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domenica 28 marzo 2010

Ingrao: "Regionali? Stop all'egemonia di Berlusconi"

di Bruno Gravagnuolo

«La prova delle regionali è importantissima. E il Lazio e la capitale sono decisivi per assestare a Berlusconi un colpo di portata nazionale. E poi, oltre a Roma, questi sono i luoghi dove sono cresciuto, spesso in mano a reazionari come a Fondi. Perciò tutti al voto e facciamo vincere la Bonino, che stimo molto. Come del resto Vendola, al cui partito penso di dare il mio voto di lista». Novantacinque anni martedì prossimo e appello al voto. Così ci si presenta Pietro Ingrao, materializzandosi nel suo soggiorno di Via Balzani in Roma, dopo una mezzoretta di ritardo «accademico» e mentre osserviamo un ritratto di Vespignani e una marionetta di Charlot appesa al muro.

Intervista per uno straordinario compleanno: le 95 primavere di un leader che ha incarnato una delle anime chiave del Pci (l’ingraismo) e che ha inventato l’Unità del dopoguerra, come grande giornale di informazione. Figura del dissenso, e della fedeltà a un ideale: il comunismo. Al quale non smette di credere. Come quando gli chiediamo ad esempio: ma tu Pietro la vuoi l’alleanza con Casini? E lui risponde tranquillo: «Per battere Hitler mi sono alleato anche con i monarchici. Tenendo ben chiara la guida e l’asse fondamentale. Dal punto di vista nazionale e della lotta di classe...». Perciò comunista non pentito e togliattiano, a suo modo ovviamente... Sentiamo il «giovane» Ingrao.

Caro Pietro: vittoria della sinistra in Francia e riforma sanitaria di Obama. Due regali che possono allietare i tuoi primi 95 anni, malgrado le tante delusioni?
«Certo, qualcosa si muove nel mondo. Ma in Italia siamo in forte ritardo, rispetto alle novità e alle speranze che ci vengono da un globo ormai da un secolo e più in tempesta. In particolare il ritardo italiano concerne l’assenza di un soggetto collettivo in grado di guidare grandi masse disorientate e in cerca di riscatto. Berlusconi è ancora lì in cima. Anche se l’Italia non se lo meritava proprio uno così».

Molti parlano di un declino di Berlusconi e del suo blocco sociale. Tu che ne pensi?
«Vedo gli inciampi in cui si è cacciato questo reazionario. E però tarda a crescere un soggetto collettivo antagonista. Lui ce la mette tutta a farsi danno, ma non c’è l’avversario a contrastarlo. Troppo debole, malgrado le tante forze generose in campo. E la mancata ripresa sta nella divisione politica e nell’insufficiente radicamento politico nei luoghi nevralgici: i luoghi del lavoro. I miei maestri mi hanno indicato che lì andava cercata la risposta, per cambiare l’Italia che aveva tanto patito sotto la borghesia capitalistica e terriera. E da quel contatto sono venute le fortune della sinistra italiana del dopoguerra: dalle lotte degli anni ’60, all’irruzione dei metalmeccanici nel ’69, alle conquiste civili e sociali degli anni ’70».

Tutto ciò è rifluito per la sparizione dei soggetti sociali del lavoro, o per l’incapacità di continuare a vederli quei soggetti?
«Prima di tutto c’è stata la controffensiva reazionaria, scattata negli anni ’70 e ’80: Agnelli in Italia, e Reagan e la Tatcher sul piano mondiale. Dopo la vittoria sui fascismi, le lotte del secondo dopoguerra e le conquiste degli anni 70, quella controffensiva ha vinto, sul piano internazionale. Da noi, con gli aspetti meschini del craxismo. Chi dice poi che il lavoro è scomparso dice balle. Quel che è cambiata è la geografia delle forze di classe, a partire dagli scenari globali. È mutata in Asia e in Oriente. Pensa alla Cina, o all’India... di lì vengono cambiamenti grandiosi negli equilibri economici del mondo. Quanto all’Italia, ripeto, pesano le sconfitte degli ultimi decenni. Che hanno portato al prevalere del blocco berlusconiano, sulle divisioni sociali e politiche del soggetto antagonista. Gli operai e i lavoratori subalterni ci sono eccome! Sono invisibili e divisi sul terreno della rappresentanza. Vanno reindividuati con un’analisi nuova. E riunificati politicamente».

Il Pd di Bersani, libero dai teodem, più orientato verso il lavoro e le alleanze, al centro e a sinistra, ti lascia sperare in meglio?
«Senza dubbio Bersani è meglio di Veltroni. Tuttavia anche il Pd di oggi resta un partito di centro e non di sinistra. Ci vuole molto di più per rispondere alle questioni sul tappeto. Prima di tutto occorre la costruzione tenace e collettiva di un dialogo tra le forze antagoniste a Berlusconi. Uno schieramento di resistenza. Unito e collegato dall’uno all’altro versante, e ben guidato».

Immagini anche tu una sorta di Cln anti-Berlusconi, tra sinistra e forze centriste e moderate?
«Può sembrare un po’ inattuale. Ma quel che suggerisci nella tua domanda mi pare molto giusto: costruiamolo questo schieramento! Non vedo però la volontà sufficiente, per sedersi attorno a un tavolo a ragionare sulle cose da fare e quelle da non fare. Si tratta di adottare una piattaforma concordata per mettere in movimento una dinamica sociale di massa. E questo non c’è ancora. Ricordo la nostra ossessione unitaria nel ’900, e come quella ossessione si traducesse nel costruire assieme azioni e decisioni. È questo che si è indebolito. Se guardo a sinistra poi, vedo solo frammenti irrilevanti e cose esili... ».

Al tavolo che sogni, la sinistra radicale non potrebbe sedersi. Non c’è più, a parte Vendola. Come mai?
«Non possiamo rifare di nuovo tutta la storia di una sconfitta. Però non è che il mondo della sinistra radicale non esista proprio più. Vendola ha storia e futuro dalla sua parte. È un attore nuovo in campo. Benché senza alleati e consistenza attorno. Non credo che neanche Bersani e Vendola messi insieme ce la possano fare a dare la risposta che occorre a Berlusconi».

Temi contraccolpi pericolosi per la democrazia, tra crisi di Berlusconi e mancata replica antagonista?
«Berlusconi ne sta già combinando tante e non c’è bisogno di paventare altro. Muoviamoci per allestire uno schieramento unitario. E in fretta!».

E ora parliamo tanto di te, in questo compleanno. Nell’altro secolo volevi la luna. La vuoi ancora o ti sei calmato?
«Mi piace ancora molto la luna. E non smetto di guardarla, sognandola per i miei nipoti e pensando a tutta la strada percorsa fin qui, alle battaglie politiche per la liberazione umana. La voglio ancora quella luna, anche nelle sue facce diverse. Quando sono al mio paese, nelle sere d’estate mi affaccio al balcone e vedo uno spettacolo straordinario. Da una cima di montagna spunta quel volto rotondo, col suo alone. Quando lo guardo mi tornano in mente altri tempi e altre parole. Oppure cose indimenticabili, come i versi di Giacomo Leopardi alla luna. Allora la speranza e la fantasia si riaprono. E ricomincia l’esplorazione dell’inedito, il bisogno di ricominciare. A volte chiamo i miei bis-nipoti e da lontano indico loro la luna con la mano. È il mio contributo “educativo”. Poi toccherà a loro volere la luna».

28 marzo 2010

venerdì 26 marzo 2010

Le oligarchie dei "giri" che infettano la democrazia

Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica, 26-03-2010

Tra tutti i regimi politici, la democrazia è quello che più si presta a generare e mimetizzare oligarchie. Oggi, questa tematica è trattata parlando di caste. Nessuno, credo, pensa alle caste indiane o ai mandarini cinesi. Ogni sistema castale comporta stratificazioni sociali per piani orizzontali paralleli, sovra- e sotto-ordinati, più o meno impermeabili. A ciascuno di questi piani corrispondono stili di vita, gusti, culture, letteratura, musica, teatro, talora lingue, abitudini alimentari, leggi particolari. Oggi, nulla di tutto ciò. Le oligarchie odierne, in società di individui sciolti da appartenenze e liberi di fare di sé quel che vogliono e di legarsi a chi vogliono, si costruiscono, si modificano e si distruggono su moti circolari ascendenti e discendenti dove tutti si confondono. Per comprendere la differenza, occorre partire da un po´ più lontano, dal conflitto tra chi appartiene e chi non appartiene a un qualche «giro» o cerchia di potere. Intendo con questa espressione – il giro – esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi, i quali occupano posti inconcepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? I giri sono la nostra costituzione materiale. Ci si scambia protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di "materia". Occorre disporre di risorse da distribuire come favori; per esempio: danaro e impieghi, carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall´altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all´organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, corruzione e criminalità, fino alle prestazioni personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L´asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta.
Qual è la forza che lo muove? Poiché la protezione e i favori stanno su e la fedeltà e i servizi giù, dietro le apparenze di allegre comunelle e della combutta innocente, si annidano sopraffazione e violenza. Distribuendo favori, può sembrare un sistema benefico, una forma di democrazia come potere per il popolo. Ma non è così. Ognuno vede nell´altro solo risorse da sfruttare. Ogni giro è un crogiolo di rivalità e ferocia e di gradini, da pestare per salire più in alto. Sul più alto e su quello più basso troviamo solo arroganza e solo servilismo. Sugli intermedi si è arroganti con i sottoposti e servili con i sovrapposti e mano a mano che si sale o si scende cambia il rapporto tra arroganza e servilismo. Padroni e servi, a tutti i livelli del giro, sono legati da patti, ma patti tra complici. La fedeltà ai patti è garantita da favori e minacce, blandizie e intimidazioni e ricatti. Quando nello scambio entrano anche organizzazioni criminali, non è esclusa la violenza. Non pochi delitti politici nel nostro violento Paese si spiegano così.
Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell´illegalità. Essi, i giri, tanto più si diffondono quanto maggiore è il malessere sociale e quanto meno le leggi valgono ugualmente per tutti. Tanta più insicurezza e ingiustizia, tanto più richiesta di «patronato»; tanto più patronato, tante più violazioni della legge uguale per tutti. La democrazia, mancando uguaglianza e legalità, diventa una dissimulazione di sistemi di potere gerarchici, basati sullo scambio ineguale di favori tra potenti e impotenti, e sulla generalizzata illegalità a favore di chi appartiene a oligarchie. Una violazione che può essere la semplice, e apparentemente innocente, raccomandazione o diventare associazione a delinquere secondo il codice penale.
Questa struttura mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva. Se solo per un momento potessimo sollevare il velo ed avere una veduta d´insieme, resteremmo probabilmente sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell´economia e della finanza, dell´università, della cultura, dello spettacolo, dell´innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.
Realisticamente, si deve tuttavia constatare che non tutto è così, se non sempre per virtù almeno per necessità. Innanzitutto, non tutti nelle numerose categorie di soggetti ora indicati, si prestano alla logica dei giri. Ma, soprattutto il sistema del patronato e dello scambio di fedeltà non può essere universale. Ci sarà sempre chi non può o non riesce a entrarci. Innanzitutto, per ragioni pratiche. Le risorse di cui esso deve disporre (posti, finanziamenti, favori) non sono illimitate. Per quanto si tenda a estenderle e ramificarle (ad es. con la moltiplicazione dei posti in enti inutili), vi sono limiti di sostenibilità, dettati dalla limitatezza delle risorse, dall´impoverimento della società e dalla rapacità di chi sta (più in alto) nella gerarchia. Ma c´è anche una ragione di principio. Le oligarchie dei giri non potrebbero esistere se tutti godessero dei loro privilegi. La generalizzazione dei privilegi è concettualmente la contraddizione delle oligarchie. Esse, per esistere, hanno bisogno che vi sia chi ne sta fuori. Le oligarchie portano dunque nel loro seno la contraddizione.
È questo il momento in cui lo scontro assumerà l´aspetto di un conflitto tra interessi (di parte) e valori (universali), o tra «interessi» e «ragioni». Chi non partecipa, in una misura anche minima, al sistema dei privilegi, che cosa può fare se non contrapporre idee generali (valori e ragioni, per l´appunto) agli interessi dai quali è escluso? Per chi è inserito in un sistema di scambi, il suo utile potenziale è proprio solo il suo, e tutto il resto può andare a ramengo; per chi non vi è inserito, invece, quello che, per i primi, è quel "resto" è invece l´essenziale.
La divisione è perfino antropologica. L´homo hierachicus è stato studiato con riguardo alle società castali. Potrebbe essere studiato con riguardo alle oligarchie «di giro». Ne risulterebbero tratti antropologici tipici. Coloro che hanno passato la propria esistenza, o si accingono a passarla, non come uomini liberi ma come scalatori di luoghi dove vige servilismo e opportunismo verso i potenti e arroganza travestita da paternalismo verso i deboli, non possono non portarne i segni sul loro modo d´essere, di mostrarsi e di fare. Il loro è un habitus caratteristico, che li distingue e che difficilmente possono dismettere o nascondere.
Norberto Bobbio ha parlato una volta di «promesse non mantenute» della democrazia e, tra queste, ha messo la scomparsa delle oligarchie. Poteva, questa promessa, essere mantenuta e non lo è stata, oppure non poteva proprio essere mantenuta ed era quindi una falsa promessa?
Non è detto che ci si debba accodare a quelli che chiamerei gli «snobisti» della democrazia, una categoria in crescita di persone, un tempo di destra, oggi anche di sinistra, anzi prevalentemente di sinistra (una novità) molto intelligenti, i quali hanno vita facile nel mostrarne limiti, contraddizioni e ipocrisie e nel considerare «anime belle» coloro che fanno professione di fede democratica. È vero: la democrazia come autogoverno del popolo è tanto più irrealizzabile quanto più è idealizzata. Ma non è la stessa cosa se, per combattere le oligarchie, occorre creare «momenti eroici», con le violenze e le distruzioni che li accompagnano, o se basta fare appello, contro l´illegalità di cui esse si nutrono e la segretezza con cui si proteggono, alla forza della legge applicata in modo uguale per tutti e alla libera circolazione delle informazioni: in una parola, alle precondizioni che permettono oneste misurazioni del consenso e del dissenso. La democrazia è dunque forse solo questo: la possibilità di creare «momenti non eroici» di distruzione delle oligarchie.
Vediamo così che occorre tenersi stretti ai capisaldi del liberalismo: la sovranità della legge e la libertà dell´opinione; le magistrature e l´informazione. Non ci voleva molto, per arrivare qui, a questa conclusione. Non ci voleva molto, ma questo non vuol dire che sia superfluo ribadirla, ora che sembra a qualcuno, non senza trovare seguito, che questi capisaldi, piuttosto che rinforzare, ostacolino e indeboliscano la democrazia.


