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COMMENTO - Alberto Asor Rosa
Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è improntato a un
prorompente «ottimismo della volontà». Com'è noto, Antonio Gramsci
raccomandava che i due elementi della fatidica coppia - «pessimismo
dell'intelligenza» e «ottimismo della volontà» - procedessero sempre
insieme. Meno noti i motivi che secondo lui renderebbero raccomandabile,
anzi inevitabile, l'accoppiata: «Tutti i più ridicoli fantasticatori
che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e
definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter
spacciare le loro fanfaluche». D'altronde ogni collasso porta con sé
disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti,
che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltano a ogni
sciocchezza». Per cui, appunto: «Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo
della volontà». Riguarda in qualche modo la citazione gramsciana gli
estensori del suddetto «Manifesto»? No, assolutamente no: volevo
soltanto che il pensiero gramsciano fosse almeno una volta richiamato,
per intero). Mi predisporrei perciò a introdurre qualche elemento
pessimistico nel ragionamento del «Manifesto», cercando al tempo stesso
di guardarmi dallo spingermi troppo nella direzione opposta, cosa che,
ahimè, in casi del genere capita di frequente. Utilizzerò di volta in
volta argomenti concettuali ed esempi pratici: le mie esperienze degli
ultimi dieci anni me lo consentono (cosa che non a tutti i miei
interlocutori accade).
1. Politica. Un perno del «Manifesto»,
assolutamente condivisibile, è che «democrazia rappresentativa» e
«democrazia partecipata» dovrebbero integrarsi e ri-equilibrarsi
profondamente. L'idea, invece, che uno dei due versanti, quello della
«democrazia rappresentativa», rappresentato essenzialmente dal sistema
dei partiti, sia attualmente tutto da buttare e l'altro, quello della
«democrazia partecipativa», tutto da esaltare e valorizzare, è
completamente sbagliata, e fortemente autolesionistica. Ci sono realtà
istituzionali e politiche, con le quali è possibile/necessario mantenere
un livello alto di confronto, di scontro e comunque di serio rapporto; e
ci sono realtà di base totalmente catturate all'interno del sistema
dello sfruttamento e dell'utilitarismo individualistico. In alcune
Regioni d'Italia (molte, direi), se si facesse un referendum
sull'abusivismo vincerebbero gli abusivisti. La stessa cosa si potrebbe
dire del rapporto fra centro e periferia. In taluni casi, l'auspicato
decentramento del potere funziona alla grande; in certi altri
assolutamente no. Alcuni Comuni sono virtuosi; gli altri (la
maggioranza, io penso) no, anzi sono spesso i manutengoli degli
interessi privati più sporchi. In casi come questi, oltre che battersi
in ogni modo con la denuncia, bisogna ricorrere in un modo o nell'altro
alle istanze «superiori»: le Regioni, lo Stato.
L'idea che il quadro
sia omogeneo in tutte le sue componenti e su tutti i suoi versanti è
distruttiva. Attualmente il quadro è invece frastagliato, poliforme e
multicentrico. Al tempo stesso, tutto si tiene. L'idea giusta, appunto,
che la «democrazia partecipativa» spinga per una riforma profonda della
«democrazia rappresentativa» e del «sistema dei partiti» comporta che
nessuna opportunità, nessuna chance sia cammin facendo ignorata e
trascurata, e tutte invece siano volte all'unico obiettivo che meriti
oggi perseguire: una diversa nozione e pratica della politica.
Il
sistema - il sistema tutt'intero, intendo - si può riformare solo se si
salva. E si salva solo se viene coinvolto tutt'intero, dalla A alla Z,
per quanti sforzi questo comporti, e quanta pazienza e sobrietà
richieda. Occorre violentemente attirare l'attenzione sul presente così
com'è, se si vuole trasformarlo.
2. Principi, ideologia. È fuor
di dubbio che siano fortemente cambiati forme e attori del conflitto.
