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lunedì 30 dicembre 2013

Riforma della giustizia, liberi tutti


Provate a indovinare: qual è per il governo la prima emergenza della giustizia dopo i troppi condannati che finiscono in carcere? Non ci arriverete mai, ci vuole un aiutino: la prima emergenza della giustizia in Italia dopo i troppi condannati che finiscono in carcere sono i troppi arrestati che finiscono in carcere.


Quindi, dopo il decreto svuota-carceri, ci vuole una bella legge anti-arresti. Vi sta provvedendo la ministra Cancellieri, coadiuvata da un’apposita commissione presieduta da Giovanni Canzio, il presidente della Corte d’appello di Milano che nel febbraio 2012 impiegò un mese per respingere la ricusazione dei giudici del processo Mills, regalando così a B. la sua ottava prescrizione. Insomma l’uomo giusto al posto giusto per una giustizia più rapida ed efficiente.
Il disegno di legge infatti è comicamente dedicato alla “velocizzazione del processo penale” e prevede alcune novità strepitose. La prima è l’obbligo per il giudice di interrogare l’indagato prima di arrestarlo: oggi infatti capita che alcuni candidati all’arresto, non sapendo di essere nel mirino dei magistrati, si facciano trovare in casa al momento del blitz e dunque finiscano sventuratamente in manette. Il governo ritiene che ciò non sia sportivo: l’arrestando dovrà essere preavvertito col dovuto anticipo della prava intenzione dei giudici, convocato per l’interrogatorio e ivi informato dettagliatamente dei sospetti che gravano sul suo capo: così, ove ritenesse ingiusto il proprio arresto, avrà modo di dileguarsi per tempo.
La seconda ideona è quella di affidare la decisione sulle richieste di cattura dei pm a un collegio di tre giudici. Oggi se ne occupa uno solo, il gip, anche perché poi l’arrestato può ricorrere al Tribunale del Riesame (tre giudici) e, se gli va buca, alla Cassazione (5 giudici). Ma, per il governo, un pm e 9 giudici non bastano ancora. Dunque ciò che oggi fa uno solo domani lo faranno in tre, così si spera che litighino fra loro e lascino perdere.
L’effetto accelerante di una simile norma non può sfuggire. Naturalmente nei tribunali più piccoli sarà difficile trovare tre giudici liberi, o non incompatibili per essersi già occupati di vicende affini: così molte catture non si faranno più o andranno alle calende greche. Il ddl governativo parla di sopprimere i tribunali del Riesame, che però oggi intervengono in seconda battuta ed esaminano un numero molto inferiore di casi (e quando il sospettato è già stato assicurato alla giustizia). In ogni caso si fa presto ad aggiungere un ente, mentre è molto complicato sopprimerne uno (vedi l’accrocco fra regioni e province).
Terza novità: niente più limiti al colloquio nei primi cinque giorni fra l’arrestato e il difensore (salvo per mafia e terrorismo). È una norma di elementare buonsenso per evitare che l’arrestato, prima dell’interrogatorio, venga istruito a tacere o a mentire secondo un copione prestabilito. Ora invece sarà un gioco da ragazzi per l’avvocato “formattare” l’arrestato per dettargli le cose da dire e quelle da non dire, i complici da inguaiare e i mandanti da salvare, specie nei processi di corruzione e criminalità finanziaria, dove spesso il difensore rappresenta non solo il singolo, ma l’intera organizzazione criminale.
L’ultima genialata è l’idea di escludere dal giudizio abbreviato le parti civili, che per il risarcimento dei danni dovranno avviare una separata causa civile, costosissima e lunghissima. Così le vittime di delitti gravissimi (l’abbreviato è previsto persino per l’omicidio) saranno escluse da molti processi: un capolavoro.
Ma non basta ancora, perché il ddl governativo verrà integrato con la legge anti-manette Ferranti & C. appena varata in commissione Giustizia. Questa fra l’altro – come spiega Valeria Pacelli sul Fatto Quotidiano di oggi – rende praticamente impossibile arrestare gli incensurati. Che non sono soltanto i delinquenti alla prima impresa, ma anche quelli rimasti impuniti e beccati per la prima volta. A questo punto manca soltanto un codicillo: l’arresto obbligatorio, per manifesta pericolosità sociale, del pm che chiede un arresto.
In galera.
Il Fatto Quotidiano, 29 Dicembre 2013

