da:
IlFoglio.it
PARTE PRIMA:
Un golpe di nome euro
In questi giorni il Foglio pubblica a puntate un magistrale saggio “no euro”.
L’autore è Giuseppe Guarino, giurista classe 1922, uno dei primi
professori ordinari di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, dove
esaminò tra gli altri Giorgio Napolitano, attuale presidente della
Repubblica, e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, poi
anche ministro delle Finanze (1987) e dell’Industria (1992-’93).
Ieri è uscita
la prima parte, introdotta da
un articolo di Antonio Pilati. Nel numero di oggi, accompagnata da
questo approfondimento di Franco Debenedetti, la seconda parte. Domani la terza e ultima.
Guarino già nel 2012 pubblicò analisi lucide e controcorrente
sugli accordi legali con cui l’Unione europea – soprattutto su spinta
del paese leader, la Germania – stava cercando di vincolare i suoi conti
pubblici. Fonti giuridiche alla mano, il professore sostenne – anche
in una lunga intervista a questo giornale –
che l’impegno a mantenere il bilancio in pareggio o in avanzo era
semplicemente “inapplicabile”. Gli articoli del Fiscal compact, infatti,
contraddicevano gli stessi trattati costitutivi dell’Unione europea su
cui si fondavano; questi ultimi fissavano al 3 per cento il limite di
indebitamento netto possibile per ogni stato, cioè garantivano una
discrezionalità della politica fiscale che invece sull’onda della crisi è
stata requisita. Con effetti economici, argomentava in seconda battuta
Guarino, disastrosi. A un anno di distanza da quel primo saggio, il
professore – le cui tesi sono state discusse anche dalla stampa tedesca,
oltre che da economisti e giuristi italiani – ha approfondito
ulteriormente la sua analisi giuridica del processo di integrazione
comunitaria. Arrivando a datare, al 1° gennaio 1999, un “colpo di
stato”, espressione “usata quando si modifica in aspetti fondamentali il
sistema costituzionale di uno stato – scrive – con violazione delle
norme costituzionali vigenti”. Come si realizzò dunque questo golpe?
Attraverso un regolamento comunitario, il numero 1466/97 per la
precisione, con cui “in ciascuno degli stati membri viene cancellato il
diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le
proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna
possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi
stessi vengono assoggettati”. Già quel regolamento, imponendo il
pareggio di bilancio contro la stessa lettera dei Trattati, per di più
alla chetichella e senza quella pubblicità che perlomeno caratterizzò la
stipula del Fiscal compact oltre dieci anni dopo, privò di fatto gli
stati democratici della loro politica fiscale. Il tutto in funzione
dell’introduzione della moneta unica. Con l’entrata in vigore del
regolamento, però, “la democrazia è stata soppressa”, scrive Guarino
guidando il lettore tra ricostruzione storica e analisi del diritto, tra
responsabilità politiche e colpe individuali, fino a immaginare
possibili vie d’uscita.
La scrittura del giurista è piana e lineare, le sue argomentazioni
approfondite e mai reticenti, attraenti ma pur sempre falsificabili.
Tutto ciò rende il testo “magistrale”, per l’appunto, che lo si
condivida o meno. Nell’attesa delle elezioni europee, che secondo molti
dovrebbero sancire l’avanzata senza precedenti dei partiti anti euro, il
saggio costituisce un utile banco di prova per quelle élite che – come
ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera – non vorranno
limitarsi a “esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e
logori termini passe-partout (che non spiegano nulla) come il termine
‘populismo’”. Una sfida intellettuale per classi dirigenti pronte a
guidare l’opinione pubblica, certo, ma non imprudenti a tal punto da
inscenare una insostenibile “ribellione delle élite”.
di Marco Valerio Lo Prete
L’Euro? Fu un regime change
La seconda puntata del saggio del professor Guarino
Indagine giuridica attorno a un codicillo illegale che ha frenato
la nostra economia dal 1999. Effetti economici e politici di una
decisione presa nelle stanze di Bruxelles. Una svolta in stile
rivoluzione francese o bolscevica, col feticcio della stabilità
Quella di oggi è la seconda puntata di un lungo saggio “no euro”
scritto dal professore Giuseppe Guarino. (La prima puntata l’abbiamo
pubblicata ieri sul Foglio, la terza e ultima uscirà domani). Guarino,
subito dopo la Seconda guerra mondiale, divenne uno dei primi ordinari
di Diritto pubblico nel 1953. Insegnò a Sassari (suo assistente fu anche
Francesco Cossiga), poi a Napoli, infine alla Sapienza di Roma. In
politica fu con la Democrazia cristiana, e proprio con il sostegno della
Dc divenne ministro delle Finanze nel 1987 e dell’Industria nel
1992-’93.