Il testo è parte della «Lettura Cesare Alfieri» dal titolo
"La democrazia difficile",
Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica, 26-03-2010

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Tra tutti i regimi politici, la democrazia è quello che più si presta a generare e mimetizzare oligarchie. Oggi, questa tematica è trattata parlando di caste. Nessuno, credo, pensa alle caste indiane o ai mandarini cinesi. Ogni sistema castale comporta stratificazioni sociali per piani orizzontali paralleli, sovra- e sotto-ordinati, più o meno impermeabili. A ciascuno di questi piani corrispondono stili di vita, gusti, culture, letteratura, musica, teatro, talora lingue, abitudini alimentari, leggi particolari. Oggi, nulla di tutto ciò. Le oligarchie odierne, in società di individui sciolti da appartenenze e liberi di fare di sé quel che vogliono e di legarsi a chi vogliono, si costruiscono, si modificano e si distruggono su moti circolari ascendenti e discendenti dove tutti si confondono. Per comprendere la differenza, occorre partire da un po´ più lontano, dal conflitto tra chi appartiene e chi non appartiene a un qualche «giro» o cerchia di potere. Intendo con questa espressione – il giro – esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi, i quali occupano posti inconcepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? I giri sono la nostra costituzione materiale. Ci si scambia protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di "materia". Occorre disporre di risorse da distribuire come favori; per esempio: danaro e impieghi, carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall´altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all´organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, corruzione e criminalità, fino alle prestazioni personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L´asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta.
Qual è la forza che lo muove? Poiché la protezione e i favori stanno su e la fedeltà e i servizi giù, dietro le apparenze di allegre comunelle e della combutta innocente, si annidano sopraffazione e violenza. Distribuendo favori, può sembrare un sistema benefico, una forma di democrazia come potere per il popolo. Ma non è così. Ognuno vede nell´altro solo risorse da sfruttare. Ogni giro è un crogiolo di rivalità e ferocia e di gradini, da pestare per salire più in alto. Sul più alto e su quello più basso troviamo solo arroganza e solo servilismo. Sugli intermedi si è arroganti con i sottoposti e servili con i sovrapposti e mano a mano che si sale o si scende cambia il rapporto tra arroganza e servilismo. Padroni e servi, a tutti i livelli del giro, sono legati da patti, ma patti tra complici. La fedeltà ai patti è garantita da favori e minacce, blandizie e intimidazioni e ricatti. Quando nello scambio entrano anche organizzazioni criminali, non è esclusa la violenza. Non pochi delitti politici nel nostro violento Paese si spiegano così.
Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell´illegalità. Essi, i giri, tanto più si diffondono quanto maggiore è il malessere sociale e quanto meno le leggi valgono ugualmente per tutti. Tanta più insicurezza e ingiustizia, tanto più richiesta di «patronato»; tanto più patronato, tante più violazioni della legge uguale per tutti. La democrazia, mancando uguaglianza e legalità, diventa una dissimulazione di sistemi di potere gerarchici, basati sullo scambio ineguale di favori tra potenti e impotenti, e sulla generalizzata illegalità a favore di chi appartiene a oligarchie. Una violazione che può essere la semplice, e apparentemente innocente, raccomandazione o diventare associazione a delinquere secondo il codice penale.
Questa struttura mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva. Se solo per un momento potessimo sollevare il velo ed avere una veduta d´insieme, resteremmo probabilmente sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell´economia e della finanza, dell´università, della cultura, dello spettacolo, dell´innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.
Realisticamente, si deve tuttavia constatare che non tutto è così, se non sempre per virtù almeno per necessità. Innanzitutto, non tutti nelle numerose categorie di soggetti ora indicati, si prestano alla logica dei giri. Ma, soprattutto il sistema del patronato e dello scambio di fedeltà non può essere universale. Ci sarà sempre chi non può o non riesce a entrarci. Innanzitutto, per ragioni pratiche. Le risorse di cui esso deve disporre (posti, finanziamenti, favori) non sono illimitate. Per quanto si tenda a estenderle e ramificarle (ad es. con la moltiplicazione dei posti in enti inutili), vi sono limiti di sostenibilità, dettati dalla limitatezza delle risorse, dall´impoverimento della società e dalla rapacità di chi sta (più in alto) nella gerarchia. Ma c´è anche una ragione di principio. Le oligarchie dei giri non potrebbero esistere se tutti godessero dei loro privilegi. La generalizzazione dei privilegi è concettualmente la contraddizione delle oligarchie. Esse, per esistere, hanno bisogno che vi sia chi ne sta fuori. Le oligarchie portano dunque nel loro seno la contraddizione.
È questo il momento in cui lo scontro assumerà l´aspetto di un conflitto tra interessi (di parte) e valori (universali), o tra «interessi» e «ragioni». Chi non partecipa, in una misura anche minima, al sistema dei privilegi, che cosa può fare se non contrapporre idee generali (valori e ragioni, per l´appunto) agli interessi dai quali è escluso? Per chi è inserito in un sistema di scambi, il suo utile potenziale è proprio solo il suo, e tutto il resto può andare a ramengo; per chi non vi è inserito, invece, quello che, per i primi, è quel "resto" è invece l´essenziale.
La divisione è perfino antropologica. L´homo hierachicus è stato studiato con riguardo alle società castali. Potrebbe essere studiato con riguardo alle oligarchie «di giro». Ne risulterebbero tratti antropologici tipici. Coloro che hanno passato la propria esistenza, o si accingono a passarla, non come uomini liberi ma come scalatori di luoghi dove vige servilismo e opportunismo verso i potenti e arroganza travestita da paternalismo verso i deboli, non possono non portarne i segni sul loro modo d´essere, di mostrarsi e di fare. Il loro è un habitus caratteristico, che li distingue e che difficilmente possono dismettere o nascondere.
Norberto Bobbio ha parlato una volta di «promesse non mantenute» della democrazia e, tra queste, ha messo la scomparsa delle oligarchie. Poteva, questa promessa, essere mantenuta e non lo è stata, oppure non poteva proprio essere mantenuta ed era quindi una falsa promessa?
Non è detto che ci si debba accodare a quelli che chiamerei gli «snobisti» della democrazia, una categoria in crescita di persone, un tempo di destra, oggi anche di sinistra, anzi prevalentemente di sinistra (una novità) molto intelligenti, i quali hanno vita facile nel mostrarne limiti, contraddizioni e ipocrisie e nel considerare «anime belle» coloro che fanno professione di fede democratica. È vero: la democrazia come autogoverno del popolo è tanto più irrealizzabile quanto più è idealizzata. Ma non è la stessa cosa se, per combattere le oligarchie, occorre creare «momenti eroici», con le violenze e le distruzioni che li accompagnano, o se basta fare appello, contro l´illegalità di cui esse si nutrono e la segretezza con cui si proteggono, alla forza della legge applicata in modo uguale per tutti e alla libera circolazione delle informazioni: in una parola, alle precondizioni che permettono oneste misurazioni del consenso e del dissenso. La democrazia è dunque forse solo questo: la possibilità di creare «momenti non eroici» di distruzione delle oligarchie.
Vediamo così che occorre tenersi stretti ai capisaldi del liberalismo: la sovranità della legge e la libertà dell´opinione; le magistrature e l´informazione. Non ci voleva molto, per arrivare qui, a questa conclusione. Non ci voleva molto, ma questo non vuol dire che sia superfluo ribadirla, ora che sembra a qualcuno, non senza trovare seguito, che questi capisaldi, piuttosto che rinforzare, ostacolino e indeboliscano la democrazia.


