La vita sessuale di un anziano libertino con pretese da Ganimede dovrebbe essere, almeno secondo i criteri della privacy, una faccenda che riguarda solo lui e se mai la sua più ristretta cerchia di relazioni. Anche quando si tratta di un uomo pubblico, generalmente, nella tradizione occidentale, riserbo, discrezione, ipocrisia proteggono questo tipo di attività che l’opinione pubblica non vede o trova opportuno fingere di non vedere.
Anche nel caso di Berlusconi, nei momenti più caldi del suo sexgate alcuni dei suoi difensori hanno invocato il suo diritto alla privacy. Diritto che personalmente avrei rispettato ben volentieri, essendo il tema in questione un oggetto di riflessione piuttosto deprimente. Ma via via che la storia è andata avanti, mi sono resa conto che non si trattava di vicende private, bensì di una questione pubblica. Che mi riguardava come cittadina e che mi interrogava come antropologa culturale.
Innanzi tutto sono stati e sono i protagonisti di questa storia a renderla di pubblico dominio. Il signor Berlusconi manifesta regolarmente in contesti pubblici nazionali e internazionali, il suo interesse di ordine sessuale nei confronti delle donne, presenti e assenti, e nei medesimi contesti si vanta dei propri successi nel campo o esterna le proprie intenzioni immediatamente operative. Non bastando questa pubblicizzazione ad opera del protagonista, qualche anno fa la sua allora legittima moglie ha pubblicamente definito patologico il suo comportamento in materia. Tutti, credo, ci ricordiamo la vicenda; che però, pur essendo stata resa di pubblico dominio, ha avuto conseguenze solo private. Come antropologa sono abituata a ragionare comparativamente, sia pure per assurdo. Dunque non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo nella sfera pubblica se una delle donne premier in carica in Europa fosse stata pubblicamente indicata dal proprio marito come una ninfomane.
C’è una seconda dimensione pubblica, più volte denunciata, la dimensione che tocca il problema della legalità. Innanzi tutto si vorrebbe disporre di un quadro preciso di chi paga i costi dell’ intrattenimento sessuale del Presidente del Consiglio. Non si tratta solo dei possibili impieghi privati di mezzi di trasporto e di risorse varie che sono in dotazione della Presidenza del Consiglio per i compiti d’ufficio e non per lo svago privato del Presidente. C’è ben di più. C’è almeno il sospetto, se non le prove, di un uso che chiamerò munifico delle cariche pubbliche, nella più tradizionale logica del dono che, come tutti i padri dell’antropologia ci hanno insegnato, non è mai disinteressato, ma sempre basato sulla reciprocità. Io ti do una cosa a te perché tu mi hai dato una cosa a me…..Può darsi che questo mio sia il più bieco dei sospetti e che nessuna carica né di nomina dall’alto né elettiva sia stata mai assegnata se non sulla base della stima politica e personale. Sta di fatto che il sospetto circola e produce conseguenze di cui parlerò più avanti. A proposito di donne, ci sono altri comportamenti e esternazioni di Silvio Berlusconi che vorrei ricordare sotto la rubrica legalità. I continui commenti sull’aspetto fisico e sull’avvenenza, le richieste ad alta voce di numero di telefono, le allusioni più o meno esplicite alle proprie intenzioni o desideri, gli inviti agli altri uomini presenti a fare come lui, comportamenti che si ripetono ogni volta che il premier nota nel pubblico delle sue uscite pubbliche ragazze o donne che giudica desiderabili, sono vere e proprie molestie, profondamente lesive della dignità delle malcapitate, anche ove non fossero pratiche perseguibili a norma di legge. Per altro, in alcune occasioni S.B. ha fatto di più in materia di legalità. Ne citerò un paio. Per esempio, in visita in Albania, celebrando l’amicizia e la collaborazione tra i due paesi, ha invitato il Capo di Stato albanese a non inviare più in Italia i barconi carichi di migranti, salvo quelli carichi di belle ragazze, che sono sempre gradite. Ora studiosi, operatori sociali e indagini giudiziarie hanno messo in chiaro come viene procurata la ‘merce’ così gradita caricata su quei barconi; e a livello di organismi internazionali si parla di tratta e di