Secondo il giurista, il tentativo comunitario di creare una moneta unica
a immagine e somiglianza del marco, deragliò presto. In prima battuta,
infatti, il Trattato di Maastricht aveva assegnato agli stati
l’obiettivo fondamentale di perseguire “la crescita”, offrendo loro
anche la possibilità di indebitarsi (a certe condizioni stringenti). Poi
però, a ridosso della creazione dell’euro, la Commissione stilò un
regolamento, il numero 1466/97, che contraddiceva lo stesso Trattato di
Maastricht, spingendo gli stati sulla strada rigorista del pareggio di
bilancio a ogni costo. Per Guarino si è trattato di un “golpe”,
tecnicamente inteso: i Trattati furono di fatto cambiati, senza
dibattito pubblico e senza nemmeno seguire le procedure giuridiche
corrette. Stesso discorso, per Guarino, si è ripetuto di fatto con il
Fiscal compact siglato dai capi di governo nel 2012.
Il saggio rifugge accuse generiche e complottistiche, è ricco di tesi e
argomentazioni controllabili, dunque falsificabili. Alla vigilia del
voto europeo, e in una fase convulsa del processo di integrazione
comunitaria, una buona lettura per euroscettici ed euroentusiasti,
purché consapevoli. (mvlp)
La differenza tra il Trattato sull’Unione europea (Tue, o
Trattato di Maastricht) e il regolamento 1466/97 attiene al vincolo che
nelle discipline occupa la posizione “centrale”. Il Tue fissa
un obiettivo, uno sviluppo conforme al disposto dell’articolo 2, il cui
conseguimento è affidato alle politiche economiche di ciascuno degli
stati membri, ciascuna delle quali avrebbe dovuto tenere conto della
specificità delle concrete condizioni della economia del proprio paese.
Le politiche economiche avrebbero potuto utilizzare all’occorrenza,
quale strumento per realizzare l’obiettivo, l’indebitamento nei limiti
consentiti dall’art. 104 c), da interpretare e applicare in conformità
ai criteri fissati negli alinea e nei commi 2 e 3 del punto 2 dell’art.
104 c).
Il regolamento però abroga tutto questo. Le
politiche economiche degli stati sono cancellate. E’ cancellato
conseguentemente qualsiasi apporto degli stati. Il ruolo assegnato dal
Tue [art. 102 A, 103 e 104 c)] all’obiettivo dello sviluppo, che
l’attività politica degli stati avrebbe conseguito, realizzandolo in
conformità a quanto prescritto negli artt. 2 e successivi del Trattato, è
cancellato. All’obiettivo dello sviluppo è sostituito un risultato
consistente nella parità del bilancio a medio termine. Gli stati,
secondo il Tue, avrebbero conseguito l’obiettivo, valutando nella
propria autonomia i limiti, le condizioni e le strutture del proprio
paese. Il grado di conseguimento sarebbe stato necessariamente diverso
da paese a paese, e per ciascun paese di anno in anno. Il risultato che
il regolamento sostituiva all’obiettivo avrebbe dovuto invece essere
eguale per tutti i paesi e in tutti gli anni per ciascun paese. Se le
strutture o le condizioni monetarie non avessero consentito di
conseguire la crescita, la politica economica dello stato ne avrebbe
tenuto conto. All’opposto, nella disciplina del regolamento, se
strutture o condizioni avessero ostato alla realizzazione del
“risultato” della parità, si sarebbero dovute modificare le strutture e
incidere sulle condizioni, non si sarebbe potuto venire meno all’obbligo
perentorio della parità nel bilancio. Un totale capovolgimento, dunque,
nel rapporto tra moneta e realtà. Secondo il Tue, se vi è contrasto, è
la gestione della moneta a doversi adeguare alla realtà. Secondo il
regolamento, è la realtà che deve adeguarsi alla moneta.