Il testo è parte della «Lettura Cesare Alfieri» dal titolo
"La democrazia difficile",

martedì 23 marzo 2010

La passione che muove tutto Ora mettiamoci in gioco

Valentina Ferrara, 22-03-2010

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Venerdì sera avevamo Claudia Fusani de l'Unità qui a Firenze,a parlarci delle recenti inchieste della magistratura, da quella sulla protezione civile a quella di Trani, Firenze e la Rai e altro. Con grazie e spirito Claudia ha lasciato che fossero le coscienze di ognuno di noi a giudicare, da giornalista vera, ha indicato i fatti e le connessioni, a volte ha accennato qualche giudizio, suo personale, staccandolo dai fatti. Così come la libera informazione è e dovrebbe essere. Mettere i fatti nel giusto ordine e lasciare l'interpretazione e le conclusioni alla coscienza di ognuno, sempre con il senso di responsabilità al primo posto. Alla fine dell'esposizione la sensazione era disperante, i fatti parlano, con grande chiarezza. Si sta frantumando l'ossatura che tiene insieme il Paese. Che fare? Ciò che mi sono domandata al rientro a casa, stanca, frustrata da un senso di impotenza mai provato, neanche di fronte alle difficili scelte della vita personale. Si vede sempre prima o poi una via d'uscita, siamo fatti in modo da poter costrure un'alternativa, nella vita, ma qui, come fare? La passione politica non ha luoghi dove essere incanalata, ho sempre la sensazione di inadeguatezza, quel senso di urgenza di fronte allo scompaginamento delle regole democratiche, quel senso di voler fare qualcosa, lo spirito di sopravvivenza, viene schiacciato dall'inutile argomentazione dell'opposizione. E allora, che fare?
Ho deciso, nei miei limiti che sono enormi: mi manca una cultura politica e istituzionale, sono fuori da ogni giro di intellettuali e di consuetudini. Sono fragile nei miei argomenti. Ho paura di parlare in pubblico. Ho solo una grande passione. Basterà? Non ho dormito, le domande alla mia età sono domande serie. Non c'è tempo per sperare, bisogna agire. E allora ho deciso, sbagliare tacendo, sbagliare parlando, è questa la scelta. Sbaglierò parlando. Metto a disposizione la mia voglia di combattere, ci sono persone più brave di me ad argomentare, saranno loro a dare al mio impulso una concreta strategia. Io sono solo una " pasionaria", diciamo, una persona animata da passione. E in fondo, conoscere i propri limiti è già un passo avanti, so di non avere paura. Per un motivo molto semplice: quando mi trovo in questi dilemmi penso a mio padre, cosa avrebbe detto? Lui sarebbe sceso, parlandomi passeggiando per Firenze, nelle profondità della Storia, avrebbe dato la dimensione esatta di quello che accade. La gravità dello strappo avvenuto. Mi avrebbe detto, Nina, tu puoi farcela, non sei meno di loro, sei di più, perché sai quello che sei. Mia figlia. Certo, lui aveva quella Cultura intessuta di trame provenienti da un mondo che in Italia è stato seppellito. Il mondo della Riflessione silenziosa, dello Studio solitario, del Dibattito vero e condiviso seppur nelle differenze politiche e culturali. Ma quel modo era interamente dedito alla difesa della Democrazie. Della Costituzione. Della vita della Repubblica. Della Libertà. Ora io non sono all'altezza di quegli uomini e quelle donne, ma ho la passione politica, quella cosa che appena si affaccia all'orizzonte l'ombra della oppressione si risveglia ed è pronta a combattere. Troverò Maestri che mi insegnino, troverò parole migliori, ma la Resistenza mi avrebbe avuta dalla sua, come staffetta, sotto i tiri dei cecchini. W l'Italia!

sabato 20 marzo 2010

Per un voto onesto servirebbe l'Onu

di ROBERTO SAVIANO

Per un voto onesto servirebbe l'Onu
"LA DISPERAZIONE più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo". È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un'affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un'esagerazione, sappia che l'Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?

Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c'è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L'ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l'orgoglio. Ma come è potuto accadere?
Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità.

Il senso del "è tutto inutile" toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna.
Io non voglio arrendermi a un'Italia così, a un'Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all'Osce, all'Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare.


Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov'è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. Ci indigniamo per politici come l'imputata Sandra Lonardo Mastella che dall'esilio si ricicla per sostenere, questa volta, non più il Pd ma il candidato a governatore in Campania del Pdl, Stefano Caldoro. Per Fiorella Bilancio, che aveva tappezzato Napoli di manifesti del Pdl ma all'ultimo momento è stata cancellata dalla lista del partito e ha accettato la candidatura nell'Udc. Così sui manifesti c'è il simbolo di un partito ma lei si candida per un altro.

Ci indigniamo per la vicenda dell'ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, Roberto Conte, candidatosi nuovamente nonostante una condanna in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e per giunta questa volta nel Pdl. Ci indigniamo perché il sottosegretario all'economia Nicola Cosentino, su cui pende un mandato d'arresto, mantiene la propria posizione senza pensare di lasciare il suo incarico di sottosegretario e di coordinatore regionale del Pdl.

Ci indigniamo perché è possibile che un senatore possa essere eletto nella circoscrizione Estero con i voti della 'ndrangheta, com'è accaduto a Nicola Di Girolamo, coinvolto anche, secondo l'accusa, nella mega-truffa di Fastweb. Ci indigniamo, infine, perché alla criminalità organizzata è consentito gestire locali di lusso nel cuore della nostra capitale, come il Café de Paris a via Vittorio Veneto.
Ascoltiamo allibiti la commissione parlamentare antimafia che dichiara, riguardo queste ultime elezioni, che ci sono alcuni politici da attenzionare nelle liste del centrosinistra.

E ad oggi il centrosinistra non ha dato risposte. Si tratta di Ottavio Bruni candidato nel Pd a Vibo Valentia. Sua figlia fu trovata in casa con un latitante di 'ndrangheta. Si tratta di Nicola Adamo candidato Pd nel Cosentino, rinviato a giudizio nell'inchiesta Why not. Di Diego Tommasi candidato Pd anche lui nel Cosentino e coinvolto nell'inchiesta sulle pale eoliche. Luciano Racco candidato Pd nel Reggino, che non è indagato, ma il cui nome spunta fuori nell'ambito delle intercettazioni sui boss Costa di Siderno. Il boss Tommaso Costa ha fornito, per gli inquirenti, il proprio sostegno elettorale a Luciano Racco in occasione delle Europee del 2004 che vedevano Racco candidato nella lista "Socialisti Uniti" della circoscrizione meridionale. Tutte le intercettazioni sono depositate nel processo "Lettera Morta" contro il clan Costa ed in quelle per l'uccisione del giovane commerciante di Siderno Gianluca Congiusta.

A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il - o vengono prima del - diritto, valutazioni in merito all'opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all'opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l'antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un'abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. È un tradimento che quasi si perdona con un'alzata di spalle come quello d'un marito troppo spensierato che scivola nelle lenzuola di un'altra donna.

Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro?
Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro.

Dov'è finito l'orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov'è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.

Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze - certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l'obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l'avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.

Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso - meno crudele, certo, ma meno forte e solido - solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un'alternativa vera e vincente.
Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un'alternativa.
Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno.

Del resto, quello che più d'ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate.
L'Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. Sapendo che il Messico oramai è divenuto una narcodemocrazia la nostra rischia di essere, se non lo è già diventata una democrazia a capitale camorrista e ndranghetista.

Qui, invece, ancora si crede che la crisi sia esclusivamente un problema legato al lavoro, a un rallentamento della domanda e dell'offerta. Qui ancora non si è compreso davvero che uscire dalla crisi significa cercare alternative all'economia criminale. E non basta la militarizzazione del territorio. Non bastano le confische dei beni. Bisogna arginare la corruzione, le collusioni, gli accordi sottobanco. Bisogna porre un freno alla ricattabilità della politica, e come per un cancro cercare ovunque le sue proliferazioni.

Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all'Onu, all'Unione Europea, all'Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale : la pulizia e la regolarità delle elezioni.
Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.

venerdì 19 marzo 2010

La parabola del muratore e il destino del Pd siciliano

Repubblica — 17 marzo 2010 PALERMO
IN UNA noterella di Leonardo Sciascia si annida, sotto forma di metafora, l' eterno problema della sinistra italiana. E se non eterno: ancora attuale. A raccontare è un vicino di casa dello scrittore, in tempi di Compromesso Storico. «Una volta, qui in paese, c' era una famiglia di buoni mastri-muratori. Io avevo bisogno di murare e sono andato da loro. Mi dissero: noi non possiamo, abbiamo molto da fare. Ti mandiamo Merulla - un muratore che conoscevo. E io dissi: e c' è bisogno che me lo mandiate voi, Merulla?». a una pausa e poi spiega la parabola: "Io ho votato sempre Partito Comunista. Ma alle ultime elezioni mi sono detto: e che bisogno ho di farmi portare dal Partito Comunista alla Democrazia Cristiana? Ci vado io"». La storiella mantiene intatta la sua forza esemplare, e anzi torna d' attualità adesso che, col nuovo e onnicomprensivo Partito del Sud, ci si avvia verso un avvenire in cui solo pochi spericolati oseranno sedersi dalla parte del torto. E difatti già il Pd ha iniziato l' iter che lo condurrà a salire sul carro del vincitore. Un iter lungo, visto che mai nulla nel centrosinistra si fa senza prima discutere fino allo sfinimento. Ma la strada è segnata, e presto avremo un governo, se non addirittura un partito, che abbraccia tutto e il contrario di tutto. Da Dell' Utri a Cracolici. Il rischio, a sollevare obiezioni, è di passare per "nemici della contentezza"; ciò che rappresenta in ambito siciliano una macchia d' infamia quasi senza pari, seconda solo a quella temibile di porta-sfiga, già recentemente evocata da un esponente del governo regionale in riferimento ad alcuni dei maggiori scrittori siciliani del Novecento. In effetti non è facile spiegare come e perché sarebbe meglio diffidare di un progetto tanto ecumenico quanto genericamente buonista. Esiste una coazione a perdere, nella sinistra italiana, che è certamente perniciosa. Quella, per intenderci, che ha portato alla liquidazione dei due governi presieduti da Romano Prodi. Quella che spesso in passato ha portato la sinistra più radicale oltre le soglie dell' autolesionismo. E tuttavia esiste anche una coazione opposta, che spinge a voler vincere a tutti i costi. Da qui le alleanze più innaturali, le contorsioni ideologiche, le somme algebriche di sigle disparate, nella convinzione che corrispondano anche a un' addizione di elettori- cosa tutta da dimostrare. Si capisce che la nuova versione del Compromesso Storico in salsa siciliana rappresenti una tentazione molto forte per l' eterLA PARABOLA DEL MURATORE E IL DESTINO DEL PD SICILIANO na precarietà del Pd. Garantirebbe strapuntini governativi e prebende di vario ordine. La prospettiva è allettante, ma il desiderio di vincere facile può condurre all' accecamento. Nella fattispecie, l' attrattiva del Partito del Sud funziona come funzionano le nasse dei pescatori: una volta dentro c' è tempo di mangiare tutta l' esca. E si capisce: perché tanto è impossibile uscire. L' abbraccio plenario indiscriminato può risultare fatale al già flebile zoccolo elettorale del Pd, quello che coincide col voto d' opinione, per minoritario che sia. Si tratterebbe in sostanza di spiegare per quale motivo quelle stesse persone che fino a ieri venivano dipinte come la Grande Iattura della nostra regione, da un giorno all' altro dovrebbero diventare altrettanti compagni di strada, di quelli che siamo tenuti a trovare simpatici. Sono le nostre idee che improvvisamente coincidono con le loro, o le loro con le nostre? Un' alleanza del genere giustificherebbe la più qualunquistica delle istigazioni all' astensionismo: Tanto,i politici sono tutti uguali. Battuta stucchevole fino a ieri, che domani potrebbe diventare inconfutabile. In particolare, non andrebbe sottovalutato il voto dei tanti che si trovano nelle condizioni del vicino di Leonardo Sciascia, capacissimo di farsi due conti e decidere che non ha affatto bisogno di farsi portare dal Pd all' MpA, o al Partito del Sud. Se vuole, può andarci benissimo da solo. C' è di buono solo un aspetto: al di là di ogni altra considerazione, questo smottamento ideologico sembra poter dare finalmente una risposta alla grande questione che ha stremato ogni elettore di sinistra negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta. Quarant' anni di rovello: moriremo democristiani? Oggi possiamo dirlo, forse. La risposta esatta era: magari. - ROBERTO ALAJMO

