di Luca Telese
30 giugno 2011
È nato un porcellino confederale, anzi, un sindacal-porcellum. Ed è vero che il porcellum non è solo una legge elettorale, ma un sistema di pensiero: un cancro che si è impossessato dell’Italia, una ideologia che seduce le classi dirigenti di destra e sinistra nei tempi di crisi, una scorciatoia per eliminare quel fastidioso problema chiamato democrazia.
È in arrivo la bufera delle Finanziarie tagliatutto? Va deciso se sottoscrivere o meno accordi infami? Il governo ti punta la pistola alla tempia? La risposta dei dinosauri del sindacalismo corporativo e para-aziendale è semplice (e a suo modo persino geniale): inventiamoci un trucchetto per cui, se siamo d’accordo tra di noi, la gente non possa più votare contro di noi. Facciamo un accordicchio per cui, se si mette insieme il 50% dei dirigenti dei sindacati su un contratto, poi si impedisce per legge ai lavoratori di esprimersi per dire cosa pensino di quell’accordo. Incredibile ma vero, è questo il meraviglioso patto firmato fra Confindustria Cgil-Cisl e Uil. Malgrado molti giornali ne occultino il senso, il compromesso che in queste ore è definito “una rivoluzione” è tutto qui.
Anzi, c’è di peggio. Una volta che i sindacati non più sottoposti a nessuna verifica hanno firmato un accordo contro il tuo volere, tu – il lavoratore – non puoi più scioperare. Per definire questo pastrocchio si sono inventati un bellissimo eufemismo: “Clausola di tregua”. Esempio: la tua impresa propone un contratto osceno, ti chiedono di lavorare tutti i giorni, anche se sei malato, pena la decurtazione del salario (non è fantascienza, in alcuni accordi è già così). Tu sei contrario. il 51% della burocrazia sindacale invece è favorevole, e ti spiega: è il miglior contratto possibile. Sanno che la devi mandare giù perché il sindacal-porcellum gli garantisce che non ci saranno consultazioni. Però nella tua azienda la situazione precipita, aumentano gli infortuni. Immaginate che gli stessi iscritti dei sindacati che hanno firmato l’accordo, non avendo altri strumenti, debbano scioperare perché le condizioni di lavoro si fanno insostenibili. A questo punto l’imprenditore risolve il problema dei porcellini confederali provando a licenziare chi ha scioperato (ha violato la “clausola di tregua”, no?).
Che sindacati ormai tesi al fiancheggiamento stabile del governo reputino questa soluzione non solo sostenibile, ma persino auspicabile, non stupisce. Ma la domanda è: che diavolo ci guadagna Susanna Camusso? L’idea che la segretaria della Cgil non solo abbia voluto, ma addirittura cercato l’accordo è tanto preoccupante quanto vera. Una ratio però c’è. La Marcegaglia sogna di offrire questo patto a Marchionne per recuperare lo scisma a destra della Fiat; la segretaria della Cgil per domare lo scisma a sinistra della Fiom. Con un anacronismo stupefacente nei giorni in cui la vittoria referendaria esalta la democrazia diretta come l’arma in più della sinistra sulla destra. Partita con l’idea di tornare protagonista grazie al porcellum, con il No della Fiom la Camusso rischia di perdersi per strada due cose: o i suoi iscritti, o la più forte delle sue organizzazioni. Quella, cioè, che proprio sul terreno dei referendum alla Fiat ha dimostrato di avere più consensi delle sue tessere.
Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2011
È in arrivo la bufera delle Finanziarie tagliatutto? Va deciso se sottoscrivere o meno accordi infami? Il governo ti punta la pistola alla tempia? La risposta dei dinosauri del sindacalismo corporativo e para-aziendale è semplice (e a suo modo persino geniale): inventiamoci un trucchetto per cui, se siamo d’accordo tra di noi, la gente non possa più votare contro di noi. Facciamo un accordicchio per cui, se si mette insieme il 50% dei dirigenti dei sindacati su un contratto, poi si impedisce per legge ai lavoratori di esprimersi per dire cosa pensino di quell’accordo. Incredibile ma vero, è questo il meraviglioso patto firmato fra Confindustria Cgil-Cisl e Uil. Malgrado molti giornali ne occultino il senso, il compromesso che in queste ore è definito “una rivoluzione” è tutto qui.
