Il Fatto quotidiano
12 dicembre 2013 -
Marco Travaglio

Da
oltre un anno il pm antimafia Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel
processo sulla trattativa Stato-mafia, è minacciato di morte proprio
per quel processo e per le indagini collegate tuttora in corso. Nel
settembre 2012 gli giunse un dossier anonimo di 12 cartelle con lo
stemma della Repubblica italiana, di chiara fonte
investigativo-istituzionale: lo avvertiva che insieme ai colleghi
impegnati sul caso trattativa era spiato da “uomini delle istituzioni”
che poi riversano le informazioni a una “centrale romana”, che si stava
inoltrando su terreni pericolosi, che doveva fidarsi solo di Ingroia,
che una serie di politici della Prima Repubblica coinvolti nella
trattativa non erano stati ancora toccati dalle indagini e che l’agenda
rossa di Borsellino era stata trafugata da un carabiniere. Seguirono
alcune lettere anonime con minacce mafiose e annunci di un imminente
attentato avallato da Totò Riina dal carcere. Il 26 marzo, un mese dopo
le elezioni, giunse la famosa doppia lettera scritta al computer da un
anonimo sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che annunciava
l’eliminazione di Di Matteo “in alternativa a quella di Massimo
Ciancimino”, “chiesta dagli amici romani di Matteo” (il boss Messina
Denaro) con l’“assenso di Matteo” (sempre il capomafia di Trapani),
“perché questo paese non può finire governato da comici e froci”. Anche
quell’anonimo era uomo di apparati istituzionali, conoscendo a menadito
gli spostamenti di Di Matteo e di un altro pm palermitano in servizio a
Caltanissetta (forse Nico Gozzo) e i punti deboli dell’apparato di
sorveglianza. Per tutta l’estate vari confidenti delle forze dell’ordine
hanno confermato progetti di attentato contro Di Matteo con 15 kg di
tritolo già arrivati a Palermo, mentre un superesperto di esplosivi
illustrava anonimamente i sistemi per neutralizzare il “bomb jammer”, il
robot che da mesi si pensa di assegnare alla scorta del pm per il
disinnesco preventivo di eventuali ordigni. A fine giugno Riina
confidava a un agente penitenziario, che lo scortava in una trasferta
processuale, che per la trattativa “io non cercavo nessuno, erano loro
(lo Stato, ndr) che cercavano me” e “mi hanno fatto arrestare Provenzano
e Ciancimino, non come dicono i carabinieri”. A quel punto Di Matteo
decide di intercettare Riina in un luogo aperto del carcere di Opera
dove il boss è solito appartarsi nell’ora d’aria con un boss della Sacra
Corona Unita pugliese, Alberto Lorusso. Dal 2 agosto in poi è
un’escalation di minacce di morte: Riina è ossessionato da Di Matteo e
da quel che potrebbe emergere dal processo e dalle nuove indagini sulla
trattativa (“questi cornuti portano pure Napolitano”, cioè i magistrati
citano il presidente come teste). E ripete continuamente che bisogna
“fargli fare la fine del tonno”. L’ultima volta, il 16 novembre, prima
delle fughe di notizie che inducono i pm a levare le cimici, il capo dei
capi ordina: “Tanto deve venire al processo, è tutto pronto.
Organizziamola questa cosa, facciamola grossa, in maniera eclatante, e
non ne parliamo più, dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i
militari a Palermo”. Chissà perché un boss al 41-bis può chiacchierare
con un collega di un’altra organizzazione. Chissà perché – come
suggerisce Lirio Abbate – il ministero della Giustizia e il Dap non gli
applicano il 14-bis dell’ordinamento penitenziario, che consente
ulteriori limitazioni al carcere duro fino a sei mesi. Ieri Di Matteo –
fatto mai accaduto a un magistrato antimafia, neppure nel ’92 – non ha
potuto presenziare per motivi di sicurezza all’udienza milanese del
processo sulla trattativa, proprio quella dedicata all’audizione di
Giovanni Brusca, che nel ’96 svelò i negoziati fra il Ros e Riina
tramite Ciancimino. Avrebbe dovuto muoversi su un carrarmato Lince tipo
Afghanistan, e comprensibilmente ha rifiutato.
C’era da attendersi almeno in questi giorni, dopo l’allarme lanciato
dal ministro dell’Interno Alfano e la visita eccezionale di domenica al
Viminale dei procuratori di Palermo e Caltanissetta, Messineo e Lari,
una parola di solidarietà a Di Matteo dall’Anm, dal Csm, dal premier
Letta e dal presidente Napolitano. Invece dalle cosiddette istituzioni
tutto tace. Letta jr. difende lodevolmente i giornalisti “messi alla
gogna” da Grillo (non quelli minacciati dal suo viceministro De Luca),
ma il caso Di Matteo non gli risulta. E che dire del Colle? Ha
oggettivamente contribuito a isolare i pm della trattativa trascinandoli
dinanzi alla Consulta, presiedendo il Csm che da un anno processa
disciplinarmente Di Matteo (per un’intervista sulle sue telefonate con
Mancino) e accampando scuse puerili per non testimoniare al processo.
Ora dovrebbe precipitarsi a Palermo per rispondere alle domande dei pm e
dimostrare anche plasticamente che lo Stato è con loro, anche
rinunciando al privilegio di essere ascoltato nel suo ufficio al
Quirinale. Invece niente, silenzio di tomba anche di lì. A questo punto
tocca ai cittadini far sentire la loro vicinanza a Di Matteo, ai suoi
colleghi e agli agenti delle scorte. La migliore scorta siamo tutti noi.
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