mercoledì 17 marzo 2010

La riforma della Costituzione

Oggi rovistando tra le mie carte è saltato fuori il testo di un mio intervento ad un convegno organizzato a Palermo dall’Associazione Libertà e Giustizia nel lontano 19.04.2004.
Rileggendolo vi ho trovato analogie con le riforme sostanziali della Costituzione messe in atto da questa maggioranza, che pur essendo state bocciate a larga maggioranza con un referendum, oggi di fatto si stanno attuando nel più totale disinteresse da parte di molti Italiani Mi sembra utile rileggere lo scempio che ha origine proprio dalle riforme approvate dal precedente governo di B. e dalla sua maggioranza e per capire che quel progetto non è mai è stato accontonato. Ecco il testo:
“La riforma della Costituzione Italiana e la devolution voluta da bossi approvata il 16 novembre dal senato in via definitiva è una delle riforme più pericolose volute dal centro destra. Cambia, in un colpo solo, ben 57 articoli della nostra carta, snatura il ruolo delle Camere, avvilisce la figura del capo dello stato, mette in pericolo la separazione dei poteri e principi di uguaglianza e soprattutto scardina l’unità dell’Italia, scrivendo una delle pagine più nere dell’Italia Repubblicana dal dopoguerra ad oggi. Sono state cancellate le regole che per cinquant'anni hanno garantito la convivenza democratica e la certezza dei diritti e delle libertà nel nostro paese scaturito dalla Resistenza, senza chiudere la transazione e senza completare la costituzione di uno stato federale e senza dare all'Italia le regole di una moderna democrazie dell'alternanza. Apre anzi una grande questione democratica, minaccia l'unità del paese, mescola contraddittoriamente derive secessioniste e rigurgiti centralismi.
. La riforma approvata ad esclusiva maggioranza parlamentare e dal governo della destra non è solo un'altra, pur discutibile, forma di democrazia rappresentativa, ma mira a una forma di governo e di Stato che mina alla base i principi fondamentali di ogni democrazia: quello della separazione dei poteri e quello di uguaglianza di tutti i cittadini.
- La causa dell'Interesse Nazionale, così come è stata configurata rende il federalismo una farsa.
L'attribuzione alle Regioni della potestà legislativa nel campo dell'assistenza sanitaria e dell'organizzazione scolastica pone le basi per violazioni del principio di eguaglianza dei cittadini, a cui non è più garantita la parità di trattamento.
- Le uniche modifiche al Titolo V° della Costituzione sono quelle devastanti volute dalla lega che mettono a rischio l'unità Nazionale
-Disegna lo smantellamento dello Stato unitario e la creazione di una semplice confederazione di stati che abbiano esclusiva competenza in materia di scuola, sanità, sicurezza locale e che prepara il campo ad una futura secessione.
Bisogna comunque avere chiaro che a pagare il prezzo più alto di una riforma così devastante saranno le Regioni più povere e quindi anche la Sicilia ed i figli della parte più debole dell'Italia. Basti pensare alla sanità, alla scuola ed alla polizia regionalizzate
per rendersi conto dello sfascio economico e sociale che si prefigura anche per la Sicilia , che dovrà trovare risorse aggiuntive per il finanziamento di questi servizi.
Con la riforma approvata il Presidente della Repubblica, supremo organo di garanzia, perde le prerogative che ne fanno il garante imparziale dell'equilibrio tra i poteri costituzionali;
- La Corte Costituzionale, giudice supremo dei conflitti fra poteri dello Stato e della costituzionalità delle leggi, viene resa più facilmente soggetta al controllo della maggioranza di governo tramite un aumento dei membri di nomina parlamentare - mentre
con la riforma dell'ordinamento giudiziario si mette in discussione l'indipendenza della magistratura.
- I presidenti di Camera e Senato della Repubblica saranno espressione della maggioranza.
• Viene enormemente rafforzata, invece, la figura del premier, alla cui elezione diretta è connessa l'elezione della Camera dei deputati, che diverrebbe il principale organo legislativo, accanto a un Senato federale con funzioni legislative limitate.
• Al premier viene dato in particolare il potere sostanziale di scioglimento della Camera: un potere di ricatto che neanche il presidenzialismo Usa assegna al presidente, e che potrà essere usato tanto contro una Camera "ribelle", quanto per pretestuosi scioglimenti anticipati in periodi giudicati elettoralmente favorevoli. Per contro, il potere della Camera di costringere il premier alle dimissioni viene limitato: l'approvazione di una mozione di sfiducia ne comporterebbe, infatti, il contestuale scioglimento.
• La riforma approvata non riguarda solo l'ordinamento dello Stato
• la seconda parte della Costituzione, come dichiarato-, ma si riflette sull'esercizio dei diritti affermati nella prima parte della Costituzione, e già violati da questa maggioranza di governo (diritto al lavoro, libertà di insegnamento e diritto all'istruzione scolastica, ripudio della guerra, libertà di informazione, ecc). Se venisse attuato, avremmo un sistema autoritario che della democrazia conserverebbe solo l'apparenza.
Di fronte a questo attacco alla democrazia, è necessario opporsi con una larga unità, e con la necessaria coerenza: le riforme costituzionali devono essere condivise, ma devono soprattutto essere rivolte a rafforzare il sistema delle garanzie e gli spazi di democrazia, ossia a mettere in pratica quell'attuazione della Costituzione tanto a lungo e su tanti versanti disattesa.
E qui voglio richiamare un discorso sulla costituzione tenuto ai giovani di Milano nel lontano 1955 da Pietro Calamandrei , il fiorentino che fu docente di diritto civile , tra i fondatori del partito d'azione e che dopo aver partecipato alla resistenza, fece parte della costituente:
Nella nostra Costituzione c'è un articolo che è il più importante, il più impegnativo. Dice così: «E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese. Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti la dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto si potrà veramente dire che la formula contenuta nel primo articolo "la Repubblica d'Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro", corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c'è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà dire "fondata sul lavoro" ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia solo un'uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro migliore contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe, è vero, a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte una realtà: in parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere .(...)
Dietro a ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano e di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi questa non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».
La devolution forza l'Art. 5 della Costituzione che recita: la Repubblica e1 una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali.
Gli Italiani non devono permettere né a Bossi, né a Berlusconi, né a Borghesio , ne' a nessun altro di dividere il paese con un centro-nord sviluppato ed un sud sempre più abbandonato a se stesso e più lontano dai ritmi di crescita economica del nord. Con la devolution le differenze del paese si accresceranno sempre più anche per effetto degli esorbitanti oneri aggiuntivi che queste riforme comporteranno per le Regioni.
L'opposizione - istituzionale e sociale - deve impegnarsi, a tutti i livelli per difendere la costituzione ed impegnarsi per il referendum per battere la controriforma della destra ed impegnarsi da subito per un'ampia mobilitazione, il più possibile unitaria, e mettere in atto tutte le necessarie iniziative per informare i cittadini. Il Comitato salviamo la costituzione si è già attivato per raccogliere le firme ed i cittadini che lo vogliono possono recarsi presso gli uffici comunali
- E chiudo con le parole di Piero Calamandrei: "La libertà è come l'aria, ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per venti anni... e la Costituzione è la Carta della propria libertà, la Carta per ciascuno di noi della propria dignità d'uomo.”
Nella Toscano

martedì 16 marzo 2010

Rai, la commedia degli inganni

Arturo Meli, 16-03-2010

C’era ancora chi confidava in un sussulto di dignità, nella capacità dei consiglieri Rai di saper guardare agli interessi del servizio pubblico che amministrano. Speranze deluse. Per la maggioranza di centrodestra, la fedeltà al leader, e ai suoi interessi, è il solo criterio di valutazione. Dunque, la “commedia degli inganni” continua: in questo scorcio di campagna elettorale che ci resta, potremo seguire il dibattito solo attraverso le emittenti private (in gran parte del Cavaliere) perché la Rai continua a restare assente, ha messo il silenziatore all’informazione. Poco importa quanto si conosce con l’inchiesta di Trani, se le intercettazioni rivelano l’immorale e grave interferenza del premier per controllare e condizionare eliminando qualsiasi voce critica. Da sempre, per Berlusconi, la televisione è strumento portante della politica: esercita una funzione “evangelica” quando fa i suoi interessi, ma è “faziosa” e “criminogena” se li mette in discussione, aprendosi alla riflessione critica.



Si dirà che c’è un vizio d’origine del servizio pubblico, una debolezza congenita che lo espone alla pressione del potere politico, quale che sia il colore della maggioranza di governo. Ma oggi si respira un’aria pesante da caserma, in cui ogni spazio politico è prosciugato: un clima che mai abbiamo conosciuto, neppure nei momenti più cupi della vecchia Dc. Con un capo del governo che detiene direttamente tre reti televisione e controlla indirettamente le tre reti pubbliche, viviamo un conflitto d’interessi ripugnante. E’ reale la minaccia che la Rai sia condannata a una condizione permanente d’inferiorità, che si trasformi definitivamente in una tv di regime.

Da questo contesto di degradazione è impossibile uscire se ci si attarda in diplomatiche furbizie. E mancheranno ancora atti coraggiosi e responsabili.

Se questo è un ministro

| Bruno Tinti

16 marzo 2010
Un ministro della Giustizia “normale” avrebbe atteso gli sviluppi dell’indagine su B&C e poi si sarebbe posto il problema se, nella Procura di Trani, "i servizi procedevano secondo le leggi, i regolamenti e le istruzioni vigenti" (Legge sulle ispezioni, 1311/1962); poi, magari, avrebbe disposto un’ispezione.
Un ministro della Giustizia furbo avrebbe detto: la Procura di Trani versa in condizioni disastrate; mando gli ispettori a vedere cosa si può fare. Poi da cosa nasce cosa…
Un ministro della Giustizia che ha concepito il Lodo omonimo e che si è dimostrato entusiasta delle leggi sul processo morto e sul legittimo impedimento avrebbe detto esattamente quello che ha detto Alfano: "L’inchiesta di Trani, il cui contenuto non conosco nel merito, evidenzia almeno tre gravissime patologie che sono chiare anche allo studente che affronta all’università l’esame di Procedura penale. E cioè: un problema gravissimo di competenza territoriale, un secondo problema di abuso delle intercettazioni, e un terzo che riguarda la rivelazione del segreto d’ufficio".