nuova schiavitù. Non è che per caso l’esternazione di Silvio Berlusconi configura gli estremi dell’apologia di reato? Forse ai sensi della legge, no. Non ho difficoltà a riconoscere che ai sensi del mio comune sentire, sì. E ancora. Per una volta non diamo retta a quel grande esperto che è stato l’onorevole Andreotti e pensiamo bene, non male. A costo di non indovinarci. E chiediamoci: se c’era l’opportunità di ascoltare lezioni su un testo comunque fondamentale per la storia dell’umanità, quale è il Corano; se queste lezioni erano tenute da un interprete a suo modo autorevole come Muhammar Gheddafi; se addirittura era previsto un compenso per presenziare a queste lezioni; l’aver offerto questa singolare occasione retribuita di arricchire la propria visione del mondo in senso multiculturale, quasi esclusivamente a donne giovanissime e di gradevole aspetto, non configura una violazione della legge sulle pari opportunità? E i maschi e le donne anziane desiderosi di conoscere meglio l’Islam, perché sono stati esclusi? Se poi è il caso di pensare un po’male e di prendere in considerazione l’ipotesi che si trattasse di lezioni un po’ particolari…bene, lo zelante avvocato Ghedini ci informò a suo tempo che l’utilizzatore finale non commette reato: ma gli intermediari? E chi erano gli intermediari nella fattispecie? Né penso che si possa invocare il rispetto della privacy per una visita che non sarà stata formalmente di stato, ma per la quale sono state comunque mobilitate le forze dell’ordine e parte dell’esercito della Repubblica italiana.
Oltre all’esibizionismo del protagonista e alle possibili violazioni della legge, c’è una terza dimensione pubblica della questione, a mio avviso la più sostanziosa e preoccupante.
Provo a fissarne alcuni punti.
I comportamenti di Silvio Berlusconi in materia di donne e di sesso non sono estemporanei e incongruenti. Sono stati e sono costanti e coerenti, il che dimostra che non nascono casualmente da circostanze e occasioni, ma si radicano in una sua solida concezione delle donne e del loro posto nel mondo e più in generale in una sua solida visione del mondo. In una parola si radicano nella sua cultura.
Questa cultura non è solo sua, ma possiamo ipotizzare che sia largamente condivisa da una platea che, mi sembra, è ben più vasta del suo elettorato e che comprende sia uomini che donne. Naturalmente questa mia è una valutazione induttiva, se volete un’ipotesi. E’un fatto però che il dissenso a Berlusconi si è coagulato e organizzato su temi come la legalità, la difesa della Costituzione e delle istituzioni repubblicane, la tutela della libertà di stampa, più recentemente, sul lavoro e sull’economia e ancora sulla scuola, università e ricerca, sull’immigrazione; ma non c’è stato e non c’è un movimento d’opinione né tanto meno un movimento delle donne che rivendichi il diritto delle donne italiane a non essere umiliate e offese, a essere rispettate a livello di immagine e a livello sostanziale, di esercizio concreto dei diritti di cittadinanza. Questa posizione, per cui il problema del rapporto tra Berlusconi e le donne si riduce al suo comportamento cafone nei confronti dell’onorevole Rosi Bindi o alle sue gaffes internazionali mentre ben più serie e più gravi sono le ragioni vere del dissenso nei suoi confronti, questa posizione è piuttosto diffusa, se pur non apertamente conclamata, anche tra i critici del premier. Su questo terreno della scontata ‘secondarietà’ sul piano politico e sociale di ciò che riguarda le donne, la cultura di Berlusconi non è diversa dalla cultura della maggioranza degli italiani.
Cercherò di motivare questa mia asserzione, ma prima vorrei sottolineare un terzo punto. La concezione del sesso e delle donne che orienta i comportamenti di Silvio Berlusconi – e degli italiani, maschi e femmine, che a lui consapevolmente o inconsapevolmente assomigliano,- non è il vecchio maschilismo. Come tutte le forme di cultura, anche il maschilismo – e l’autopercezione femminile in termini subalterni che ad esso è complementare – sono istituti culturali dinamici, che cambiano sia adeguandosi ai cambiamenti sociali complessivi sia essendone al tempo stesso artefici, anche se non esclusivi.