Qui potremmo anche fermarci. Ai fini della
dimostrazione che al 1° gennaio 1999 è stata immessa sui mercati una
moneta diversa da quella progettata da Pöhl, Delors e Carli, quanto
detto è più che sufficiente. La moneta, quale disciplinata dal Tue, era
stata giudicata dal suo diretto responsabile e utilizzatore, il
presidente Pöhl, corrispondente al preesistente “marco”. Per forza
logica l’“euro” oggi circolante, disciplinato da norme diverse da quelle
del Tue, non può per definizione considerarsi simile al vecchio
“marco”.
Sarebbero dovuti sorgere immediati dubbi sulla idoneità dell’euro voluto dal regolamento a produrre crescita. Il
marco era stato fattore di sviluppo. L’“euro falso” ha cancellato i
poteri e i mezzi di cui gli stati avrebbero potuto e dovuto avvalersi
per produrre sviluppo. Il regolamento non li ha sostituiti con altri
poteri e mezzi. L’effetto di crescita, quale avrebbe dovuto prodursi in
conseguenza naturale dell’obbligo imposto come permanente a tutti
indistintamente gli stati, era affermato in via “assiomatica”. Non
trovava conferma in alcuna esperienza. Il debito pubblico del Regno
Unito nel secolo della rivoluzione industriale e della espansione
imperialistica superò quello antecedente o contemporaneo di qualsiasi
altra economia. L’indebitamento statunitense, negli anni dal 1939 al
1945 aumentò vertiginosamente da poco più del 40 per cento a oltre il
100 per cento. Furono immediatamente riassorbiti quindici milioni di
disoccupati. Consentì agli Stati Uniti di uscire dalla guerra quale
principale potenza politica, militare, economica e scientifica nel
mondo. Se non sono reperibili esperienze storiche conformi, se non
vengono addotte a sostegno argomentazioni basate su rapporti di causa ed
effetto oggettivamente verificabili, la fiducia nell’obiettivo
assiomatico deve restare necessariamente e unicamente affidata ai
risultati. Dal 1999 a oggi sono trascorsi 15 anni. Un periodo che nelle
attuali condizioni storiche può considerarsi un tempo lungo, più che
medio.
Le risultanze statistiche sono inequivocabili. Italia,
Germania, Francia, nei quattro decenni dal 1950 al 1991, con tassi medi
del pil pari rispettivamente a 4,36, 4,05 e 3,86 per cento
(elaborazioni su dati omogeneizzati Maddison) risultavano nello sviluppo
i primi tre paesi democratici occidentali, precedendo Stati Uniti (3,45
per cento) e Regno Unito (2,08 per cento). Nei sei anni anteriori alla
entrata in vigore del Tue (1987-1992) le medie, in conseguenza degli
effetti costrittivi derivanti dall’ultima fase di attuazione del Piano
Werner, risultarono rispettivamente del 2,68, 2,05 e 2,91 per cento.
Sarebbero risultate superiori ai dati del sessennio della fase
transitoria della omogeneizzazione (1,34, 1,32 e 1,40 per cento). Le
medie complessive dei 15 anni successivi al 1° gennaio 1999 sono state
per i tre paesi dello 0,38, dell’1,36 e dell’1,38 per cento. A partire
dal 2000, i tre maggiori stati membri, oltre a beneficiare della ormai
consolidata disciplina della eliminazione anche fisica delle dogane,
sarebbero stati avvantaggiati dalla eliminazione nell’ambito dell’area
euro dei costi di transazione e anche dall’aumento del numero dei
partecipanti all’Unione (tredici in più) e distintamente all’euro
(cinque in più). Ebbene, in una graduatoria insospettabile (v. Pocket
World in Figures dell’Economist, edizione 2013, pag. 30) degli stati con
minore sviluppo nel mondo nel decennio 2000-2010, l’Italia figura come
terza peggiore economia, la Germania come decima peggiore economia, la
Francia come quattordicesima peggiore economia. Ancora più significativa
è la presenza di dodici stati europei, se consideriamo anche quelli
dell’Unione, tra i primi trentacinque della graduatoria dei peggiori nel
mondo! Nella analoga graduatoria del decennio antecedente (1990-2000),
non figurava nessuno stato europeo. Si deve dedurre che il fattore
cruciale ampiamente responsabile della depressione europea, e
specificamente dell’area euro, deve avere cominciato ad operare poco
prima o poco dopo l’inizio del nuovo millennio. In astratto avrebbe
potuto trattarsi tanto di un fattore interno alla Ue e/o alla zona euro,
quanto di un fattore a questa esterno. Un’altra statistica esclude la
seconda ipotesi. La media di crescita del pil nel mondo nel ventennio
1975/95 era stata del 2,8 per cento (v. Rapporto sullo sviluppo umano,
1999), la popolazione totale nel 1997 era pari a 5 miliardi e 741
milioni. E’ oggi di oltre 7 miliardi. Il tasso di sviluppo è stato
superiore al 4 per cento negli anni dal 2004 al 2013. Ha superato il 5
per cento negli anni 2006 (5,3 per cento), 2007 (5,4) e 2010 (5,1).