Come tutti sanno, a Trani sono stati inviati gli ispettori. Il problema è che questo studente universitario avrebbe potuto spiegare al ministro quanto segue. Le ispezioni ministeriali sono regolamentate dalla legge 1311/62 che (art. 7) le prevede al fine di accertare la regolarità dei "servizi", cioè l’organizzazione degli uffici giudiziari e l’adeguatezza delle risorse materiali e umane. Sicché, a norma di legge, l’attività giurisdizionale non c’entra proprio nulla con le ispezioni che hanno natura amministrativa. Per esempio, se un magistrato decide di incriminare B&C, questi sono affari del Tribunale della Libertà, del gip, del Tribunale, della Corte d’Appello e della Corte di Cassazione che, tutti nell’ordine e per quanto di loro competenza, stabiliranno con ordinanze e sentenze se chi indaga è competente a farlo e se ci sono prove valide (il che significa anche acquisite legittimamente) a sostegno dell’ipotesi di accusa.
Non è il ministro della Giustizia, nemmeno se si chiama Alfano, che può stabilire chi sia la procura territorialmente competente e se intercettazioni telefoniche (o qualsiasi altro mezzo di ricerca della prova) siano state disposte legittimamente. Quanto alla fuga di notizie, non è il ministro della Giustizia che può svolgere indagini circa la sussistenza di un reato: questo è compito della Procura della Repubblica.

Insomma il ministro Alfano ha inviato a Trani gli ispettori per fare cose che, secondo legge, non possono fare, e dunque ha disposto un’ispezione illegittima. Questo, in effetti, glielo avrebbe potuto dire uno studente universitario. Ma c’è di peggio.
Supponiamo che il ministro Alfano (che quando si tratta di B&C ha le idee chiarissime pur senza "conoscere nel merito" nulla dell’indagine) abbia informazioni tali da renderlo certo che ci sono state le patologie di cui si è affrettato a parlare; e supponiamo (ma non è vero) che queste patologie rendano opportuno un procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati di Trani. Perché parlo di procedimento disciplinare e non d’ispezione? Perché (questo lo studente universitario probabilmente non lo sa ma Alfano certamente sì), nel 2006 c’è stato il Decreto legislativo n. 109 che, all’art. 14 comma 2, prevede che il ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare mediante richiesta d’indagini al procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
Il che vuol dire che, se il ministro della Giustizia ritiene che sussistano illeciti disciplinari (le gravi patologie da lui date per certe senza conoscere niente dell’indagine) l’unica cosa che può fare è dirlo al suddetto pg che svolgerà le indagini necessarie. Insomma, il ministro non può, proprio non può, mandare gli ispettori a fare indagini sulle "gravi patologie" così evidenti da essere percepibili dal famoso studente: se sono così evidenti se ne occupi, come previsto dalla legge, il pg presso la Cassazione; lui, il ministro, può solo segnalare la cosa.

Allora, perché Alfano ha subito suonato la grancassa e inviato gli ispettori? Perché così ha avvalorato la consueta autocertificazione d’innocenza di B&C, corredata dalle consuete calunnie nei confronti di chi ha osato indagare su di loro. B&C non hanno mai commesso alcun reato; la loro incriminazione è frutto di evidenti patologie; il vigile ministro le accerterà (anche se, a termini di legge non può farlo) rendendo così chiaro al popolo tutto come la specchiata virtù di B&C sia stata oggetto di un vile complotto.
Il problema è che a questo stravolgimento della legge ha molto contribuito il Consiglio superiore della magistratura. Per molto tempo il Csm ha ritenuto che le decisioni giurisdizionali non potevano essere censurate disciplinarmente. Un pm incrimina taluno per concussione; il Tribunale decide che si tratta di abuso di ufficio; le intercettazioni potevano essere disposte per la concussione ma non per l’abuso; non si poteva arrestare nessuno; alla fine l’imputato è condannato a una pena lieve o addirittura assolto. E allora? Che c’entra il procedimento disciplinare? Queste cose riguardano Tribunale, Appello e Cassazione; non il Csm.

Nessuno ne ha mai dubitato. Fino a qualche tempo fa. Per esempio, quando la Procura di Salerno ha emesso un decreto di sequestro nei confronti della Procura di Catanzaro. In questo caso il Csm è intervenuto disciplinarmente e ha affermato un principio gravissimo: il Csm può stabilire che un provvedimento giurisdizionale non serve allo scopo per il quale è stato emesso (acquisire la documentazione che la Procura di Catanzaro si rifiutava di consegnare) ma ad altro; nel caso di specie a finalità addirittura illecite: appropriarsi dell’indagine che quella procura stava facendo su De Magistris. Poi il Tribunale della Libertà ha detto che si trattava di un provvedimento pienamente legittimo; ma ormai i magistrati di Salerno erano stati trasferiti.

Il famoso studente universitario non avrebbe difficoltà a rendersi conto che un tal modo di procedere(a questo punto comune a Csm e ministro) mette a rischio l’indipendenza e l’autonomia del magistrato. Se un provvedimento giurisdizionale può essere valutato disciplinarmente, nessuna sentenza sarà più al sicuro: per intenderci, si potrà stabilire che il giudice Mesiano non ha emesso una sentenza che dava torto a Mediaset perché così (a torto o a ragione, lo stabiliranno Appello e Cassazione) ha ritenuto giusto; ma perché fa parte del complotto pluto-comunista-giustizialista ai danni di B&C.

Così, come al solito, è inutile prendersela con B&C (in questo caso con Alfano): fanno quello che ci si aspetta da loro. Il vero problema sono quelli che non capiscono, non prevedono, non prevengono. Se oggi tanti credono alla favola della magistratura politicizzata, delle indagini e sentenze complotto, della necessaria immunità politica, un po’ (tanta) responsabilità ce l’ha il Csm.

Da il Fatto Quotidiano del 16 marzo

domenica 14 marzo 2010

Peggio del McCarthy di sessanta anni fa

L'EDITORIALE
di EUGENIO SCALFARI

Tralascio per ora le consuete e querule lamentazioni del nostro pseudo san Sebastiano nazionale trafitto dalle frecce dei magistrati comunisti. Mi sembra più interessante cominciare questo articolo con un'osservazione sul comune sentire dei centristi.
I centristi, quelli che non amano prender posizione neppure nei momenti in cui schierarsi sarebbe inevitabile, si rifugiano nella tecnica di mandare la palla in tribuna anziché tenerla in campo. Gli argomenti usati e ormai consueti sono: descrivere le manifestazioni di popolo come stanchi riti vissuti con annoiata indifferenza perfino da chi vi partecipa; sottolineare che "i veri problemi" non sono quelli di schieramento ma i programmi delle Regioni nelle quali si voterà il 28 marzo; infine sottolineare l'importanza di un'astensione di massa dal voto come segnale idoneo a ricondurre la casta politica sulla retta via dell'amministrazione.

Questa saggezza centrista non mi pare che colga la realtà per quanto riguarda i fatti e mi sembra alquanto sconsiderata nelle sue proposte. La piazza del Popolo di ieri pomeriggio era gremita e ribollente di passione, di senso di responsabilità e insieme di rabbiosa indignazione: niente a che vedere con l'indifferenza di un rito stanco. La proposta dell'astensione rivolta al centrosinistra mostra la corda: l'astensione sarebbe soltanto un favore alla maggioranza che ci sgoverna e non metterebbe affatto il governo sulla retta via della buona amministrazione.

Il governo sarebbe ben felice di un'astensione a sinistra che compensasse la vasta astensione che si delinea a destra. Se è vero - e gli stessi centristi lo dicono ormai a chiare note - che il governo non riesce ad esprimere una politica ma mette in opera tutti i mezzi leciti e illeciti per puntellare il suo potere annullando controlli e garanzie, lo strumento elettivo è il solo capace di punirlo affinché cambi registro o se ne vada. Gli elettori di destra in buona fede si astengano invece di turarsi il naso di fronte al pessimo odore che anch'essi ormai percepiscono; quelli di sinistra votino senza esitazioni perché è il solo modo per far rinsavire un Paese frastornato e licenziare la cricca che fa man bassa delle istituzioni.


I problemi concreti, la disoccupazione, la caduta del reddito, l'immigrazione, la sanità, il Mezzogiorno, sono tanti e gravi, ma il problema dei problemi è appunto la cricca e il boss della cricca. Se non si risolve preliminarmente quello, tutti gli altri continueranno a marcire.
Ne abbiamo l'ennesima conferma dalle ultime notizie che arrivano dalla Procura di Trani e che sono su tutti i giornali di ieri. Il presidente del Consiglio ha preteso che l'Autorità garante del pluralismo nei "media" azzerasse la trasmissione Annozero, ha dato più volte indicazioni a Minzolini di come condurre il Tg1, ha imposto al direttore generale della Rai di bloccare le trasmissioni sgradite.
È possibile che questi comportamenti non configurino reati gravi, ma certo raccontano una politica di sopraffazione indecente contro il pluralismo e la libertà di stampa. Per un leader di partito e soprattutto per il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo, questi reiterati interventi dovrebbero portarlo alle dimissioni immediate e irrevocabili. E i primi a reclamarle dovrebbero essere i suoi collaboratori, ivi compreso il cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini.

* * *

Il progetto costituzionale di Silvio Berlusconi è molto chiaro: vuole riscrivere la Costituzione. Non modificarne alcuni punti ma riscriverla stravolgendone lo spirito, mettendo al vertice una sorta di "conducator" eletto direttamente dal popolo insieme alla maggioranza parlamentare da lui stesso indicata e subordinando alla sua volontà non solo il potere esecutivo e quello legislativo ma anche i magistrati del pubblico ministero, la Corte costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia.
Questo progetto non è nato oggi ma è nella sua mente fin dal 2001, quando ebbe inizio la legislatura che durò fino al 2006 e si svolse durante il settennato al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi. Le divergenze tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio furono numerose e ebbero come oggetto soprattutto quel tema; non potendo cambiare la Costituzione nel modo da lui desiderato Berlusconi tentò di modificarla nei fatti contestando sistematicamente le attribuzioni del capo dello Stato e i poteri che gli derivano.
Il capo dello Stato rappresenta il coronamento istituzionale della democrazia parlamentare così come la configura la nostra Costituzione ed è, proprio per questo il maggior ostacolo ai progetti di Berlusconi. Non è dunque un caso che i suoi bersagli costanti siano stati Scalfaro, Ciampi, Napolitano: tre uomini estremamente diversi tra loro, con diversi caratteri e diverse origini culturali, ma con identica dedizione ai loro doveri costituzionali. E proprio per questo sono stati tutti e tre nel mirino di Berlusconi fin da quando salì per la prima volta alla presidenza del Consiglio avendo in animo di governare da solo, senza ostacoli di sorta che controllassero la legalità delle sue azioni e ne limitassero la discrezionalità che egli vuole piena e assoluta.

Gli attriti con Ciampi furono, come ho ricordato, numerosi. Due di essi in particolare avvennero in circostanze di estrema tensione. Il primo in occasione della nomina di tre giudici della Corte costituzionale, il secondo nel momento della promulgazione della legge Gasparri sul sistema televisivo nazionale.
Ho avuto la ventura di esser legato a Ciampi da un'amicizia che dura ormai da quarant'anni, sicché ebbi da lui un lungo racconto di quei due episodi poco tempo dopo il loro svolgimento. Non ho mai rivelato quel racconto, del quale ho conservato gli appunti nel mio diario quotidiano. Spero che il presidente Ciampi mi perdonerà se oggi ne faccio cenno, poiché la riservatezza che finora ho rispettato non ha più ragion d'essere al punto in cui è arrivata la situazione politica italiana.

