate, ex consigliere comunale di Reggio Calabria indagato (e poi assolto) per concorso esterno a causa dei suoi presunti rapporti con uomini della cosca Libri. C’è poi Luigi Greco, assessore ai lavori pubblici. Anche per lui nessun avviso di garanzia. Si prosegue con il sindaco Alessandro Cattaneo (non indagato) che in campagna elettorale pensa bene di portare a modello di buona amministrazione la giunta di Reggio Calabria capeggiata dall’allora sindaco (oggi governatore) Giuseppe Scopelliti. Lo stesso Scopelliti che in quel 2009, a quanto risulta a Il Fatto, incontra a Milano Paolo Martino, boss della ‘ndrangheta legato alla cosca De Stefano. Di Scopelliti parla anche Chiriaco. “Ho detto a Dante (Labate,ndr), se tu vuoi fare l’assessore devi fare venire Peppe Scopelliti, così scatta il meccanismo dell’identità calabrese”. Sempre secondo la Dia, Chiriaco è riuscito “a piazzare” alla Provincia di Pavia Vittorio Poma, che oggi siede sulla poltrona della presidenza del consiglio e non risulta coinvolto nell’inchiesta.
Tutti questi movimenti “sono l’anticamera delle Regionali”, vale a dire “l’officina in cui le cariche concesse sulla base di pericolosi accordi sarebbero poi state utilizzate” per costruire quello che Chiriaco definisce “un centro di potere” che doveva tirare la volata a lady Abelli. Candidatura superata dal suo arresto e passata poi a Giancarlo. Ancora prima Chiriaco parla “della compravendita di voti” con la Gariboldi. “Guarda – dice – è solo un lavoro di metodo, dopodiché il mercato di voti non supera i 20 mila”.
Sanità e appalti pubblici rappresentano una naturale conseguenza di questo lavoro di lobby. Anche qui si parla di “un centro di potere a disposizione della ‘ndrangheta”. A illustrarlo il solito Chiriaco: “Qua trattiamo tutto, da noi dipendono tutti gli ospedali e i cantieri, diamo noi i soldi, abbiamo una squadra che funziona a meraviglia”. Il suo gruppo, scrive la Dia, “ha un controllo quasi completo” del Cda dell’ospedale San Matteo. “Chiriaco si è assicurato, per la sua coalizione, l’assegnazione dell’incarico di presidente del San Matteo ad Alessandro Moneta”. Ex assessore regionale, già sindaco di Milano 3 e amico di Silvio Berlusconi, Moneta ad oggi non risulta coinvolto nell’inchiesta. Chiriaco avrebbe poi influenzato anche l’Azienda servizi per la mobilità di Pavia, grazie alla nomina nel cda di Giampaolo Chirichelli (non indagato). Lo stesso che ricopre la carica di presidente del cda di Finlombarda, vale a dire la finanziaria della Regione. Ricapitolando. Mafia, politica, affari. Nomi, cariche e rapporti pericolosi. Questa è la storia. Solo una piccola parte, però. Il resto deve ancora arrivare.
di Eleonora Lavaggi e Davide Milosa
"Il Migliore, Il Professore Berlusconi vuol essere il..."
Roberto Benigni si scatena a una serata benefica in Toscana: "Come mai Prodi e Ciampi non comparivano mai nelle intercettazioni?"
"Il Migliore, Il Professore Berlusconi vuol essere il..." Roberto Benigni
BOLGHERI - Un Roberto Benigni scatenato nel corso di una serata benefica a Bolgheri, in Toscana. Intervenendo a ad uno spettacolo di beneficenza a favore della Fondazione Iris (Istituto per la riabilitazione e il reinserimento sociale dei disabili psichici) presieduta dal professor Mario Guazzelli, l'attore ha detto: ""La verità è che
Berlusconi vuole restare nella storia. Vuole un appellativo per sempre: Togliatti era 'Il Migliore'; Prodi era 'il Professore'; e ora Berlusconi è 'il Trombatore".