Mi chiedo però fino a che punto il gigantismo del sistema - la
globalizzazione, appunto - abbia tolto di mezzo il fondamentale
antagonismo fra capitale e lavoro: lo ha se mai anch'esso ingigantito, a
livello planetario. Di questo non c'è traccia nel «Manifesto»: si
direbbe che i protagonisti del conflitto siano, in questo quadro, attori
di una diversa separazione/contrapposizione sociale (e politica, e
culturale). Si lotta, infatti, per qualcosa di profondamente diverso
dagli obiettivi tradizionali: si lotta per i cosiddetti «beni comuni».
Dei «beni comuni» Stefano Rodotà, che ne è l'interprete al tempo stesso
più innovativo ed equilibrato, dà una definizione che io accolgo e
faccio mia. Essi «sono quelli funzionali all'esercizio di diritti
fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere
salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo,
proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle
generazioni future». E cioè: ci sono beni, esattamente definiti dal
punto di vista delle caratteristiche dominanti, delle possibili
fruizioni e delle possibili forme di governance, la cui «proprietà», per
così dire, è comune, cioè appartengono «a tutti e a nessuno». Detto
così, va benissimo: questi «beni comuni» rientrano perfettamente nel
quadro di un programma di «democrazia partecipativa», la quale, oltre a
valere per sé, preme sulla «democrazia rappresentativa» per mutarne
obiettivi e metodi ed eventualmente per ottenere un sistema di
governance giuridico-istituzionale, che sia rispettoso della natura
speciale di quel bene (mi riservo di porre a Rodotà una domanda, ma lo
farò più avanti).
Ma i «beni comuni» divengono nel «Manifesto» il
programma di massima del «nuovo soggetto politico». La cosa mi pare
abnorme. Non solo per il pericolo successivamente segnalato dallo stesso
Rodotà: «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si
include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una
sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la
capacità d'individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità
comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (il manifesto, 12
aprile). Ma soprattutto perché, se i «beni comuni» assurgono a orizzonte
ideologico e di valore del nuovo movimento, ci si dovrebbe chiedere più
trasparentemente (una delle richieste basilari di una vera «democrazia
partecipativa») non solo dove va ma anche da dove viene un movimento
così orientato.
La risposta sarebbe lunga e problematica: ma
qualcosa si può cominciare a dire. Uno dei punti di partenza possibili è
senza ombra di dubbio Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri: Comune
(titolo originale dell'opera, molto più significativo di quello della
tradizione italiana: Commonwealth), apparso nel 2009 (trad. ital. 2010),
che porta il sottotitolo anch'esso estremamente significativo di: Oltre
il privato e il pubblico. Lo chiamo in causa per almeno due motivi:
perché il «comune» negriano è, esplicitamente, il frutto del palese
rifiuto e superamento da parte dell'autore del vecchio operaismo e, più
specificamente ancora, della teoria marxiana del valore; e perché i
«beni comuni» sono obiettivi strategici logicamente comprensibili e
accettabili, solo nella prospettiva biopolitica di una «democrazia della
moltitudine», che veda anch'essa il superamento del conflitto di classe
di fronte ai bisogni del più indeterminato ma appunto perciò meno
obsoleto e più possente soggetto rivoluzionario: «Oggi potremmo dire:
"Sta sorgendo una razza multitudinaria"» (Moltitudine, Rizzoli, Milano,
2004, pp. 409).