L'episodio concernente la nomina dei tre giudici della Consulta nella quota che la Costituzione riserva al Presidente della Repubblica, avvenne nella sala della Vetrata del Quirinale. Erano presenti il segretario generale del Quirinale, Gifuni e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. I temi da discutere erano due: i rapporti con la Commissione europea di Bruxelles dove il premier doveva recarsi per risolvere alcuni importanti problemi e la nomina dei tre giudici.
Esaurito il primo argomento Ciampi estrasse da una cartella i tre provvedimenti di nomina e comunicò a Berlusconi i nomi da lui prescelti. Berlusconi obiettò che voleva pensarci e chiese tempo per riflettere e formulare una rosa di nomi alternativa. Ciampi gli rispose che la scelta, a termini di Costituzione, era di sua esclusiva spettanza e che la firma del presidente del Consiglio era un atto dovuto che serviva semplicemente a certificare in forma notarile che la firma del Capo dello Stato era autentica e avvenuta in sua presenza. Ciò detto e senza ulteriori indugi Ciampi prese la penna e firmò passando i tre documenti a Berlusconi per la controfirma.
A quel punto il premier si alzò e con tono infuriato disse che non avrebbe mai firmato non perché avesse antipatia per i nomi dei giudici ma perché nessuno poteva obbligarlo a sottoporsi ad una scelta che non derivava da lui, fonte unica di sovranità perché derivante dal popolo sovrano.
La risposta di Ciampi fu gelida: "I documenti ti verranno trasmessi tra un'ora a Palazzo Chigi. Li ho firmati in tua presenza e in presenza di due testimoni qualificati. Se non li riavrò immediatamente indietro da te controfirmati sarò costretto a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. "Ti saluto" rispose altrettanto gelidamente Berlusconi e uscì dalla Vetrata seguito da Letta. In serata i tre atti di nomina tornarono a Ciampi debitamente controfirmati.

Il secondo episodio avvenne nel corso di una colazione al Quirinale, sempre alla presenza di Gifuni e di Letta. Il Parlamento aveva votato la legge Gasparri e l'aveva trasmessa a Ciampi per la firma di promulgazione. Presentava, agli occhi del Capo dello Stato, svariati e seri motivi di incostituzionalità e mortificava quel pluralismo dell'informazione che è un requisito essenziale in una democrazia e sul quale, appena qualche mese prima, Ciampi aveva inviato al Parlamento un suo messaggio.
La colazione era da poco iniziata quando Ciampi informò il suo ospite del suo proposito di rinviare la legge alle Camere, come la Costituzione lo autorizza a fare motivando le ragioni del rinvio e i punti della legge da modificare. Berlusconi non si aspettava quel rinvio. Si alzò con impeto e alzò la voce dicendo che quella era una vera e propria pugnalata alla schiena. Ciampi (così il suo racconto) restò seduto continuando a mangiare ma ripeté che avrebbe rinviato la legge al Parlamento. L'altro gli gridò che la legge sarebbe stata comunque approvata tal quale e rinviata al Quirinale e aggiunse: "Ti rendi conto che tu stai danneggiando Mediaset e che Mediaset è una cosa mia? Tu stai danneggiando una cosa mia".
A quel punto si alzò anche Ciampi e gli disse: "Questo che hai appena detto è molto grave. Stai confessando che Mediaset è cosa tua, cioè stai sottolineando a me un conflitto di interessi plateale. Se avessi avuto un dubbio a rinviare la legge, adesso ne ho addirittura l'obbligo". "Allora tra noi sarà guerra e sei tu che l'hai voluta. Non metterò più piede in questo palazzo".

Uscì con il fido Letta. Ciampi rinviò la legge. Il premier per sei mesi non mise più piedi al Quirinale.
Venerdì scorso ho rivisto su Sky un bellissimo film prodotto da George Clooney. Si intitola "Good Night and Good Luck", Buona notte e buona fortuna, e racconta di una società televisiva che guidò la protesta dei democratici americani contro la campagna di intimidazione con la quale il senatore McCarthy, presidente d'una commissione di inchiesta del Senato, aveva intimidito e colpito giornalisti, docenti universitari, produttori ed attori, uomini d'affari, sindacalisti, scienziati e tutta la classe dirigente con l'accusa di essere comunisti o loro fiancheggiatori.
Quella società televisiva, guidata da un giornalista coraggioso, mise McCarthy sotto accusa, ne documentò la faziosità e suscitò un tale movimento di opinione pubblica che il Senato aprì un'indagine e destituì McCarthy da tutti i suoi incarichi.
Sky l'ha rimesso in onda l'altro ieri ed ha fatto a mio avviso un'ottima scelta: la sua attualità è stupefacente.
Citerò le parole con le quali il protagonista conclude: "La televisione è uno strumento che può e deve contribuire a rendere le persone più consapevoli, più responsabili e più libere. Se mancano questi presupposti e questi obiettivi la televisione è soltanto una scatola piena di fili elettrici e di valvole".
Aggiungo io: una scatola, ma a volte molto pericolosa se qualcuno se ne impadronisce e la controlla a proprio uso e consumo.
Good Night, and Good Luck.

sabato 13 marzo 2010

Una questione di democrazia

di EZIO MAURO

Non è l'aspetto penale (di cui nulla sappiamo) il punto più importante dell'inchiesta dei magistrati di Trani che indaga il presidente del Consiglio, il direttore del Tg1 e un commissario dell'Authority sulle Comunicazioni. L'ipotesi di concussione verrà vagliata dalla giustizia, e certamente il capo del governo avrà modo di difendersi e di far sentire le sue ragioni, o di far pesare le norme che bloccano di fatto ogni accertamento giudiziario sul suo conto, facendone un cittadino diverso da tutti gli altri, uguale soltanto all'immagine equestre che ha di se stesso.

Ma c'è una questione portata alla luce da questa inchiesta che non si può evitare e domina con la sua evidenza eloquente questa fase travagliata di agonia politica in cui si trova il berlusconismo. La questione è l'uso privato dello Stato, dei pubblici servizi creati per la collettività, della presidenza del Consiglio, persino delle Autorità di garanzia, che hanno nel loro statuto l'obbligo alla "lealtà e all'imparzialità", per non determinare "indebiti vantaggi" a qualcuno.

Siamo di fronte a una illegalità che si fa Stato, un abuso che diviene sistema, un disordine che diventa codice di comportamento e di garanzia per chi comanda.

Con la politica espulsa e immiserita a cornice retorica e richiamo ideologico, sostituita com'è nella pratica quotidiana dal comando, che deforma il potere perché cerca il dominio. Questi sono tratti di regime, perché il sovrano prova a mantenere il consenso attraverso la manipolazione dell'informazione di massa, inquinando le Autorità di controllo poste a tutela dei cittadini, con un'azione sistemica di minaccia e di controllo che avviene in forma occulta, all'ombra di un conflitto di interessi già gigantesco e ripugnante ad ogni democrazia. Il controllo padronale e politico sull'universo televisivo (unico caso al mondo per un leader politico) non basta più quando la politica latita e la realtà irrompe. Bisogna andare oltre, deformando là dove non si riesce a governare, calpestando là dove non basta il controllo.


Così il presidente del Consiglio, a capo di un Paese in perdita costante di velocità, passa le sue giornate tenendo a rapporto un commissario dell'Agcom per confessargli le sue paure non per la crisi economica internazionale, ma per due trasmissioni di Michele Santoro, dove la libera informazione avrebbe parlato del processo Mills e del caso Spatuzza, corruzione e mafia. I due parlano come soci, o come complici, o come servo e padrone, cercando qualche mezzo - naturalmente illecito perché la Rai non dipende né dall'uno né dall'altro - per cancellare Santoro: e l'uomo di garanzia propone al premier di trovare qualcuno che inventi un esposto (lui che come commissario dovrebbe ricevere le denunce e imparzialmente giudicarle) incaricandosi poi direttamente e volentieri di provvedere all'assistenza legale per il volenteroso.

Poi il premier parla direttamente con il direttore del Tg1, manifestando le sue preoccupazioni, e il "direttorissimo" (come lo chiama il primo ministro) il giorno dopo va in onda puntualissimo con un editoriale contro Spatuzza. Infine, lo statista trova il tempo addirittura per lamentarsi della presenza mia e di Scalfari a "Parla con me", una delle pochissime trasmissioni Rai che ha invitato "Repubblica": si contano sulle dita della mano di un mutilato, mentre il giornalismo di destra vive praticamente incollato alle poltrone bianche di "Porta a porta" e ad altri divani di Stato.

La fluida normalità di questi eventi, che sarebbero eccezionali e gravissimi in ogni Paese occidentale, rivela un metodo, porta a galla un "sistema". Citando Conrad, l'avevamo chiamata "struttura delta", un meccanismo che opera quotidianamente e in profondità nello spazio tra l'informazione e la politica, orientando passo per passo la prima nella lettura della seconda: in modo da ri-costruire la realtà espellendo i fatti sgraditi al potere o semplicemente rendendoli incomprensibili, per disegnare un paesaggio virtuoso in cui rifulgano le gesta del Principe.

Oggi si scopre che il premier è il vero capo operativo della "struttura delta" e non solo l'utilizzatore finale. Lui stesso dà gli ordini, inventa le manipolazioni della realtà, minaccia, evoca i nemici, suggerisce le liste di proscrizione, deforma il libero mercato televisivo, addita i bersagli. Che farà quest'uomo impaurito con i servizi segreti che dipendono formalmente dal suo ufficio, se usa in modo così automatico e disinvolto la dirigenza della Rai e le Autorità di garanzia, istituzionalmente estranee al suo comando? Come li sta usando, nell'ombra e nell'illegalità, contro gli stessi giornalisti che lo preoccupano e che vorrebbe cancellare, in una sorta di editto bulgaro permanente?

La sfortuna freudiana ha portato ieri Bondi a evocare una "cabina di regia" di giudici e sinistre, proprio mentre il Gran Regista forniva un'anteprima sontuosa del suo iperrealismo da partito unico, a reti unificate. La coazione gelliana a ripetere ha spinto Cicchitto a evocare il "network dell'odio", proprio quando il Capo del network dell'amore insulta avversari e magistrati, in una destra di governo ormai e sempre più ridotta alla ragione sociale della P2, che voleva occupare lo Stato, non governarlo. L'istinto ha condotto La Russa ad afferrare per il bavero un giornalista critico del leader, alzando le mani come la guardia pretoriana di un sovrano alla vigilia del golpe, proprio nel momento in cui un collaboratore si chinava in diretta televisiva sul premier suggerendogli la risposta giusta, in un fuori onda del potere impotente che certo finirà nei siparietti quotidiani di Raisat.

La verità è che ogni traccia di amministrazione è scomparsa, nell'orizzonte berlusconiano del 2010, ogni spazio di politica è prosciugato. Questo, è ora di dirlo, non è più un governo (salvo forse Tremonti, che bene o male si ricorda di guidare un dicastero), non è una coalizione, non è nemmeno un partito. Stiamo assistendo in diretta alla decomposizione di una leadership, a un potere in panne, nella sua pervasiva estensione immobile che non produce più nulla, nemmeno consenso, se è vero il declino dei sondaggi.

Era facile prevedere che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile, e le istituzioni pagheranno nei prossimi mesi un prezzo molto alto. Non abbiamo ancora visto il peggio. Ma non pensavamo a questo spettacolo quotidiano di un sovrano sempre più assoluto e sempre meno capace di autorità: costretto in pochi giorni a rimediare con un decreto di maggioranza a errori elettorali del suo partito, mentre è obbligato a bloccare il Parlamento con due leggi ad personam che lo sottraggono ai suoi giudici, sempre più ossessionato dalla minima quantità di libera informazione che ancora sopravvive in questo Paese.