L’intero mondo si caratterizza attualmente per una crescita continua e
generalizzata in tutti i continenti. La media di crescita del pil
nell’area euro nel decennio 1991-2003 è stata del 2,2 per cento. Quella
del 2013 (previsioni per l’ultimo anno) è del meno 2 per cento.
La causa era dunque interna. Il fattore nuovo
accertato nell’anno 1999 e/o nell’anno antecedente o in quello
successivo, è l’immissione nei mercati dell’euro “falso” disciplinato
dal reg. 1466/97, a partire dal 1° gennaio 1999. Non possono esservi
dubbi. Il reg. 1466/97 è causa prima e unica del fenomeno depressivo in
corso nei singoli paesi e nell’intera area euro dal 1° gennaio 1999.
Vi è un ulteriore e distinto effetto diretto del reg. 1466/97
che supera per rilievo qualsiasi altro. E’ la soppressione della
“democrazia”. E’ garantita, al livello massimo, la libertà
individuale. A livello normativo sono garantiti anche diritti sociali.
La libertà individuale e il godimento di diritti sociali sono tuttavia
presupposti necessari, ma non sufficienti della democrazia. Un regime
può qualificarsi come democratico soltanto se gli individui, formanti
una unica collettività, possono tutti in condizioni di assoluta parità
influire sugli indirizzi politici attinenti all’esercizio della
sovranità o comunque di carattere prioritario. Nelle condizioni attuali
di sviluppo, sono da considerarsi prioritari gli indirizzi economici di
base.
L’influenza dei cittadini può essere esercitata in modo diretto o indiretto. Nelle
grandi collettività, di norma in modo indiretto con il voto. Il voto
deve essere espresso in condizioni di parità, nello stesso giorno
(eccezioni sono ammesse per categorie che versino in condizioni
particolari), con identiche modalità, in luoghi prestabiliti.
Il regolamento 1466/97 ha soppresso l’unico spazio di
attività politica soggetto all’influenza dei cittadini dei singoli stati
membri, lo spazio delle politiche economiche a mezzo delle
quali ciascun paese membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al
perseguimento dello sviluppo, nell’interesse proprio e della Unione. La
competenza politica degli stati membri, oggetto di un diritto
potestativo, non è stata sostituita da altre di eguale carattere
politico. In sua vece è stato previsto l’obbligo degli stati membri di
realizzare un risultato specificamente definito (il bilancio in
pareggio) di carattere primario ed eguale per tutti, la cui
realizzazione si risolve in obblighi e doveri individuali, soggetti a
poteri di vigilanza, a controlli e a direttive, e i cui caratteri e
obiettivi sono prescritti. Soppresso ogni spazio di decisione politica, è
scomparso anche il corrispondente spazio di espansione del principio
democratico.
Le direzioni di marcia dell’Unione e degli stati membri sono segnate. Nel
settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli
altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, quello
della economia, i “governi devono fare i compiti” a essi assegnati. Gli
istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di
ciascun paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i
partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le
manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli
indirizzi prestabiliti. Atti dimostrativi come salire su torri e
sostarvi al freddo per intere notti, e persino i gesti estremi quali il
suicidio per tutelare la dignità personale offesa per il non poter
pagare i salari ai propri dipendenti o non poter provvedere ai bisogni
della propria famiglia, sono privi di effetto.