Anzi, c’è di peggio. Una volta che i sindacati non più sottoposti a nessuna verifica hanno firmato un accordo contro il tuo volere, tu – il lavoratore – non puoi più scioperare. Per definire questo pastrocchio si sono inventati un bellissimo eufemismo: “Clausola di tregua”. Esempio: la tua impresa propone un contratto osceno, ti chiedono di lavorare tutti i giorni, anche se sei malato, pena la decurtazione del salario (non è fantascienza, in alcuni accordi è già così). Tu sei contrario. il 51% della burocrazia sindacale invece è favorevole, e ti spiega: è il miglior contratto possibile. Sanno che la devi mandare giù perché il sindacal-porcellum gli garantisce che non ci saranno consultazioni. Però nella tua azienda la situazione precipita, aumentano gli infortuni. Immaginate che gli stessi iscritti dei sindacati che hanno firmato l’accordo, non avendo altri strumenti, debbano scioperare perché le condizioni di lavoro si fanno insostenibili. A questo punto l’imprenditore risolve il problema dei porcellini confederali provando a licenziare chi ha scioperato (ha violato la “clausola di tregua”, no?).
Che sindacati ormai tesi al fiancheggiamento stabile del governo reputino questa soluzione non solo sostenibile, ma persino auspicabile, non stupisce. Ma la domanda è: che diavolo ci guadagna Susanna Camusso? L’idea che la segretaria della Cgil non solo abbia voluto, ma addirittura cercato l’accordo è tanto preoccupante quanto vera. Una ratio però c’è. La Marcegaglia sogna di offrire questo patto a Marchionne per recuperare lo scisma a destra della Fiat; la segretaria della Cgil per domare lo scisma a sinistra della Fiom. Con un anacronismo stupefacente nei giorni in cui la vittoria referendaria esalta la democrazia diretta come l’arma in più della sinistra sulla destra. Partita con l’idea di tornare protagonista grazie al porcellum, con il No della Fiom la Camusso rischia di perdersi per strada due cose: o i suoi iscritti, o la più forte delle sue organizzazioni. Quella, cioè, che proprio sul terreno dei referendum alla Fiat ha dimostrato di avere più consensi delle sue tessere.
Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2011
Islanda, un paese che vuole punire i banchieri responsabili della crisi
di Jóhanna Sigurðardóttir
Dal 2008 la gran maggioranza della popolazione occidentale sogna di dire “no” alle banche, ma nessuno ha osato farlo. Nessuno eccetto gli islandesi, che hanno fatto una rivoluzione pacifica che non solo è riuscita a rovesciare un governo e abbozzare una nuova costituzione, ma cerca anche di incarcerare i responsabili della débacle economica del paese.
La scorsa settimana a Londra e Reykjavik sono state arrestate 9 persone per la loro presunta responsabilità nel crollo finanziario dell’Islanda del 2008, una crisi profonda che si è sviluppata in una reazione pubblica senza precedenti che sta cambiando la direzione del paese.
È stata una rivoluzione senz’armi in Islanda, paese che ospita la più antica democrazia al mondo (dal 930), e i cui cittadini sono riusciti a effettuare il cambiamento solo facendo dimostrazioni e sbattendo pentole e tegami. Perché gli altri paesi d’Occidente non ne hanno neppur sentito parlare?
La pressione dei cittadini islandesi è riuscita non solo a far cadere un governo, ma anche a iniziare la stesura di una nuova costituzione (in corso), e sta cercando di incarcerare i banchieri responsabili della crisi finanziaria del paese. Come dice il proverbio, chiedendo le cose con garbo, è molto più facile ottenerle.
Questo tranquillo processo rivoluzionario ha le sue origini nel 2008 quando il governo islandese decise di nazionalizzare le tre maggiori banche, Landsbanki, Kaupthing e Glitnir, i cui clienti erano principalmente britannici, e nord- e sud-americani.