Nessuno di questi problemi, ormai, si risolve nelle regole. La deformazione è il nuovo volto della politica, l'abuso la sua costante. Si pone una questione di democrazia, fatta di sostanza e di forma, equilibrio tra i poteri, rispetto delle istituzioni, ma anche semplicemente di senso del limite costituzionale, di rispetto minimo dello Stato e della funzione che grazie al voto dei cittadini si esercita pro tempore. Questo e non altro - la cornice della Costituzione - porterà oggi in piazza a Roma migliaia di persone. È un sentimento utile a tutto il Paese, comunque voti. Un Paese che non merita questa riduzione miserabile della politica a calco vuoto di un sistema senza più un'anima, in un mix finale di protervia e di impotenza che dovrebbe preoccupare tutti: a sinistra e persino a destra.

venerdì 12 marzo 2010

Protezione civile Connection

12 marzo 2010

di Luigi De Magistris

Le indagini espletate dalla Procura della Repubblica di Firenze evidenziano le nuove forme di corruzione. Fatti gravi, inquietanti, diffusi, ma non certamente nuovi. Il sistema criminale è il medesimo di quello ricostruito anche in recenti inchieste giudiziarie. Coincidono contesti, nomi, società. Un sistema criminale che ruota, soprattutto, intorno alla gestione del denaro pubblico. Sodalizi criminali che gestiscono finanziamenti europei, statali e regionali. Gruppi di potere criminale in grado di condizionare ogni settore destinatario di sovvenzioni pubbliche: sanità, ambiente, trasporti, infrastrutture, lavori pubblici, formazione, informatica. Tutto, senza che venga lasciato uno spicchio alla rapacità del crimine dei colletti bianchi. Controllano e depredano i fondi destinati per superare l´emergenza ambientale: per smaltire i rifiuti, per depurare le acque, per garantire l’acqua quale bene pubblico, per la lotta alle ecomafie. Arraffano i soldi destinati alle calamità naturali: per i terremoti, per le alluvioni, per i disastri ambientali. Si arricchiscono sulla salute dei cittadini. Prendono soldi mentre la gente si impoverisce e/o muore.

Roba da far accapponare la pelle. Si foraggiano politici corrotti e prenditori di soldi pubblici, si alimenta illecitamente la stessa attività politica. È un sistema collaudatosi nel corso degli anni e realizzato insieme da una fetta consistente della classe politica - in modo assolutamente trasversale -, da imprenditori che si sono arricchiti attraverso un rapporto illecito preferenziale con la politica che poi, a loro volta, finanziano e rafforzano con il voto, dalla mafia imprenditrice ed istituzionale che partecipa alla ripartizione della torta pubblica , da pezzi di ceti istituzionali, anche deputati ai controlli di garanzia e di legalità. Nei luoghi della gestione illecita del potere partecipano anche magistrati, funzionari pubblici, rappresentanti delle forze dell’ordine e della sicurezza. Nella ripartizione della torta mettono loro prestanome. Nel mercimonio delle pubbliche funzioni operano direttamente. Ne ottengono potere, incarichi, prestigio, partecipazione alla gestione di fatti politici ed istituzionali ad altissimo livello.

Non é, quindi, un caso che, nelle carte delle inchieste di Firenze e Perugia, si rinvengono nominativi di persone coinvolte anche nelle inchieste Why Not e Poseidone da me dirette, o in quelle condotte dal pm Woodcock, quando prestava servizio a Potenza. Imprenditori, monsignori, magistrati, personale dei servizi. Un sistema criminale - corrotto e mafioso - che opera con il collante di servizi segreti (deviati?) e di massonerie deviate.

Nelle ultime inchieste un ruolo inquietante l’hanno svolto alcuni magistrati. Uno per tutti, il procuratore aggiunto di Roma dottor Toro, ovviamente addetto alla sezione reati contro la pubblica amministrazione. Un gerarca della correntocrazia. Magistrato il cui nome comparve al disonore della cronaca per la vicenda criminale dei furbetti del quartierino. Magistrato il cui nome emergeva nelle indagini - con intercettazioni dal contenuto imbarazzante sul piano morale, ma utili per far carriera in magistratura - effettuate dal dottor Woodcock nei confronti del dottor Barbieri (altro magistrato in servizio tra la Procura di Roma ed il ministero della Giustizia, un altro correntocrate). Magistrato, sempre il Toro, il cui nome compare, unitamente ad altri - tra cui il dottor Nebbioso, anche lui nelle carte dell´inchiesta di Firenze ed anche lui Caronte tra gli uffici romani ed il Ministero della Giustizia - nell´inchiesta Why Not. Magistrato che, poi, si é occupato incredibilmente - anzi ovviamente - di indagare su Why Not e su alcuni protagonisti di quella straordinaria inchiesta (bloccata con ogni mezzo illegale e con un dispiego di forze istituzionali senza precedenti).

Come scrisse Domenico Starnone, normale devianza. I deviati siamo noi, gli altri sono i normali, i normalizzatori, i conformisti, quelli che prevengono le raccomandazioni del potere prima ancora di riceverle. Potrei continuare ancora, ma molte cose sono nelle stanze segrete di uffici giudiziari che spero ricostruiranno la verità. La questione morale non appartiene solo alla politica. E sarebbe anche interessante comprendere perché il Toro si é dimesso così velocemente e che cosa é avvenuto quando i magistrati romani, ai più alti vertici, sono venuti al corrente degli sviluppi clamorosi ai quali stava conducendo l’indagine di Firenze. E´ la Procura di Perugia, adesso, l´Ufficio che ha il compito più delicato. Quello di capire fino in fondo che cosa é avvenuto ai vertici del più importante ufficio giudiziario d´Italia. E materiale, recente e meno recente, é immane. La luce deve diradare le nebbie, il fresco profumo di libertà deve eliminare il puzzo del compromesso morale.

da il Fatto Quotidiano del 12 marzo

lunedì 8 marzo 2010

Notturno di donna

Silvia Truzzi

8 marzo 2010
E' di nuovo 8 marzo, un giorno giallo di mimose, eventi “dedicati”, cene per sole donne magari con qualche strip maschile che onori il diritto all’uguaglianza dello squallore. Solito copione, 8 marzo di imbarazzo.
Non solo perché l’Italia è al 72esimo posto (in una graduatoria di 135 paesi) nel Gender Gap 2009 del World Economic Forum, un’analisi quantitativa della situazione relativa di maschi e femmine, attraverso 14 indicatori in quattro aree: economia e lavoro; istruzione; politica; salute e aspettativa di vita.
Non solo perché abbiamo un ministro per le Pari opportunità che ha fatto sì una legge per punire lo stalking, ma non si sente mai chiamata in causa quando le donne vengono trattate come valuta più o meno pregiata per scambi di varia natura.

Forse perché la prostituzione è stata legalizzata senza nemmeno bisogno di uno sforzo con decreto, introdotta per consuetudine o, se si preferisce, intercettazione. Di questo periodicamente ci ricordiamo l’8 marzo per mettere un santino trasparente su coscienze altrettanto svuotate, di qualunque sesso siano.
Che succede alle donne, un secolo dopo l’introduzione della giornata della memoria rosa? Perdita d’identità? Non sembra che le ragazze di oggi siano alle prese con un difetto di consapevolezza: semplicemente hanno rinunciato a essere parte dello sviluppo civile. I numeri della rappresentanza politica femminile raccontano una resa.
Ognuno fa per sé, foglie di fico e santini a parte. Ma anche da un punto di vista individuale le cose non vanno meglio. È sempre più complicato misurarsi con un’identità - quella maschile - evanescente, impaurita e quasi paralizzata dal confronto.

Che fare però è un problema loro. Dall’altra parte, notoriamente più incline alla praticità, il nodo esistenziale è prevalentemente una reperibilità h24. Volevamo studiare e lavorare e lo facciamo, si dirà. Ma nelle rivendicazioni “di genere” - leggi, cortei e biancheria intima al rogo - non era affatto implicita la rinuncia ad altre parti.
Così siamo madri, mogli e lavoratrici con l’ansia di fare tutto male, alla rincorsa spasmodica di minuti che non bastano, perse in una contabilità emotiva che non torna quasi mai. Tra sensi di colpa cronici e frustrazioni assortite, il desiderio di leggere o andare dal parrucchiere per non restare stritolate nella porta girevole dei ruoli è quasi eversivo. Più che la mimosa sarebbero utili ore di tregua.
Soprattutto da destinare al sonno, ultimo baluardo della rivendicazione femminista e probabilmente la trasgressione più sognata dalle ragazze di oggi. Notti soporifere, altro che guepiere e docce gelate. Fateci dormire un po’: e non solo perché fa bene alla pelle.

da il Fatto Quotidiano del 7 marzo

domenica 7 marzo 2010

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Il governo, la forma e la sostanza di BARBARA SPINELLI (la Stampa 7-3-2010) Condividi

Fa una certa impressione rileggere gli articoli che Norberto Bobbio scrisse nelle pagine di questo giornale, tra il 1994 e il 1996, sulla forza politica edificata da Berlusconi a seguito di Tangentopoli: sull’inconsistenza dei club e circoli da lui creati, sulla loro vacuità, sullo spregio delle forme, tanto fieramente vantato.

Sulla violenza protestante della sua ribellione a liturgie e convenzioni della democrazia rappresentativa, vorremmo aggiungere: una violenza di tipo russo, alla Bakunin, che ricorda la vastità informe (la gestaltlose Weite) criticata nel 1923 dal giurista Carl Schmitt.
Fa impressione rivedere quei testi perché molte storture sono le stesse. Non furono curate allora per il semplice fatto che erano ritenute virtù nuove, e adesso la stortura s’è estesa divenendo non solo questione di codice penale ma di riti elettorali prima trasgrediti, poi mal rappezzati con leggi ad hoc. Quel che Bobbio rimproverava ai club era in sostanza questo: il disdegno delle regole, tanto più indispensabili nel regime democratico, che al popolo affida un’amplissima sovranità.

E l’ideazione di una forza non solo dipendente da un’unica persona («Un partito a disciplina militare, anzi aziendale», così Dell’Utri nel novembre ’94), ma priva di statuti, progetti, chiarezza innanzitutto sui finanziamenti.

Bobbio era pienamente consapevole del discredito che la corruzione rivelata da Mani Pulite aveva inflitto ai partiti, annerendoli tutti mortalmente e rendendo ancor più pertinente il termine partitocrazia.

Tuttavia i partiti restavano essenziali per la democrazia, secondo lui, perché senza partiti il potere si fa opaco, arbitrario, imprevedibile. Il non-partito propagandato da Forza Italia minacciava d’essere un’accozzaglia senza storia, una «rete di gruppi semiclandestini»: incompatibile con la «visibilità del potere» che «distingue la democrazia dalle dittature» (Stampa, 3-7-94). La pura negazione (non-partito) non diceva nulla perché infinite sono le possibilità da essa racchiuse: «Se dico “non bianco” comprendo in queste parole tutti i colori possibili e immaginabili (...). La democrazia rifiuta il potere che si nasconde», dirà il filosofo in un’intervista a Giancarlo Bosetti nel 2001. Il non-bianco equivale all’amorfa vastità descritta da Schmitt.

