9 marzo 2014 alle ore 11.53
di Silvia Truzzi inviato a Torino (il Fatto Quotidiano)
Può
succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in una
cucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con
tè al gelsomino. E capita pure che l'intervistato t'interroghi
all'improvviso sui romanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A
un certo punto, ricorderà, Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un
giorno ha detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza’. In russo la
parola mir vuol dire mondo e, allo stesso tempo, pace”. Per fortuna
partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky, Giulia, studentessa
di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l'orrore in cui vivevano
gl'immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i propri
simili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell'Ilva, non è nelle
condizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se
viviamo in un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani,
dominati dalla violenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro
che bellezza! Che salvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da
cioccolatino. Infatti, l'hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in
occasione dell'Oscar a La grande bellezza, come se fosse quella di
Myskin. Oggi si parla per non dire nulla. E si è ascoltati proprio per
questo. Il vuoto non disturba e, se è detto in certo modo, è anche
seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, una ragazza, per
presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo nei valori e mi
sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c'è nel tempo
presente”. Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del
neo premier? Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa
di smentite, mi par di vedere, dietro una girandola di parole, il blocco
d'una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello
status quo. Una volta Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono
‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchico del potere. Oggi,
piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’. Un'interpretazione è che
un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva,
avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che
occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un
epifenomeno. Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo:
attenzione, voi stessi, a non prendere troppo sul serio la vostra
novità. Il filo rosso di queste conversazioni è come sta l'Italia.
Le risposte non sono quasi mai state incoraggianti: ci siamo chiesti
quali responsabilità abbia la classe dirigente. La classe dirigente –
intendo coloro che stanno nelle istituzioni, a tutti i livelli – è
decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di
cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno.
Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile,
contraddittoria. Potremmo usare un'immagine: c'è una lastra di ghiaccio,
sopra cui accadono le cose che contano, sulle quali però s'è persa la
presa; cose rispetto a cui siamo variabili dipendenti: la concentrazione
del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale,
l'impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni,
per esempio. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause.
Tutto ciò, sopra la lastra. Sotto sta la nostra ‘classe dirigente’ che
dirige un bel niente. Non tenta di mettere la testa fuori. Per far
questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle
in pratica. Che cosa resta sotto la crosta? Resta il formicolio della
lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri
oligarchici, un formicolio che interessa i pochi che sono in quella
rete, che si rinnova per cooptazione, che allontana e disgusta la gran
parte che ne è fuori. La politica si riduce alla gestione dei problemi
del giorno per giorno, a fini di autoconservazione del sistema di potere
e dei suoi equilibri. Pensiamo a chi erano gli uomini che hanno guidato
la ricostruzione dell'Italia dopo la guerra: Parri, Nenni, De Gasperi,
Einaudi, Togliatti, per esempio. Se li mettiamo insieme, non è perché
avessero le stesse idee ma perché ne avevano, e le idee davano un senso
politico alla loro azione. Le cose che, oggi, vengono dette e fatte sono
pezze, sono rattoppi d'emergenza, necessari per resistere, non per
esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro
‘potere per il potere’, è gestione tecnica. La tecnica guarda indietro;
la politica dovrebbe guardare avanti. Il governo Monti qualche
disastro tecnico l'ha fatto. La tecnica come surrogato della politica è
un'illusione. Se lei chiama un idraulico perché ha il lavandino
otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato, lo scarico del lavandino
funzioni. Non chiede all'idraulico di cambiarle la cucina. Così, anche i
tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. I governi
tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l'esistente
facendolo funzionare. Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucina
nuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di
società, programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei
momenti di crisi come quello che attraversiamo, perfino modelli di
società. Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un'idea
del mondo. Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la
struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione.
Una volta si parlava di blocco sociale, pensando alle ‘masse’
organizzate in partiti di appartenenza, in sindacati d'interessi
consolidati. Si pensava alle classi sociali. Oggi, siamo lontani da
tutto questo, in attesa della ricomposizione di qualche struttura
sociale che possa esprimere esigenze, richieste e forze propriamente
politiche. In questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera?
La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti
attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata
di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società
capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i
partiti. Oggi, invece, sono diventati per l'appunto, canali di
cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei
posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato
rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi. Ecco la parola:
il rinnovamento sembra molto spesso un ‘allevamento’. Il resto è
apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo,
creativismo ecc. Tutte cose ben note e di spiegabile successo,
soprattutto in rapporto con l'arteriosclerosi politica che dominava. Ma,
la novità di sostanza dov'è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce?