venerdì 13 dicembre 2013

Tutti i limiti del sindacato. Intervista a Luciano Gallino



intervista di Roberto Ciccarelli a Luciano Gallino, il manifesto, 12 dicembre 2013
Con il socio­logo tori­nese Luciano Gal­lino riflet­tiamo sulla con­sta­ta­zione della segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso secondo la quale «nell’attuale qua­dro eco­no­mico e sociale non è più suf­fi­ciente evo­care lo scio­pero gene­rale come unica moda­lità in cui si deter­mina il con­flitto sul tema del lavoro». Su que­sta affer­ma­zione si è tor­nati a riflet­tere ieri a Roma durante la pre­sen­ta­zione del libro «Orga­niz­zia­moci» (Edi­tori Riu­niti) che rac­conta alcune forme alter­na­tive di pro­te­sta: il «com­mu­nity organi­zing» teo­riz­zato dal grande teo­rico ame­ri­cano Saul Alin­sky, quello pra­ti­cato oggi da sin­da­ca­li­sti come Valery Alzaga nella sua forma di «labour organizing».

«È un’affermazione che cerca di rispon­dere ad una tra­sfor­ma­zione epo­cale — risponde Gal­lino — La pro­du­zione è stata fram­men­tata nelle catene glo­bali del valore e que­sto ha inde­bo­lito il potere dei sin­da­cati e dei lavo­ra­tori. Un conto è quando uno scio­pero inter­rompe la pro­du­zione in uno sta­bi­li­mento. Un altro è quando quella stessa pro­du­zione è divisa in dieci sta­bi­li­menti in quin­dici paesi. In que­ste catene il peso del sin­golo anello pro­dut­tivo o azien­dale è molto dimi­nuito ed è anche facil­mente sosti­tui­bile. Se un’azienda in Thai­lan­dia non fun­ziona, si passa in India».

I sin­da­cati hanno capito come con­tra­stare que­sta stra­te­gia?Non mi pare si sia fatto abba­stanza. Lo scio­pero è sto­ri­ca­mente nato per recare danno ad un’impresa. Si sup­pone che l’interruzione della pro­du­zione per un giorno o più sia un danno per il capi­tale. Con la gra­vis­sima crisi in cui spro­fonda l’Europa, e il mondo intero, è para­dos­sale con­sta­tare che que­sta asten­sione con­viene alle imprese che sof­frono di un eccesso di capa­cità pro­dut­tiva. Que­sta con­co­mi­tanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione poli­tica con­tro i sin­da­cati che nel nostro paese reg­gono ancora in qual­che modo, men­tre in altri paesi le iscri­zioni sono crol­late. Ciò non toglie che i sin­da­cati abbiano respon­sa­bi­lità non da poco nella loro dif­fi­colta a chia­mare a rac­colta i lavoratori.

Lo scio­pero, tut­ta­via, non è affatto tra­mon­tato come forma di lotta. Basti pen­sare a quelli auto-organizzati dai tran­vieri a Genova o a Firenze con­tro la pri­va­tiz­za­zione del tra­sporto pub­blico. Che impatto hanno avuto, se ne hanno avuto uno, sulla Cgil?Que­gli scio­peri hanno avuto un obiet­tivo spe­ci­fico e impor­tante: cer­care di inter­rom­pere la folle corsa alla pri­va­tiz­za­zione, per modi­fi­care le poli­ti­che gestio­nali ma soprat­tutto, come è acca­duto anche a Torino, per fare cassa. Genova su que­sto tema ha richia­mato una note­vole atten­zione, anche se non mi pare abbia influito sul governo il cui chiodo fisso è pri­va­tiz­zare. Con­trap­porsi oggi alle pri­va­tiz­za­zioni signi­fica bat­tersi con­tro una forma di lotta poli­tica che la classe diri­gente del nostro paese con­duce con­tro i beni pub­blici, i beni comuni e la pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare in qual­che modo alle deci­sioni poli­ti­che. In que­ste lotte, non mi pare che la Cgil abbia bat­tuto con forza il pugno sul tavolo.