Agli esordi anche i professionisti della politica erano invisi, e lo sono a tutt’oggi: gli uomini che si dedicano alla causa pubblica e ne vivono. Come nel film di Elia Kazan, meglio era scovare un Volto nella Folla, trasformarlo in talentuoso comunicatore, e la fabbrica del consenso partiva. Già nel 1957, Kazan crea il prototipo del manipolatore nichilista delle folle, eterno homo ridens, dandogli il nome di Lonesome Rhodes, il «Solitario» venuto dal nulla o meglio dalla galera. Di uomini così era fatto il non-partito escogitato da Mediaset, e lo è tuttora. Tuttora si avvale dei consigli di Previti, condannato definitivamente per corruzione in atti giudiziari. O di Verdini, indagato per corruzione.

Il politico di professione è considerato da costoro parassita, incapace di fare. La cerchia attorno a Berlusconi è piena di uomini che agiscono al riparo della politica e della legge: imprenditori o avvocati (soprattutto avvocati del Capo). Lo stesso Stato è sospettato, se non li serve: tanto che la sede del governo non è più Palazzo Chigi ma il domicilio del Capo a Palazzo Grazioli. Bobbio dà a questo fantasmatico potere il nome di partito personale di massa, e nel ’94 chiede al suo leader precisazioni: se il suo non è un partito cos’è, esattamente? Come s’è finanziato? Cosa farà per dare al proprio potere visibilità: dunque forme, regole rispettose del codice penale e di procedure elettorali che non avvantaggino i più forti o ricchi? Si vede in questi giorni come i riti, le sequenze formali, le procedure, siano sviliti e lisi.

Il disastro delle liste presentate tardi o malamente nel Lazio e in Lombardia conferma difetti congeniti, non sanati dal partito creato con Alleanza nazionale. All’origine: una politica al tempo stesso autoritaria e informe al punto di smottare di continuo come la terra semovente di Maierato in Calabria. Diciotto anni sono passati da Mani Pulite e i club di Mediaset hanno per questa via privatizzato la politica, screditandola agli occhi degli italiani e convincendo anch’essi che il privato è tutto, il pubblico niente. Si ascolti Verdini, sull’Espresso del 23-5-08. All’obiezione sul conflitto d’interessi replica, ardimentoso: «Il conflitto d’interessi non interessa più a nessuno. Neanche a chi non ha votato il Cavaliere. Diamo cento euro in più nella busta paga, detassiamo gli straordinari, favoriamo i premi aziendali senza tassazione e poi vediamo. Alla fine, la gente fa i conti con la propria famiglia».

La famiglia, l’affare, il favore chiesto per figli, mogli, cognati: son tutte cose che vengono prima, e se farsi strada affatica ci si serve della politica come di una scatola d’utensili cui si attinge per proteggersi dalla legge e aggirarla. Dell’Utri lo ammette: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera» (intervista a Beatrice Borromeo, Il Fatto 10-2. La dichiarazione non è stata smentita né ha fatto rumore).

Bobbio disse ancora che il berlusconismo è «una sorta di autobiografia della nazione». Autobiografia non solo collettiva ma di ciascuno di noi: cittadini evasori, onesti, non per ultimo cittadini-giornalisti. Un giorno o l’altro dovremo domandarci ad esempio, nelle redazioni, come mai inondiamo i lettori di pagine di intercettazioni che nulla c’entrano con reati penalmente perseguibili. Come mai riceviamo dai giudici 20.000 pagine di telefonate, solo in parte cruciali. Se davvero si difende il diritto degli inquirenti a tutte le intercettazioni utili, per render visibili crimini e poteri nascosti, vale la meta mettere un muro fra le intercettazioni rilevanti e quelle concernenti il privato come le scelte sessuali, a meno che le prestazioni non avvengano in cambio di favori illeciti. Anche questo innalzare muri era pensiero dominante, in Bobbio. Citando Michael Walzer ripeteva: «Il liberalismo è un universo di “mura”, ciascuna delle quali crea una nuova libertà». Il lettore non capisce più nulla, alle prese con faldoni di intercettazioni, e rischia una nausea senza più indignazione.

Il disprezzo delle forme e delle leggi caratterizza ieri come oggi il berlusconismo (con l’eccezione di Fini, da qualche tempo) e sempre ha generato regimi carismatici autoritari. Fu l’estrema destra francese, negli Anni 30, ad anteporre il «Paese reale» (o sostanziale) al «Paese legale».

Anch’essa formò Leghe, non partiti. Il partito è una parte, non rappresenta un’interezza, per natura si dà un limite. Nella stessa trappola dell’informe cade oggi il governo, e il vecchio istinto del non-partito fa ritorno. Con disinvoltura ineguagliata Schifani, di fronte all’intrico delle liste, si augura «che venga garantito il diritto di voto a tutti e che la sostanza prevalga sulla forma». Augurio comprensibile il primo, pernicioso il secondo.

Il rigetto delle forme va di pari passo con il rifiuto della legalità, con il primato dato ai diritti privati o corporativi sugli obblighi comuni, con la separazione dei poteri. Si combina alla sfrontatezza con cui l’homo ridens di Kazan, sicuro com’è del proprio talento, si sente legibus solutus, sciolto dai vincoli delle leggi. Talmente sciolto che Berlusconi non esita a dichiarare, nel novembre 1994: «Chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore». La Chiesa non ebbe mai alcunché da dire. Anche questa domanda, che Bobbio pose al Vaticano, resta senza risposta.

Tanta sicurezza può dare alla testa. Se ce ne fosse un po’ di meno, se non continuasse la pratica dei «gruppi semiclandestini», si potrebbe chiedere semplicemente scusa agli italiani e alle istituzioni, per la cialtrona gestione delle liste. Aiuterebbe. Ma forse, come scrive Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, sognare non ci è dato.

sabato 6 marzo 2010

Napolitano firma il decreto salvaliste e l'opposizione scende in piazza

Antonella Mascali

6 marzo 2010
Il governo si è inventato un decreto “interpretativo” pur di consentire al Pdl nel Lazio e in Lombardia di correre per le Regionali nonostante le pronunce contrarie delle Corti d'Appello. Dunque Polverini e Formigoni secondo Palazzo Chigi restano candidati Presidente indipendentemente da ciò che deciderà il Tar nelle rispettive Regioni.
La decisione, che non ha precedenti, è stata presa senza consultare l'opposizione e contando sulla firma del Quirinale, che è arrivata dopo le 23.
Il ministro dell'Interno Maroni, durante la conferenza stampa, ha sostenuto che non c'è nessuna modifica alla legge elettorale, “nessuna riapertura dei termini, ma si tratta di una interpretazione autentica di alcune disposizioni riguardanti il procedimento elettorale”.
Quindi per il responsabile del Viminale tutti i giudici che hanno bocciato le liste dei candidati della maggioranza, hanno interpretato male la normativa vigente.
Berlusconi con toni roboanti ha detto che il decreto da “il diritto di voto a tutti i cittadini”. Il via libera di Napolitano è arrivato dopo concitati colloqui fino a tarda sera con Gianni Letta e Roberto Maroni che hanno concordato il testo con l'ufficio giuridico del Colle.
Il Pd ha definito il decreto "un trucco" per aggirare le norme sulle elezioni. Decine di militanti del popolo “viola”, subito dopo la firma di Napolitano, si sono sdraiati per protesta davanti al Quirinale. Il Pd ha annunciato una manifestazione di tutto il centrosinistra per sabato prossimo (13 marzo). Per Di Pietro "c'è la necessità di capire bene il ruolo di Napolitano in questa sporca faccenda onde valutare se non ci siano gli estremi per promuovere l'impeachment nei suoi confronti per aver violato il suo ruolo e le sue funzioni”.

Furto con scasso nella notte

| Marco Travaglio

6 marzo 2010
Come i ladri professionisti, che agiscono nottetempo con passo felpato, il Pdl (Partito dei Ladri) ha svaligiato ieri notte un altro pezzo di legalità e di democrazia. Il decreto che fornisce la cosiddetta "interpretazione autentica" delle leggi elettorali travolgendole ex post, a immagine e somiglianza delle illegalità commesse presentando la lista del presidente Formigoni in Lombardia e quella del Pdl nel Lazio, è un obbrobrio giuridico e l'ultimo sputo sulla Costituzione.
La consueta firma di Ponzio Napolitano è anche peggio di quelle apposte su altre leggi vergogna come il Lodo Alfano, le norme razziali anti-immigrati e lo scudo fiscale.
Stavolta cambiano in corsa le regole della partita elettorale per riammettere in campo che ne era stato espulso per evidenti illegalità. Cioè per consentire di vincere a chi, secondo la legge, non dovrebbe proprio giocare, il tutto in barba ai diritti di coloro che hanno rispettato le regole, raccolto firme autentiche, presentato le liste in tempo utile. Senza contare la legge (nr. 400/1988) che vieta espressamente i decreti in materia elettorale.
Personalmente era da un pezzo che non mi sentivo più rappresentato da Giorgio Napolitano e nutrivo sempre maggiore nostalgia per i veri garanti della Costituzione come Enaudi, Pertini, Scalfaro e persino Ciampi.
Da ieri – a giudicare dai centralini intasati del Quirinale – ho l'impressione di essere in ottima compagnia.
Per 50 anni Napolitano è stato accompagnato dal nomignolo di "figlio del Re" per la sua straordinaria somiglianza con Umberto II di Savoia. Ma era il re sbagliato: Napolitano è il degno erede di Vittorio Emanuele III, il sovrano che nel 1922 non mosse un dito contro la marcia su Roma e nel 1943 fuggi a Brindisi. Anche lui, nella notte.

Atto Completo Pagina 1 di 3
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3. Il quinto comma dell'articolo 10 della legge 17 febbraio 1968,
n. 108, si interpreta nel senso che le decisioni di ammissione di
liste di candidati o di singoli candidati da parte dell'Ufficio
centrale regionale sono definitive, non revocabili o modificabili
dallo stesso Ufficio. Contro le decisioni di ammissione puo' essere
proposto esclusivamente ricorso al Giudice amministrativo soltanto da
chi vi abbia interesse. Contro le decisioni di eliminazione di liste
di candidati oppure di singoli candidati e' ammesso ricorso all'
Ufficio centrale regionale, che puo' essere presentato, entro
ventiquattro ore dalla comunicazione, soltanto dai delegati della
lista alla quale la decisione si riferisce. Avverso la decisione
dell'Ufficio centrale regionale e' ammesso immediatamente ricorso al
Giudice amministrativo.
4. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle
operazioni e ad ogni altra attivita' relative alle elezioni
regionali, in corso alla data di entrata in vigore del presente
decreto. Per le medesime elezioni regionali i delegati che si siano
trovati nelle condizioni di cui al comma 1 possono effettuare la
presentazione delle liste dalle ore otto alle ore venti del primo
giorno non festivo successivo a quello di entrata in vigore del
presente decreto.
Art. 2
Norma di coordinamento del procedimento elettorale
1. Limitatamente alle consultazioni per il rinnovo degli organi
delle Regioni a statuto ordinario fissate per il 28 e 29 marzo 2010,
l'affissione del manifesto recante le liste e le candidature ammesse
deve avvenire, a cura dei sindaci, non oltre il sesto giorno
antecedente la data della votazione.
Art. 3
Entratra in vigore
1. Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e
sara' presentato alle Camere per la conversione in legge.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara' inserito
nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica
italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo
osservare.
Dato a Roma, addi' 5 marzo 2010
NAPOLITANO
Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Maroni, Ministro dell'interno
Visto, il Guardasigilli: Alfano