Il mormorare, il chiacchiericcio diffuso sono liberi, ma dopo essersi affievoliti, si esauriscono. Sono
efficacissimi invece per influire sui sistemi autoritari, fino a
determinarne il crollo! (le barzellette!). Nel regime “Ue più euro” sono
libertà private, prive di effetti pubblici. Non si può abbattere il
proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali,
non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto.
L’eliminazione della fascia della politica provoca un effetto ulteriore. L’assenza
di un potere politico di carattere generale e la sua assenza in tutte
le parti attinenti alla sovranità e ai princìpi fondamentali, comporta
che tutte le condotte degli organi e dei loro titolari, formino oggetto
di norme, singole o integrate, che ne determinano il carattere, ne
precisano l’oggetto, ne determinano il se, il come e il quando della
concretizzazione. Il sistema risulta formato da fattispecie di carattere
costrittivo, aventi a oggetto condotte dalle quali promana il movimento
delle singole parti e dell’insieme dell’organismo.
Ne segue che nel momento in cui gli indirizzi e il movimento
complessivo siano stati sottratti a ogni decisione “politica”, cioè
libera, il sistema risulta autoprotetto. Il suo movimento può
essere solo quello derivante dall’insieme delle condotte prestabilite.
L’organismo si è robotizzato. Il più potente dei calcolatori può
effettuare operazioni altrimenti impossibili. Ma perché ciò accada deve
essere stato progettato a questo scopo. La macchina “Ue più Eurozona”
comprende opzioni. Sono opzioni da esercitarsi entro ambiti, in
condizioni e tempi, e con modalità direttamente o indirettamente
predeterminate. Se sono stati commessi errori nella progettazione e se
la macchina provoca danni, questi si produrranno sino a quando la
macchina funzionerà. Funzionerà, continuando a produrre danni, fino a
quando non imploda.
Ogni effetto, una volta prodottosi, si trasforma in causa di effetti. Gli
effetti del regolamento 1466/97, dato il loro rilievo e la lunga
durata, sono alla base di distinte serie causali produttive di effetti
anche autonomi a ciascun livello, che in parte si cumulano e si
intrecciano.
Un primo effetto si collega alle modalità usate per pervenire
all’adozione del regolamento, tutte dirette a impedire che venisse
percepita la portata delle innovazioni. Il regolamento, in
vigore dal 1° luglio 1998 (v. art. 13), era destinato ad applicarsi a
partire dal 1° gennaio 1999. I programmi di stabilità avrebbero dovuto
essere presentati prima del 1° marzo 1999 (art. 4). Se si voleva
ottenere che non se ne diffondesse la conoscenza, il risultato è stato
raggiunto al cento per cento. Ancora oggi l’esistenza, la natura e gli
effetti del regolamento, non sono generalmente conosciuti dai titolari
degli uffici, le cui competenze nei singoli paesi membri vi si
connettono. E’ ipotizzabile che i ministri che parteciparono al
Consiglio che adottò la proposta della Commissione recante la data del
18 ottobre 1996 (v. G.U. Comunità C/368/96) e che ne approvarono il
testo definitivo il 7 luglio 1997, non si siano resi minimamente conto
della portata del voto che esprimevano in rappresentanza dei rispettivi
governi.
Prodottosi il fenomeno depressivo a partire dal 1° gennaio 1999, nessuno
ha pensato al reg. 1466/97, le cui norme, e in seguito i princìpi, sono
rimasti in vigore per tutto il quindicennio successivo. Non essendo
nota la causa originaria e quelle prodottesi anno dopo anno in
conseguenza degli effetti cumulativi, si sono verificati effetti
ulteriori che sono sotto gli occhi di tutti. Economisti, tra i quali un
buon numero di premi Nobel, di tutte le parti del mondo, ci bombardano
con consigli e ricette. Gli esperti dell’Eurozona e quelli europei fanno
altrettanto. Ma non conoscendola, e non potendo risalire alla causa,
una causa peraltro così singolare e imprevedibile, ci si limita a
indicare risultati che si vogliono ottenere (sono i soliti: aumento
della occupazione, sostegno alle imprese, stimolazione della domanda,
diminuzione del carico fiscale, rilancio della economia, e simili).
Nessuno spiega come e con quali mezzi conseguirli.