Com’è cam­biato il ruolo della Cgil dalla mani­fe­sta­zione al Circo Mas­simo nel 2002 alla quale par­te­ci­pa­rono 3 milioni di per­sone?È cam­biato molto. Biso­gna dire che il 2002 era l’anno in cui si stava tam­po­nando lo scop­pio della bolla delle dot com, le imprese inter­net con miliardi in borsa. Il pro­cesso che oggi abbiamo sotto gli occhi era già avan­zato. Allora però c’era ancora la domanda aggre­gata e ciò per­met­teva una libertà di mano­vra che oggi non c’è più. Anche per que­sto lo scio­pero diventa un’arma spuntata.

Nel frat­tempo sem­bra essere defi­ni­ti­va­mente sal­tato il clas­sico legame tra par­tito e sin­da­cato, tra Cgil e Pd che sem­brava essere assi­cu­rato ancora da Epi­fani e oggi sem­bra escluso con Renzi. Un rap­porto che già ai tempi di Cof­fe­rati aveva cono­sciuto ten­sioni, in par­ti­co­lare con la «sini­stra» Pd…Già ai tempi di Cof­fe­rati c’erano pro­blemi, figu­ria­moci adesso che il rap­porto è eva­ne­scente, visto che per quello che si sa, le pro­po­ste eco­no­mi­che e sul lavoro di Renzi vanno in dire­zione di un ulte­riore allon­ta­mento. Quel po’ di sini­stra che esi­steva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cam­bia­menti si sia ridotta ulte­rior­mente. Il sin­da­cato, parlo soprat­tutto della Cgil, ha biso­gno di un par­tito a cui appog­giarsi. Se non c’è un rife­ri­mento cul­tu­rale o poli­tico, si ritrova solo. Con la segre­te­ria di Renzi quel po’ di soste­gno che nono­stante tutto c’era nel Pd scen­derà ulte­rior­mente. Mi pia­ce­rebbe essere smentito.

Cosa pensa di forme di lotta come quelle con­tro le grandi opere o per i beni comuni?Ser­vono, figu­ria­moci. In più abbiamo la neces­sità di pen­sare a migliaia di pic­cole opere per ridare un certo pre­gio alle cose che sono dege­ne­rate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimen­sione strut­tu­rale del capi­ta­li­smo non c’è o è molto pal­lida. Que­ste lotte hanno un’utilità per certi scopi spe­ci­fici, come si è visto con il refe­ren­dum sull’acqua. Anche se poi i comuni se ne sono infi­schiati. Lo si è visto nello scio­pero dei tra­sporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Biso­gna però chie­dersi per­chè i poli­tici insi­stono per dare sem­pre più spa­zio alla vul­gata neo­li­be­rale. Ci sono ecce­zioni, ma la mag­gio­ranza dei comuni è domi­nata dall’ideologia neo­li­be­rale che domina nel governo e nei par­titi poli­tici, nes­suno escluso, o quasi.

Dun­que, insieme alla ricerca di forme di pro­te­ste alter­na­tive biso­gna par­tire da una bat­ta­glia cul­tu­rale che con­tra­sti l’ideologia domi­nante?È così. Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la demo­cra­zia, dall’altro il capi­ta­li­smo. È pos­si­bile avere l’una senza l’altro? È pos­si­bile un qual­che tipo di accet­ta­bile con­ci­lia­zione tra i due come nel tren­ten­nio dopo la seconda guerra mon­diale? Lo sarà solo se alcuni milioni di per­sone si sve­glie­ranno, insieme ai par­titi poli­tici. Oggi, pro­ba­bil­mente, una qual­che solu­zione è pos­si­bile. Altri­menti andremo verso un capi­ta­li­smo senza demo­cra­zia o con forme dav­vero povere di democrazia.