Cerchiamo dunque di analizzare come Berlusconi percepisce, definisce e valuta le donne e i loro rapporti con gli uomini, nell’ipotesi che comunque la sua, non sia una posizione retriva destinata a sparire, e non sia una posizione individuale, ma una posizione congruente con i tempi in cui egli vive, con i tempi della globalizzazione. Partiamo non da una delle innumerevoli esternazioni che egli considera ‘galanti’, ma da un consiglio che egli ha ‘paternamente’ impartito a una giovane donna. Quest’ultima gli esponeva le difficili per non dire drammatiche condizioni e prospettive di vita che ha di fronte una persona giovane, in particolare una giovane donna che ottiene solo lavori precari e malpagati; si sentì rispondere, lo ricordiamo tutti, che per lei il problema non si poneva: essendo giovane e attraente, doveva darsi da fare per sposare il figlio di un miliardario, magari proprio il figlio suo, del premier, ah no, peccato, è già sposato. Umiliata e offesa da un uomo che le ha detto che come donna non ha diritto a un lavoro che le garantisca indipendenza, autonomia, dignità; e le ha consigliato un matrimonio che già Bertrand Russel e prima di lui John Stuart Mill consideravano una forma legalizzata di prostituzione. Con la differenza che mentre per questi due autori si trattava di una soluzione deprecabile, per Berlusconi si tratta di una soluzione auspicabile. Suppongo che fosse in buona fede, che non si trattasse di una battuta, ma di un suo convincimento. Provo a spiegare perché. La sua visione del mondo è, non dimentichiamolo, una visione di mercato: per lui non solo tutto ciò che vi è nel mondo può essere trasformato in merce, ma qualsiasi cosa vi sia nel mondo, essa acquista valore solo e solo quando diventa merce, entra nel mercato. Per Berlusconi il prezzo di mercato è la misura del valore. L’unica misura del valore. Dunque non vi è nulla di immorale né di illogico nel fatto che una donna tratti il suo corpo come una merce e lo venda cercando di spuntare il prezzo più alto che può ottenere. In questo senso, secondo questa concezione del mondo e della vita, tutte le donne sono o dovrebbero essere prostitute, ma questo non rappresenta per Berlusconi né il segno di una inferiorità costitutiva, né il segno di una violenza sociale compiuta su di loro, e qui sta la novità. Al contrario, dal suo punto di vista, essere imprenditrici del proprio corpo, saperlo vendere e venderlo bene, è una scelta di autonomia e di libertà, nella quale, tra l’altro, le donne sono in vantaggio rispetto agli uomini, perché il sesso femminile dispone di un mercato ricco, consolidato, stabile, di largo e articolato consumo, dove solo proprio le più sfigate, le più brutte, le cozze, non trovano modo di esitare la propria merce. Le pari opportunità ci sono già, basta saperle sfruttare; anzi, le opportunità sono ben più per le donne che per gli uomini, i quali, poveretti, non possono contare su un mercato delle prestazioni sessuali maschili altrettanto consolidato. È dunque perfettamente logico e consequenziale che colei che meglio ha saputo compiere la transazione commerciale, ci sia stata imposta come rappresentativa, anzi emblematica nel campo delle pari opportunità. In questo commercio le donne possono impegnare non solo il proprio corpo, ma l’intera loro vita, per quello che vale, giacché non sembra che secondo Berlusconi esse debbano o possano fare molto altro. Stando a un’altro suo testo famoso esternato in occasione del caso Englaro, anche per fare la madre è largamente sufficiente un requisito fisico, uno solo, ancorché tipicamente femminile: un utero mestruante. Non ha rilevanza se tutto il resto, a cominciare dal cervello, è fuori uso.
Mi rendo conto che questa interpretazione del Berlusconi-pensiero può suonare troppo radicale, estremistica. Secondo me, che la considero però un’ipotesi di lavoro, essa permette di interpretare secondo un filo logico i fatti che abbiamo sott’occhio. I comportamenti del Presidente del Consiglio, il suo essere costante e inamovibile nella convinzione che le donne ‘ci stanno’ tutte e sempre; e dunque che non c’è nulla di male a rapportarsi a loro in termini di domanda e offerta; il suo evidente impaccio, che si risolve spesso in estrema villania, se deve mettersi in rapporto con donne che non può far rientrare in questo schema, dalla onorevole Bindi alla signora Merkel alla Presidentessa della Repubblica di Finlandia; il suo non meno evidente sconcerto quando una donna che secondo lui ha i requisiti per stare sul mercato, oppone resistenza ai suoi tentativi di accorciare fisicamente le distanze (un tempo, nel linguaggio di bar si sarebbe detto ‘i suoi tentativi di prendersi un passaggio’), come quando Emma Mercegaglia o Michelle Obhama si sottraggono ai suoi baci e abbracci. Nella logica di questa concezione si spiegano pure i suoi tratti cortesi, secondo alcune delle ragazze che lo hanno frequentato persino gradevoli: se la prostituta è una partner nel business e se rispetta le regole del mercato, non c’è ragione per disprezzarla; anzi, come si fa con un partner commerciale con il quale si è conclusa una transazione soddisfacente, ci si fa presenti con un regalino-ricordo. Se accettiamo l’ipotesi che questa sia nei suoi tratti essenziali la concezione che il nostro primo ministro ha delle donne e del loro posto nel mondo, dobbiamo però dargli atto che non è isolato, bensì perfettamente in linea con il suo tempo.