Ogni volta, però, che ci si allontana dall'idea che
questa sia una società divisa in classi - ossia ci si allontana dalla
persuasione laica che esistono sfruttati e sfruttatori, percettori di un
enorme surplus di potere a danno di altri che ne hanno poco o punto, a
causa del meccanismo economico dominante (lo so, lo dico in maniera
troppo rozza e approssimativa, ma qui non posso fare altrimenti) - si
aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che
la radice della nozione di «bene comune» è teologico-cristiana. Ne
ragiona infatti con profondità niente di meno che Tommaso d'Aquino
(riprendendo in parte, come soventi gli capita, definizioni
aristoteliche): il quale, nella Summa Theologiae (I-II, 90, 3), scrive
(traduzione improvvisata, e forse zoppicante): «...Come l'uomo è parte
della casa, così la casa è parte della città; e la città è la comunità
perfetta, come si dice in Aristotele, Politica (Aristotele, infatti, lì
parla della "polis"). E perciò, siccome il bene del singolo uomo non è
l'ultimo fine, ma è ordinato in funzione del "bene comune" (ad commune
bonum); nello stesso modo, il bene di una casa è ordinato in funzione
del bene di una città, la quale è la comunità perfetta».
Tommaso è
un autore che i «benecomunisti» non amano citare (solo un piccolo cenno
polemico in U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011,
pp. 41). Nelle opere di Negri, ad esempio, non ce n'è traccia. Eppure è
di fondamentale importanza. Il ritorno al Medio Evo, di cui si parla a
proposito dei «benecomunisti», è tutt'altro che banale: significa la
riappropriazione, in funzione apparentemente anticapitalistica, di un
intero universo concettuale e ideale pre-capitalistico. Insomma: se la
società divisa in classi non fosse alla fin fine altro che una
«comunità», ovviamente non potrebbero esserci «beni comuni». I
cittadini, les citoyens, in lotta per due secoli e mezzo per contendere
all'avversario di classe ciò che a loro spetta, diventano «persone»,
prive di connotazione sociale (secondo un dettame che la teologia
cristiana farebbe volentieri proprio): «Unire le persone per bene»
intorno a un metodo è molto più agevole che farlo nel merito ed è
certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente
vecchi steccati...» (U. Mattei, il manifesto, 4 aprile). «Superare i
vecchi steccati» è ciò che cercano di fare proprio oggi tutte le forme
di «antipolitica».
Sorprende che molti dei firmatari del
«Manifesto», che sono stati o sono ancora o si dicono ancora marxisti,
non abbiano notato che in questo testo non viene mai nominato, nonché la
«classe», neanche il «popolo». La soggettività politica viene
trasferita a altre entità per ora poco chiare, autodefinentesti e
autordinantesi, quali che la lotta politica fosse il frutto selezionato,
alla fin fine, di alcuni gruppi intellettuali, che, come si diceva
scherzando una volta, «danno la linea». E naturalmente, insieme con
«classe» e con «popolo», spariscono le categorie di «destra» e di
«sinistra» (anch'esse mai nominate nel «Manifesto»). I «benecomunisti»
stanno più avanti, anche in questo caso, di queste obsolete distinzioni:
stanno là dove «le persone per bene» - operai, impiegati, funzionari,
banchieri, capitalisti, pensionati, sfruttatori, purché «per bene» -
decidono di stare tutte insieme per meglio governare il loro «comune»
destino.
Il riferimento a Tommaso d'Aquino non deve però far pensare
a una discussione e a un rinfacciamento puramente dottrinari,
destituiti di esiti pratici e politici immediati. La dottrina di Tommaso
cala infatti di peso in quella attuale, e perfettamente operante, della
Chiesa cattolica. Come si fa a non accorgersi di un dato così
clamoroso? La filologia in certi casi conta più della logica (ma è anche
più rara, molto più rara). Nel Catechismo della Chiesa cattolica
(Edizioni Piemme, Città del Vaticano, 1993), la dottrina del «bene
comune» occupa il posto centrale nella conformazione dell'agire sociale e
pastorale della Chiesa nel mondo (III, II: La comunità umana; 2. La
partecipazione alla vita sociale; II. Il bene comune). Il «bene comune»,
secondo l'ammonimento di Tommaso qui puntualmente richiamato («Non
vivete isolati, ripiegandovi, in voi stessi ... invece riunitevi
insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti (bonum commune), è
«l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai
gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più
pienamente e speditamente» (pp. 361). Non si potrebbe dir meglio in un
contesto nel quale il conseguimento del «bene comune» rappresenta il
nuovo Sovrano. Ma certo stupisce che il «messaggio» che esce dal
progetto di un «nuovo soggetto politico» sia così vicino a quello uscito
dal Consiglio Vaticano II (cui il Catechismo fondamentalmente attinge).