(12 dicembre 2013

giovedì 12 dicembre 2013

Mafia parla, Stato tace

Il Fatto quotidiano

12 dicembre 2013 -  
Marco Travaglio
dimatteoDa oltre un anno il pm antimafia Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia, è minacciato di morte proprio per quel processo e per le indagini collegate tuttora in corso. Nel settembre 2012 gli giunse un dossier anonimo di 12 cartelle con lo stemma della Repubblica italiana, di chiara fonte investigativo-istituzionale: lo avvertiva che insieme ai colleghi impegnati sul caso trattativa era spiato da “uomini delle istituzioni” che poi riversano le informazioni a una “centrale romana”, che si stava inoltrando su terreni pericolosi, che doveva fidarsi solo di Ingroia, che una serie di politici della Prima Repubblica coinvolti nella trattativa non erano stati ancora toccati dalle indagini e che l’agenda rossa di Borsellino era stata trafugata da un carabiniere. Seguirono alcune lettere anonime con minacce mafiose e annunci di un imminente attentato avallato da Totò Riina dal carcere. Il 26 marzo, un mese dopo le elezioni, giunse la famosa doppia lettera scritta al computer da un anonimo sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che annunciava l’eliminazione di Di Matteo “in alternativa a quella di Massimo Ciancimino”, “chiesta dagli amici romani di Matteo” (il boss Messina Denaro) con l’“assenso di Matteo” (sempre il capomafia di Trapani), “perché questo paese non può finire governato da comici e froci”. Anche quell’anonimo era uomo di apparati istituzionali, conoscendo a menadito gli spostamenti di Di Matteo e di un altro pm palermitano in servizio a Caltanissetta (forse Nico Gozzo) e i punti deboli dell’apparato di sorveglianza. Per tutta l’estate vari confidenti delle forze dell’ordine hanno confermato progetti di attentato contro Di Matteo con 15 kg di tritolo già arrivati a Palermo, mentre un superesperto di esplosivi illustrava anonimamente i sistemi per neutralizzare il “bomb jammer”, il robot che da mesi si pensa di assegnare alla scorta del pm per il disinnesco preventivo di eventuali ordigni.  A fine giugno Riina confidava a un agente penitenziario, che lo scortava in una trasferta processuale, che per la trattativa “io non cercavo nessuno, erano loro (lo Stato, ndr) che cercavano me” e “mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono i carabinieri”. A quel punto Di Matteo decide di intercettare Riina in un luogo aperto del carcere di Opera dove il boss è solito appartarsi nell’ora d’aria con un boss della Sacra Corona Unita pugliese, Alberto Lorusso. Dal 2 agosto in poi è un’escalation di minacce di morte: Riina è ossessionato da Di Matteo e da quel che potrebbe emergere dal processo e dalle nuove indagini sulla trattativa (“questi cornuti portano pure Napolitano”, cioè i magistrati citano il presidente come teste). E ripete continuamente che bisogna “fargli fare la fine del tonno”. L’ultima volta, il 16 novembre, prima delle fughe di notizie che inducono i pm a levare le cimici, il capo dei capi ordina: “Tanto deve venire al processo, è tutto pronto. Organizziamola questa cosa, facciamola grossa, in maniera eclatante, e non ne parliamo più, dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo”. Chissà perché un boss al 41-bis può chiacchierare con un collega di un’altra organizzazione. Chissà perché – come suggerisce Lirio Abbate – il ministero della Giustizia e il Dap non gli applicano il 14-bis dell’ordinamento penitenziario, che consente ulteriori limitazioni al carcere duro fino a sei mesi. Ieri Di Matteo – fatto mai accaduto a un magistrato antimafia, neppure nel ’92 – non ha potuto presenziare per motivi di sicurezza all’udienza milanese del processo sulla trattativa, proprio quella dedicata all’audizione di Giovanni Brusca, che nel ’96 svelò i negoziati fra il Ros e Riina tramite Ciancimino. Avrebbe dovuto muoversi su un carrarmato Lince tipo Afghanistan, e comprensibilmente ha rifiutato.
C’era da attendersi almeno in questi giorni, dopo l’allarme lanciato dal ministro dell’Interno Alfano e la visita eccezionale di domenica al Viminale dei procuratori di Palermo e Caltanissetta, Messineo e Lari, una parola di solidarietà a Di Matteo dall’Anm, dal Csm, dal premier Letta e dal presidente Napolitano. Invece dalle cosiddette istituzioni tutto tace.  Letta jr. difende lodevolmente i giornalisti “messi alla gogna” da Grillo (non quelli minacciati dal suo viceministro De Luca), ma il caso Di Matteo non gli risulta. E che dire del Colle? Ha oggettivamente contribuito a isolare i pm della trattativa trascinandoli dinanzi alla Consulta, presiedendo il Csm che da un anno processa disciplinarmente Di Matteo (per un’intervista sulle sue telefonate con Mancino) e accampando scuse puerili per non testimoniare al processo.  Ora dovrebbe precipitarsi a Palermo per rispondere alle domande dei pm e dimostrare anche plasticamente che lo Stato è con loro, anche rinunciando al privilegio di essere ascoltato nel suo ufficio al Quirinale. Invece niente, silenzio di tomba anche di lì.  A questo punto tocca ai cittadini far sentire la loro vicinanza a Di Matteo, ai suoi colleghi e agli agenti delle scorte. La migliore scorta siamo tutti noi.