In una recente indagine dall’eloquente titolo di Nude e crudi. Maschile e femminile nell’Italia di oggi, (Roma, Donzelli 2009) Sandra Puccini ha fatto un’analisi illuminante dei processi attraverso i quali si è venuta definendo una popolazione di donne ‘nuove’, influenzate nella costruzione della loro percezione di sé e di sé nel mondo, non solo dai modelli di look individuale, ma dai modelli di vita e di relazioni umane che le trasmissioni televisive offrono, modelli non contraddetti ma anzi ribaditi e rafforzati da altri canali di comunicazione, dalla pubblicità alle riviste per le donne, dalla narrativa per adolescenti a quella porno, dalla cartellonistica alla moda. Si tratta di donne, giovani e anche meno giovani, convinte che la bellezza sia l’arma per accedere al potere e al danaro e che nel potere e nel danaro stia il senso della vita. Concezione che forse non è poi così nuova. Le novità stanno in un mutamento dei soggetti e dei ruoli. In passato era la famiglia, in particolare i genitori che inculcavano nelle ragazze l’idea che lo scopo della loro vita era ‘sistemarsi’ possibilmente con un matrimonio ‘rispettabile’ e che gestivano le strategie necessarie per l’operazione; adesso l’idea di puntare sulla bellezza per avere potere e denaro è proposta e imposta dall’intera società e soprattutto dalla comunicazione di massa; il matrimonio non è l’unica meta possibile, anzi si individuano ‘sistemazioni’ assai più desiderabili e non meno ‘rispettabili’ almeno secondo i criteri attuali della rispettabilità. Ma in questo campo la novità più rilevante e significativa è il passaggio delle decisioni strategiche e della loro gestione alle stesse giovani donne, mentre il ruolo dei genitori è ancora richiesto e preteso, ma è divenuto soltanto di supporto. Sono le ragazze stesse le imprenditrici del loro corpo, coloro che ne gestiscono il marketing, scelgono la quota di mercato in cui collocarlo, stabiliscono il prezzo a cui esitarlo. Come ho già detto non è solo Berlusconi a proporre con le sue pratiche questo percorso come un percorso di emancipazione; sono le ragazze stesse. Salvo poi imbattersi in una contraddizione irresolubile: se il loro corpo è merce, come ogni merce che si rispetti una volta acquistata essa è nella piena disponibilità dell’acquirente, mentre la venditrice perde ogni voce in capitolo. Un tempo questo percorso si chiamava alienazione. Ma forse la venditrice la scopre in fasi più avanzate del percorso stesso.
All’inizio il problema è un altro: avere quanta più bellezza possibile da mettere sul mercato.