Dopo la presa in carico da parte statale, la moneta ufficiale (krona) precipitò e la borsa valori sospese l’ attività dopo un crollo del 76%. L’Islanda stava andando in bancarotta e per salvare la situazione, il Fondo Monetario Internazionale iniettò 2.100 milioni di dollari USA e i paesi Nordici contribuirono con altri 2.500 milioni.
Grandi piccole vittorie di gente comune
Mentre le banche e le autorità locali ed estere stavano disperatamente cercando soluzioni economiche, gli islandesi si sono riversati in strada e le loro persistenti dimostrazioni quotidiane davanti al parlamento a Reykjavik hanno provocato le dimissioni del primo ministro conservatore Geir H. Haarde e del suo intero gabinetto.
I cittadini esigevano inoltre di convocare elezioni anticipate, e ci sono riusciti: in aprile è stato eletto un governo di coalizione formato dall’Alleanza Social-democratica e dal Movimento Verde di Sinistra, capeggiato dalla nuova prima ministra Jóhanna Sigurðardóttir.
Per tutto il 2009 l’economia islandese continuò a essere in situazione precaria (alla fine dell’anno il PIL era calato del 7%) ma ciononostante il parlamento propose di rifondere il debito alla Gran Bretagna e ai Paesi Bassi con un esborso di 3.500 milioni di euro, somma da pagarsi ogni mese da parte delle famiglie islandesi per 15 anni all’interesse del 5.5%.
La decisione riaccese la rabbia negli islandesi, che tornarono in strada esigendo che, almeno, tale scelta fosse sottoposta a referendum. Altra piccola vittoria per i dimostranti: nel marzo 2010 si tenne appunto tale consultazione elettorale e uno schiacciante 93% della popolazione rifiutò di rifondere il debito, almeno a quelle condizioni.
Ciò costrinse i creditori a ripensare l’operazione migliorandola con l’offerta di un tasso del 3% protratto per 37 anni. Ma anche questo non bastava. L’attuale presidente, al vedere il parlamento approvare l’accordo con un margine esiguo, ha deciso il mese scorso di non ratificarlo e di chiamare il popolo islandese alle urne per un referendum in cui avrà l’ultima parola.
I banchieri scappano per la paura
Tornando alla situazione tesa del 2010, quando gli islandesi si rifiutavano di pagare un debito contratto da squali finanziari senza consultazione, il governo di coalizione aveva promosso un’indagine per stabilire le responsabilità legali della fatale crisi economica arrestando già parecchi banchieri e alti dirigenti strettamente collegati alle operazioni arrischiate.
L’Interpol frattanto aveva emesso mandato di cattura internazionale contro Sigurdur Einarsson, ex-presidente di una delle banche coinvolte. Questa situazione ha spaventato banchieri e dirigenti inducendoli a lasciare il paese in massa.
In questo contesto di crisi, si è eletta un’assemblea per redigere una nuova costituzione che rifletta le lezioni apprese nel frattempo sostituendo quella attuale, ispirata alla costituzione danese.
Per far ciò, anziché chiamare esperti e politici, gli islandesi hanno deciso di rivolgersi direttamente alla gente, che dopo tutto detiene il potere sovrano sulla legge. Più di 500 islandesi si sono presentati come candidati a partecipare a tale esercizio di democrazia diretta e a scrivere una nuova costituzione. Ne sono stati eletti 25, senza affiliazioni partitiche, compresi avvocati, studenti, giornalisti, agricoltori e sindacalisti.
Fra l’altro, questa costituzione richiederà come nessun’altra la protezione della libertà d’informazione e d’ espressione nella cosiddetta Iniziativa per i Media Moderni Islandesi, in un progetto di legge che mira a rendere il paese un porto sicuro per il giornalismo d’indagine e per la libertà d’informazione, dove si proteggano fonti, giornalisti e provider d’Internet che ospitino reportage di notizie.
La gente, per una volta, deciderà il futuro del paese mentre banchieri e politici assistono alla trasformazione di una nazione dai margini.
Fonte: www.elconfidencial.com
TRANSCEND Media Service.
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
Titolo originale: Iceland, a Country That Wants to Punish the Bankers Responsible for the Crisis http://www.transcend.org/tms/2011/04/iceland-a-country-that-wants-to-punish-the-bankers-responsible-for-the-crisis/