Ma responsabili ce ne devono essere. Non potendo
risalire alla fonte, vengono indicati sempre gli stessi: la classe
politica, gli sprechi, la spesa sanitaria, la inefficienza della
Pubblica amministrazione, i lacci della burocrazia, l’evasione fiscale,
ecc. E poiché è il governo che dovrebbe eliminarli e non li elimina, il
responsabile ultimo è sempre il governo. I governi precedenti e poi, né
potrebbe essere diversamente, il governo in carica. Il governo,
poveretto, fino a quando il paese non verrà liberato dalla gabbia in cui
si è rinchiuso, con reintegrazione dello stesso governo nella sua
potestà politica, non può fare nulla.
Gli effetti prodotti da quelli antecedenti trasformatisi in cause sono parecchi.Innanzitutto
una grande confusione. Si aggiunge la diversità degli effetti prodotti
nei vari stati. La Germania, cui apparteneva la moneta (il marco) alla
quale l’euro avrebbe dovuto assimilarsi, essendo stata assunta a modello
ai fini della omogeneizzazione, non ha ricevuto quale effetto della
stabilità danni emergenti. Ne ha probabilmente subiti di maggiori come
lucro cessante, che però sono meno percepibili. Tanto basta perché venga
ritenuta responsabile delle misure costrittive cui altri sono stati
assoggettati. Ne seguono invidie, risentimenti, persino odi. All’inverso
la Germania guarda con aria di superiorità, con sospetto e anche con
disprezzo i paesi in peggiori condizioni. I Trattati europei esaltano la
coesione. Non è stata raggiunta. Probabilmente, se continuerà ad
applicarsi l’attuale regime, non lo sarà mai.
Mentre pervenivano sollecitazioni da ogni parte del mondo, gli organi dell’Unione non potevano restare inerti. La
crescita, quale risultato della parità del bilancio imposto con norme
di applicazione generale, costituiva l’effetto di un assioma. Così è
stato in medicina fino a tutto il ’700. Non disponendo di strumenti per
risalire alle cause, se si avvertivano sintomi gravi di cui non si
conoscessero le cause, si ordinava il salasso. Se la prima applicazione
non recava sollievo, se ne accrescevano le dosi. E così una terza e una
quarta volta. Lo stesso è accaduto per l’Europa. Poiché l’atteso
sviluppo non si produceva, si deduceva che il principio della stabilità
non era stato applicato con il necessario rigore. Sulla scia del primo
regolamento ne è stato emanato quindi un secondo (reg. 1055/2005), poi
un terzo (reg. 1175/2011), infine il Fiscal compact. Fino a prevedere,
per essere più sicuri nella applicazione delle ricette, che modifiche
strutturali venissero prescritte e imposte da organismi esterni. Un
“commissariamento”!
Nei quindici anni trascorsi dal 1° gennaio 1999, sono stati
ratificati e sono entrati in vigore nuovi Trattati: Nizza, Amsterdam,
Lisbona. I Trattati sono pieni di affermazioni enfatiche. Sono
stati creati nuovi organi. Si poteva abbondare. La disciplina continuava
a essere di fatto quella del reg. 1466/97 integrata dalle modifiche
successive. Dove possibile, si è cercato di rafforzarla con parole
accuratamente collocate, ma sempre evitando di dare nell’occhio. In
quindici anni si sono accumulati centinaia di atti, di livello normativo
o applicativo, ai quali ha partecipato un considerevole numero di
titolari di funzioni connesse ai problemi europei, sia nell’Unione che
nei paesi di appartenenza. Molti politici e amministratori hanno fatto
carriera. Sono stati titolari o lo sono tuttora di uffici ai quali si
connettevano responsabilità massime a livello europeo o negli
ordinamenti costituzionali interni. La loro presenza in ruoli connessi
all’Unione e/o all’euro è rassicurante. Genera speranza e fiducia. Un
ulteriore ostacolo a che si comprenda come stanno effettivamente le
cose!
Ultimo ma non minore effetto derivato da questi intrecci è un “vuoto di potere”. Il
vuoto viene colmato da istituzioni e da titolari che, a livello europeo
e nazionale, siano posizionati in condizioni che consentano loro di
avvalersene. Abbiamo così titolari di organi comunitari che impartiscono
lezioni non richieste a governanti degli stati membri. Lo stesso fanno,
con autorità persino maggiore, titolari di organi di altri paesi. In
ciascun paese organi, specie del livello più elevato, si espandono in
aree contigue, a volte sinanche inferiori.