Oggi le strategie di bellezza hanno trovato, proprio nel mercato, strumenti e possibilità di realizzazione inediti, quasi miracolosi. Oggi si può non solo valorizzare l’avvenenza che si possiede, ma costruirla ex-novo: sempre utili ma insufficienti acconciature, trucco, vestiti e accessori, oggi con diete, massaggi, palestra, danza, dizione, chirurgia plastica, impianti, trapianti e asportazioni varie, ogni fanciulla può arrivare assai vicina allo stereotipo di bellezza che il mercato richiede. O almeno pensa di poterci arrivare. Realizzata la bellezza, vi è il passo successivo, che Puccini sintetizza con tre infiniti: ”offrirsi, apparire, desiderare”. Prima di tutto desiderare di apparire. Gli strumenti per l’ esibizione che hanno sostituito la vecchia passeggiata sul corso e il salone da ballo, sono tanti: in primo luogo le fotografie e la loro diffusione, Face-book e le varie altre possibilità della rete, e poi i books di foto che agenti di vario tipo faranno circolare, i concorsi di bellezza, i cubi e i ‘troni’ dei locali notturni e, meta suprema, la comparsa come velina in TV. Per valutare quanto questo progetto di vita sia condiviso, abbiamo indicatori eterogenei e non tutti ugualmente affidabili; se la lettura di alcuni periodici cosiddetti di gossip può essere illuminante per capire l’orizzonte culturale delle pratiche di cui stiamo parlando, può essere anche utile ricordare che qualche anno fa la Regione Campania istituì un Master per veline che, nella indignata condanna di tutte le veterofemministe come me, registrò un gran successo tra le giovani. Utile può essere anche considerare il giro d’affari dei fabbricanti di bellezza, nell’impossibilità di conoscere il giro d’affari di altri e meno presentabili operatori del settore, di cui pure, nei momenti “alti” del sexgate, è stato possibile intravvedere la fisionomia.
Quali uomini sono il target a cui mirano queste ragazze? Ovviamente uomini che offrano una sistemazione rispettabile.
Anche qui, se vogliamo attenerci al caso del nostro Presidente del Consiglio, scopriamo che qualcosa è cambiato. Mi sembra che si possano leggere nei suoi comportamenti alcuni tratti di quello che mi azzardo a definire nuovo maschilismo, anzi nuovo machismo. Tradizionalmente, i maschi che vantavano con altri maschi la qualità dei propri comportamenti sessuali, facevano riferimento alla propria prestanza fisica, alla inesauribilità delle proprie risorse ormonali, alla eccezionale potenza delle proprie prestazioni. In qualche modo, per quanto tutte interne a una concezione fallocentrica e fallocratica dell’eros, pure a queste vanterie si poteva riconoscere una remotissima parentela con gli antichi riti di fecondità e con la tradizionale esaltazione della valentia dei maschi giovani come garanzia della sopravvivenza e della prosperità del gruppo. E infatti le vanterie erano per lo più di maschi giovani, perché solo nel caso di maschi giovani erano più o meno credibili. Gli anziani che godevano della compagnia di donne giovani, generalmente stendevano un velo di discrezione su questo punto, a meno che non parlassero con il proprio medico curante o altro assai intimo interlocutore. Silvio Berlusconi, no. Si vanta e si è pubblicamente vantato delle proprie eccezionali prestazioni, ma non nega né tace il ricorso a pillole miracolose e a quant’altro. Leggo anche in questo una conferma del suo sistema di valori: il fatto di non essere un amatore eccezionale non inficia il valore dell’uomo, se egli ha il denaro necessario per essere un amatore eccezionalmente e costosamente impasticcato. Ne consegue che il valore di un uomo sta nel danaro che ha, tutto e solo nel danaro che ha e nel potere che è collegato al denaro. Questo è l’uomo target.
Naturalmente, e per fortuna, noi italiani non siamo tutti così, ne le donne né gli uomini, né gli anziani, né i giovani. Però, se è così l’uomo più ricco d’Italia e uno dei più ricchi del mondo, che per giunta è anche politicamente il più potente del nostro paese e ha intorno un entourage di persone simili a lui, io credo che si pone un problema Vorrei ricordare il ruolo che ha la cultura delle classi dominanti nell’imprimere orientamenti e direzioni agli sviluppi culturali di tutto un popolo. Non recuperando solo il concetto gramsciano di egemonia, ma riproponendovi una formulazione di Marx ed Engel nell’Ideologia tedesca, un tempo citatissima ed ora dimenticata. Dice così: “Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio”. (Editori Riuniti, 1972, p.33-34)
So bene che il termine classe oggi fa legare i denti a molte persone, ma come donna sono abituata e voglio fare i conti con la force des choses. E la forza delle cose oggi in Italia dice che per una donna giovane posare per un calendario semipornografico e fare qualche esibizione più o meno svestita in TV, è la via per diventare ministro della repubblica; questo è fatto, un rapporto materiale dominante. Se invece una giovane donna si laurea ha il 30 % di probabilità di restare disoccupata; se trova un lavoro ha il 50% di probabilità che il lavoro sia a tempo determinato, pagato almeno in parte in nero e al di sotto delle competenze garantite dal suo titolo di studio; è meglio che si sposi clandestinamente, perché rischia il licenziamento e se per caso, non essendo stata licenziata, si azzarda a fare un bambino, stia pur tranquilla che, prima o poi, dovrà lasciare il lavoro perché in casa suo marito la aiuterà mediamente meno di qualsiasi altro marito europeo e fuori di casa un posto in un asilo nido comunale si renderà libero quando il suo bambino andrà ormai in terza elementare. (Istat Italia in cifre 2009).
