Il ricordo
di Roberto Saviano
La sua Resistenza è iniziata sulle montagne del Piemonte. Ed è continuata per i 66 anni successivi, con la penna e l'inchiostro al posto del fucile. L'omaggio dello scrittore Roberto Saviano al grande giornalista scomparso
(25 dicembre 2011) Giorgio BoccaHo capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati... Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.
Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.
Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto.
Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.
Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.
E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.
A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".
Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.
Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto.
Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.
Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.
E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.
A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".