La confusione è grande, grande il rumore. Ma la
macchina robotizzata dell’Europa e dell’euro continua a macinare flussi
di risultati negativi, e tranquilla e indifferente, prosegue
indisturbata e inesorabile nella direzione che le è stata imposta.
Una osservazione conclusiva su quanto è accaduto il 1° gennaio 1999. La
dottrina distingue tra due ipotesi. La instaurazione di fatto di un
nuovo governo (ossia del detentore dei poteri pubblici di vertice) e
l’instaurazione di fatto di un nuovo regime.
La “democrazia” è (deve essere) il principio fondamentale del regime degli stati aderenti all’Unione europea. La
democrazia è stata soppressa nel 1999 nell’Eurozona e negli stati senza
deroga. In ciascuno degli stati membri senza deroga, viene cancellato
il diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le
proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna
possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi
stessi vengono assoggettati. Nell’Eurozona perché non vi sono stati
previsti organi politici responsabili nei confronti della totalità dei
cittadini delle collettività che ne fanno parte assunti come entità
unitaria. Ciò che è accaduto deve qualificarsi come “instaurazione di
fatto di un nuovo regime”. Era accaduto in Francia con la rivoluzione
francese, in Russia, nel 1917, con la rivoluzione bolscevica. Con queste
differenze, che la rivoluzione francese, affermando i principi della
libertà degli individui e delle imprese, sprigionò enormi energie
esistenti. Quella collettivista creò vincoli che sarebbero risultati più
stringenti di quelli anteriori, dei quali ci si voleva liberare. La
rivoluzione francese e quella russa imposero, con la introduzione di
nuovi regimi, anche l’introduzione di vertici di un nuovo tipo. La
rivoluzione, operata dal “falso euro”, concretizzatasi nel principio
della stabilità, ha creato un regime autoreferenziale. In quello
sovietico l’autoreferenzialità abbracciava larga parte della
organizzazione. Ma il vertice ne era escluso. Con l’ulteriore differenza
che in quello sovietico si proclamava la conquista del potere da parte
del proletariato. In quello della stabilità, manca un vertice politico
e, accantonato l’obiettivo della crescita, domina, quale “dio”
insondabile e assoluto, un principio astratto che genera un movimento
che inesorabilmente produce depressione e forse, alla fine, implosione.
Altra considerazione. Va valutata attentamente. Potrebbe
sconsigliare l’applicazione tardiva della disciplina della moneta del
Tue e oggi del Tfue (il Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea,
Lisbona). Con l’esperienza del “poi” si può oggi affermare che la
richiesta che la nuova moneta somigliasse al marco era a sua volta
inficiata da un “errore”. Si era tenuto conto della stabilità interna,
non di quella esterna. La collettività tedesca era fortemente coesa. Non
può trascurarsi che vi vigeva da quasi un secolo un sistema di stato
sociale, il più solido e avanzato nel mondo. Intese collaborative tra
imprenditori e classe operaia esistevano tanto a livello di organismi
centrali quanto in forme istituzionalizzate, all’interno delle imprese.
Non si tenne conto dell’ambiente esterno. Era stato fino a quel tempo a
sua volta stabile. La stabilità esterna persisteva da oltre cinquanta
anni. Appariva naturale e destinata a durare. Costituiva invece il
prodotto di una situazione storica peculiare, la divisione del mondo in
due grandi blocchi contrapposti, quello del mondo libero, che si
avvaleva del regime di mercato, e quello collettivista che raggruppava i
paesi la cui organizzazione si ispirava, in varia misura, al modello
amministrativizzato dell’Urss. Anche le regolazioni tra gli stati, nel
blocco collettivista, erano in qualche misura rigide. Era la stabilità
esterna a garantire la stabilità interna, obiettivo e nello stesso tempo
condizione per il successo della moneta e dell’economia tedesca.
La stabilità esterna, proprio negli anni in cui vennero
stipulati i due Trattati, dell’Atto unico europeo e del Trattato
sull’Unione europea, cominciava a vacillare. Nel 1999 sarebbe mancata del tutto. Oggi le condizioni del mondo esterno sono l’opposto della stabilità.
(continua domani)