Questi ultimi dati sono ben noti. Ma raramente nelle analisi sociali che conosco vengono fatti reagire con i dati che ho proposto nella prima parte di questo mio intervento.
Nel 1997 nel secondo volume del suo The Information Age, Manuel Castells poteva definire quello italiano “the most potent and innovative mass feminist movement in the whole of Europe during the 1970” (Balbo, Becalli, e osservaz. personali). Oggi, a trent’anni di distanza, , secondo osservatori italiani e stranieri siamo diventati il paese più maschilista d’Europa. (Caterina Soffici, Ma le donne no, 2010, Feltrinelli)
Cosa è successo? E’ tutto da capire. Certo, si può sempre ricorrere, per spiegare il tutto, agli effetti perversi del neocapitalismo, del neo liberismo, all’impero dei mass-media, alla globalizzazione.
Personalmente però credo che sia utile anche prendersi le proprie responsabilità . Provo a suggerire qualche spunto, a mo’ di provvisoria conclusione.
Prima di tutto suggerisco che le condizioni delle donne devono tornare a essere analizzate unitariamente, a 360°. Senza accorgercene, siamo riscivolate indietro nella vecchia impostazione, secondo la quale si studia il lavoro degli italiani e poi c’è il paragrafo sulle donne, si studia il precariato e poi c’è il paragrafo sulle donne, si studia l’istruzione e c’è il paragrafo sulle donne, si studiano le migrazioni e c’è il paragrafo sulle donne; si studia la salute e c’è il paragrafo sulle donne; e così via. Non rivendico la centralità delle donne, non sto facendo un discorso ideologico. Rivendico una corretta metodologia di ricerca sociale, perché frammentare una condizione esistenziale umana in tanti pezzettini e aggregarli ad insiemi eterogenei non ne facilita certo la comprensione.
Il secondo punto, che mi sembra di aver cominciato a intravvedere essendomi messa a lavorare sul primo, non è semplice. Si annuncia come un cambio di direzione, un vero e proprio détour per dirla con George Balandier. Il primo femminismo, soprattutto quello europeo, aveva l’ambizione e il progetto di cambiare un po’ il mondo, nella convinzione che renderlo un po’ più agevole per le donne, significasse renderlo migliore per tutti. Ma poi, e soprattutto per influenza del femminismo americano, il focus si è spostato: non abbiamo più voluto un mondo diverso, ma una diversa collocazione per noi donne nel mondo così com’è. Le possibilità che ci si sono aperte in questo caso sono di due tipi: o conquistare le posizioni tenute fin’ora dagli uomini, possibilmente le più appetibili; o costruirsi i piccoli e autoreferenziali beguinages dei femminismi di nicchia. A sostegno di entrambe queste opzioni e all’ombra protettiva del politically correct, sono state elaborate varie forme di pensiero debole: la teoria del genere, il pensiero della differenza, l’obbiettivo delle pari opportunità, la scelta delle riduzioni del danno a valle, anziché della eliminazione a monte dei fattori di ineguaglianza e ingiustizia. Il risultato di questa scelta è stato che siamo di nuovo agli indicatori di svantaggio sociale quasi tutti più alti mediamente per le donne che per gli uomini; mentre la sola via d’uscita che ci viene indicata è tornare a essere ‘come tu mi vuoi’, sia che per tu si debba intendere l’uomo più ricco d’Italia, sia che per tu si debba intendere, più astrattamente, il mercato.
Bisogna cambiare direzione, credo. Bisogna ricominciare a pensare e ad agire come se fosse possibile cambiare il mondo, come se fosse possibile produrre un mondo in cui le donne non siano umiliate e offese. E sfruttate.
E credo anche che per capire come si può fare sarebbe utile rimettersi a studiare gli uomini. Dal punto di vista delle donne.