IO NON SCENDO IN PIAZZA CON TE :

 di Ettore Ferrini su Facebook
Dal web :
  "Forse non ci siamo capiti. I miei non sono preconcetti e non sono radical chic. Il fatto che contestiamo le stesse cose non ci rende fratelli. Tu vuoi mandare tutti a casa, io alla parola "tutti" non ci ho creduto mai, perché sta alla base del razzismo e della discriminazione. Tu parli di uguaglianza, io alla parola "uguali" non ci ho creduto mai, io credo alla parità. Tu minacci quelli che non la pensano come te, io mi ci confronto. Tu cerchi il supporto dei poliziotti, io non ho mai fatto il ruffiano con gli arbitri perché sono le mie idee che devono vincere, non io. Tu credi che la gente sia sempre migliore di chi la governa, io no. Tu pensi ogni volta che sarà un grande uomo a salvarci e questo accade perché evidentemente non hai mai aperto un libro di Storia. No, io non ci vengo in piazza con te, perché tu per ottenere ciò che vuoi sei disposto a distruggere la Democrazia, io invece per salvare la Democrazia sono disposto a distruggere te."

Le strette intese e l’Antistato

La strage di Piazza Fontana

12 dicembre 2013 - Nessun Commento »
piazzafontanaUn altro 12 dicembre un altro anniversario senza giustizia. La verità oramai la sappiamo, e conosciamo la macchina infernale fatta di ideatori, esecutori e depistatori che si mise all’opera ancora prima della strage per incolpare gli anarchici e dare una sterzata in senso autoritario alla democrazia italiana.
L’antistato non hai mai tirato i remi in barca. Il suo lavoro e le tragedie che dissemina per il nostro Paese non hanno mai fine. Oggi, che il suo volto rischia finalmente di essere disvelato, si dedica a cercare di fermare l’inchiesta della Procura di Palermo.
Mai nella nostra storia un PM si era visto bloccato nel suo compito di interrogare un testimone chiave.
Mai gli era stato offerto di muoversi dentro un blindato.
Il presidente del consiglio Letta questa Italia non la conosce. Sa che molti vorrebbero che rimanesse forte e segreta… La fiducia che ha ottenuto dalle Camere ignora, ottunde, minimizza. Copre di un imbarazzante silenzio il territorio prigioniero delle mafie. Non offre un progetto di riscatto.
Doveva essere il primo punto di un governo che parte oggi, che deve risalire la china della vergogna. Peccato. Le strettissime intese pensano che basterà chiudere il Senato, colpevole di aver cacciato Berlusconi, per rifarsi la faccia.
Peccato. Noi un momento per dedicare il pensiero alle centinaia di vittime dell’ antistato e del potere occulto lo troveremo.
Onore ai morti del 12 dicembre 1969.