3. Comportamenti e passioni. Potremmo ancora citare a lungo dal
Catechismo, e anche da molti altri e diversi autori del medesimo
orientamento. Siccome le analogie sono indubbiamente clamorose, sarebbe
interessante ascoltare una spiegazione del perché, sopprimendo la
categoria analitica e pratica del conflitto di classe, tornano a
manifestarsi prepotentemente e a dilagare visioni del mondo in cui
l'ultraterrenità, e il discorso teologico-scolastico, tornano a farsi
dominanti. In attesa che una qualche risposta venga (ma se uno usa gli
stessi termini e concetti di un altro, qualcosa di «comune»
dev'esserci), osservo che il lungo capitolo che conclude il «Manifesto»
sui «comportamenti» «e sulle passioni» non fa che accentuare, ai limiti
del disagio, le reazioni che si provano di fronte alla teoria fin qui
esposta dei «beni comuni». Un universo di buoni sentimenti - «la
compassione e la gioia, l'amore e la speranza, la generosità e il
rispetto degli altri», «il sentimento dell'empatia» - dovrebbe prendere
il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti -
quello delle «passioni negative, l'invidia, l'odio, l'orgoglio,
l'ira... la rivalità, la voglia di sopraffare...». Allora, nel nuovo
universo, « a predominare sarebbero le virtù sociali delle mitezza e
della fermezza...». Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o
aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di
affrontare l'incredibile violenza dell'attuale sistema di sfruttamento
globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare
indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte (naturalmente,
anche Negri impernia la sua ideologia multitudinaria sull'«amore»: se
no, che biopolitica sarebbe? Anche il male, tuttavia, secondo lui, può
impadronirsi dell'amore. Il conflitto sarebbe allora fra un amore malato
e «cattivo» e un amore buono, autentico. Interessante).
4.
«Beni comuni» e «Pubblico». Torno alla domanda che qualche colonna fa
avrei voluto rivolgere a Rodotà. Ho citato la sua definizione di «beni
comuni», che ora per chiarezza del lettore ritrascrivo: «(Essi) sono
quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali, e al libero
sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli
alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela
nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». La domanda è:
non potrebbe esser questa anche una buona definizione di «pubblico?» E
cioè: lo Stato democratico-capitalistico moderno, nella sua complessa
strutturazione, è il frutto di spinte contrastanti nelle quali la
funzione e l'indirizzo loro impresso da esigenze, interessi e modalità
di vita propri delle classi cosiddette subalterne, hanno lasciato un
segno consistente. Il «pubblico» oggi non s'identifica certo con lo
Stato Leviatano; se mai si potrebbe dire che, nei casi migliori, lo
Stato è stato (e in parte ancora è) un'articolazione del «pubblico» - il
«pubblico», che tra le proprie funzioni più specifiche e prestigiose ha
quella di proiettare la tutela dei beni d'interesse comune «nel mondo
più lontano, abitato dalle generazioni future». Sanità pubblica, Scuola
pubblica, Università, ricerca, sistema delle pensioni, diritti del
lavoro, solidarietà sociale, tutela del territorio, sistema della
giustizia «imparziale» e nei limiti delle umane abitudini) «uguale per
tutti», sono i principali requisiti di un sistema imperniato sul
«pubblico» (e non sul «privato»). È la materia, del resto,
chiarissimamente descritta e regolata negli artt. 2, 3 e 4 della nostra
Costituzione (che forse andrebbero tenuti più presenti).
Se le cose
stanno così, non sarebbe meglio, invece che procedere negrianamente
«oltre il privato e il pubblico», considerare la battaglia per i «beni
comuni» un allargamento e un rafforzamento di quella per il «pubblico»,
in una visione più dinamica e articolata di quella praticata
presentemente?