"Vedete - ha detto rivolto al pubblico - come il premier è intristito in questi giorni? Invita tutti i suoi amici a Palazzo Grazioli per mostrare le stanze: qui era tutta Carfagna, ora non c' è niente. Silvio stasera mi aveva promesso che sarebbe venuto a vedermi, ma si è fermato sul viale della Principessa", riferendosi ad un viale popolato dalle prostitute nella zona di Bolgheri.
"Mi aspettavo di trovare qui quattro pensionati sfigati, non tanta gente così il 31 luglio a Castagneto Carducci. Quattro pensionati di quelli che giocano a tresette come Verdini, Lombardi, e dell'Utri". Così l'attore si è riferito all'inchiesta sulla P3. "Quando si mette la bomba al Csm? - ha aggiunto, simulando una conversazione tra i giocatori di carte - zitto e pensa a giocare... striscia e bussa".
"Berlusconi dice che non è normale un paese dove si intercetta costantemente il capo del governo, ma la verità è che, qualunque persona sia intercettata, nel mezzo c'è sempre il presidente del Consiglio". "Le intercettazioni - ha aggiunto - c'erano anche prima, ma Ciampi e Prodi non comparivano".
Benigni ne ha anche per la sinistra. "Conosco il professor Guazzelli da tanto tempo; noi attori abbiamo sempre qualche turba. Mi ha sempre detto che avevo tutto a posto; poi gli ho detto che voto Pd e sono in cura da 20 anni". "Berlusconi - ha proseguito- si lamenta che tutti i giudici sono di sinistra, che la stampa è di sinistra... ma se fosse di sinistra anche il Pd cosa farebbe?".
(31 luglio 2010)
"Il Migliore, Il Professore Berlusconi vuol essere il..." Roberto Benigni
BOLGHERI - Un Roberto Benigni scatenato nel corso di una serata benefica a Bolgheri, in Toscana. Intervenendo a ad uno spettacolo di beneficenza a favore della Fondazione Iris (Istituto per la riabilitazione e il reinserimento sociale dei disabili psichici) presieduta dal professor Mario Guazzelli, l'attore ha detto: ""La verità è che
Berlusconi vuole restare nella storia. Vuole un appellativo per sempre: Togliatti era 'Il Migliore'; Prodi era 'il Professore'; e ora Berlusconi è 'il Trombatore".
"Vedete - ha detto rivolto al pubblico - come il premier è intristito in questi giorni? Invita tutti i suoi amici a Palazzo Grazioli per mostrare le stanze: qui era tutta Carfagna, ora non c' è niente. Silvio stasera mi aveva promesso che sarebbe venuto a vedermi, ma si è fermato sul viale della Principessa", riferendosi ad un viale popolato dalle prostitute nella zona di Bolgheri.
"Mi aspettavo di trovare qui quattro pensionati sfigati, non tanta gente così il 31 luglio a Castagneto Carducci. Quattro pensionati di quelli che giocano a tresette come Verdini, Lombardi, e dell'Utri". Così l'attore si è riferito all'inchiesta sulla P3. "Quando si mette la bomba al Csm? - ha aggiunto, simulando una conversazione tra i giocatori di carte - zitto e pensa a giocare... striscia e bussa".
"Berlusconi dice che non è normale un paese dove si intercetta costantemente il capo del governo, ma la verità è che, qualunque persona sia intercettata, nel mezzo c'è sempre il presidente del Consiglio". "Le intercettazioni - ha aggiunto - c'erano anche prima, ma Ciampi e Prodi non comparivano".
Benigni ne ha anche per la sinistra. "Conosco il professor Guazzelli da tanto tempo; noi attori abbiamo sempre qualche turba. Mi ha sempre detto che avevo tutto a posto; poi gli ho detto che voto Pd e sono in cura da 20 anni". "Berlusconi - ha proseguito- si lamenta che tutti i giudici sono di sinistra, che la stampa è di sinistra... ma se fosse di sinistra anche il Pd cosa farebbe?".
(31 luglio 2010)
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