La cosa è tutt'altro che facile, ma è decisiva. Quel
che io vedo è che il «pubblico», costruito prevalentemente con le lotte
di generazioni e generazioni di cittadini italiani ed europei, è
minacciato, frantumato, reso subalterno da una colossale invasione del
«privato». Il governo Monti in Italia, politicamente, ideologicamente ed
economicamente, ne rappresenta un esempio di prim'ordine. Allora, se le
cose stanno così, all'ordine del giorno oggi non c'è la reclusione
insieme di «pubblico» e «privato» nel medesimo cassetto di vecchi arnesi
ormai inutili: c'è una gigantesca battaglia per la difesa del
«pubblico», che, invece di fermarsi all'esistente, eventualmente si
rafforzi e s'allarghi con l'individuazione e la conquista di nuovi
territori. Per questo i partiti sono ancora necessari, in Italia e in
Europa.
Quel che è accaduto recentemente in Francia dimostra
eloquentemente che la forza di organizzazioni centralizzate e ben
dirette è essenziale alla causa del mutamento. Se, come si spera, il
candidato socialista riuscirà a prevalere, l'intero assetto europeo dei
prossimi anni ne risulterà influenzato.
In Italia stiamo molto peggio, lo so, ma le coordinate del lavoro da fare sono molto simili.
5. Il «metodo» viene prima del «merito?» Il metodo adottato dai
promotori del «Manifesto», come già s'è detto, appare sul manifesto il
29 marzo. Dopo le prime battute, assai interessanti, di dibattito, due
degli organizzatori (Alberto Lucarelli, Ugo Mattei) dichiarano aperta la
consultazione per la scelta del nome del «nuovo soggetto politico» (il
manifesto, 17 aprile), dando per scontato che a Firenze il prossimo 28
aprile il «nuovo soggetto politico» si faccia (ignorando del tutto
riserve e precisazioni come quelle emerse negli interventi già citati di
Stefano Rodotà e in quello di Piero Bevilacqua (13 aprile). Un
dibattito è serio se serve a determinare le conclusioni. Se le
conclusioni sono già date, il dibattito non è serio.
Io spero che a
Firenze i promotori ci ripensino: che non nasca un «nuovo soggetto
politico» su basi così fragili. Ci sono cento, mille, diecimila cose da
fare per un'organizzazione che pratichi seriamente il verbo autentico
della Rete: ossia, molti soggetti collocati liberamente all'interno di
un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più)
dell'insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per
una Rete di Reti: ma di questo eventualmente parleremo un'altra volta).
Ma l'obiettivo fondamentale e strategico è riconquistare il «pubblico»,
sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie
e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le
dimensioni originarie (ad esempio, io provo un grande interesse per la
riflessione di Guido Viale sulla «riconversione ecologica
dell'economia»: ma anche in questo caso mi chiedo come affrontare una
gigantesca problematica del genere limitandosi a praticarla dal basso, e
su segmenti limitati di territorio).
Su questo percorso
incontreremo molti ostacoli e molti diversi interlocutori: e, se sarà
necessario, dovremo usare anche molta astuta e consapevolissima
cattiveria.
Il
GOLPE silenzioso. PDL, PD E "TERZO POLO" (UDC, FLI, API) HANNO
APPROVATO QUESTA PORCATA CHE CI CONSEGNA, COME VEDREMO SOTTO, NELLE MANI
DELL' ESM (Il MES, "Meccanismo Europeo di Stabilità) un FALSO "fondo
salvastati" che in realtà è un organo sovranazionale che agisce al di
sopra della legge e di ogni controllo democratico, che non farà altro
che impoverire ulteriormente l'Italia (e gli altri stati periferici
dell'Europa)
http://www.nocensura.com/2012/04/e-ufficiale-abbiamo-perso-la-sovranita.html