Tanto più che nelle posizioni-chiave del ‘nuovo’ troviamo continuità
anche personali che provengono dal ‘vecchio’ e la soluzione di nodi che
ci trasciniamo dal passato è continuamente accantonata, come il
cosiddetto conflitto d'interessi. L'impellente necessità di modificare
l'assetto costituzionale è un refrain che abbiamo ascoltato da più
parti, negli ultimi anni. Sì. Le istituzioni possono sempre essere
migliorate, rese più efficienti, eccetera. Ma, a me pare che esse siano
diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove, precisamente
nelle difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più
difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle
compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre
più scarse, e in presenza per di più d'una contestazione diffusa. Anche
in passato, al tempo di Berlusconi al governo, è accaduto qualcosa di
simile, ma non di uguale. L'insofferenza nei confronti della
Costituzione a me pare derivasse allora dalle esigenze di un potere
aggressivo. Oggi, l'atteggiamento è piuttosto difensivo. I fautori delle
‘ineludibili’ modifiche costituzionali dicono: c'è bisogno di
cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma lo scopo
dominante sembra l'autodifesa. Si tratta di ‘blindarsi’, per usare una
parola odiosa molto in voga. Il terrore delle elezioni, la vanificazione
dei risultati elettorali, i ‘congelamenti’ istituzionali in funzione di
salvaguardia vanno nella stessa direzione. “Vanificazione dei
risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in una democrazia. La
grande maggioranza degli elettori si è espressa a favore della fine del
berlusconismo. Invece è stato ricreato un assetto
governativo-parlamentare nel quale un cemento tiene insieme tutto quel
che avrebbe dovuto essere separato. Il Parlamento attuale, sebbene non
possa considerarsi decaduto per effetto della legge elettorale
dichiarata incostituzionale dalla Consulta, dovrebbe considerarsi
gravemente privato di legittimazione democratica. Ma si fa ormai finta
di niente. Non bisognerebbe far di tutto per rimettere le cose a posto?
Larghe intese versus Grillo. Le larghe intese sono la negazione
della dimensione politica. Sono il regime della paralisi, della stasi.
Platone paragona il buon politico al buon tessitore, al buon nocchiero,
al buon medico. Nei suoi dialoghi, non è mai detto che il politico è
colui che s'immagina come debba essere la convivenza nella polis: non si
aveva nell'antichità l'idea che la politica fosse fatta di
contrapposizione di modelli. L'idea della politica come scelta è una
novità moderna. Oggi sembra che si viva in un eterno presente, in cui
una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c'è
politica, e se non c'è politica non c'è democrazia, ma solo conflitti
personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore,
garanzie d'immunità. Quindi siamo senza futuro. Finché la palude non
viene smossa. Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta
si diceva ‘son tutti uguali’, intendendo ‘sono tutti corrotti’. Ma oggi è
peggio, si pensa: ‘tanto non cambia nulla’. È un effetto della stasi
politica. Il Movimento 5 Stelle è nato col dichiarato intento di
smuovere la palude, addirittura di investirla con una burrasca che
rovesci tutto. Una negazione, dunque. Ma, la politica deve contenere
anche un intento costruttivo. Questo, finora, non è visibile o, almeno,
non è percepito. Non che sia molto diverso, presso gli altri partiti,
solo che questi sono già radicati e godono perciò del plusvalore che
viene dall'insediamento istituzionale. Per chi si affaccia, un'idea
chiara e forte del ‘chi siamo’ e ‘per cosa ci siamo’ è indispensabile.
La tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta
alla corruzione che, di per sé, rischia d'essere solo una competizione
per la sostituzione d'una oligarchia nuova a una vecchia. Oltretutto, la
storia e la stessa ‘materia del potere’ mostrano che nella politica la
lotta contro la corruzione è senza prospettiva. Contro la corruzione
devono valere le istituzioni di controllo e l'intransigenza dei
cittadini. La politica è intrinsecamente debole. La ragione sta in
quella che, all'inizio del secolo scorso, è stata definita la ‘ferrea
legge delle oligarchie’, il che significa che i grandi numeri, per
essere governati, hanno bisogno dei piccoli. I piccoli – e
l'osservazione vale per tutti, anche per i 5 Stelle – prima o poi si
chiudono in se stessi e si alimentano con la corruzione, alimentandola a
propria volta. In difetto di politica, alla corruzione non c'è limite
perché essa, nei regimi autoreferenziali, non è la patologia, ma la
fisiologia del potere. Se si vuole: è la fisiologia dentro una
patologia. Senza speranza, dunque? Siamo di fronte a un bivio. Da
una parte c'è il progressivo arroccamento che, prima di implodere,
passerebbe attraverso misure, dirette o indirette, contro la democrazia e
la Costituzione. Dall'altra, la rianimazione della politica e la
riapertura dei canali della partecipazione, che dovrebbe portare al
rafforzamento della democrazia e della Costituzione. La prima strada è
pericolosa anche per chi volesse percorrerla, perché l'inquietudine
sociale, prima o poi, esploderebbe con esiti che non vorremmo nemmeno
immaginare. La seconda è difficile perché la politica non s'inventa a
tavolino scrivendo documenti, ma si costruisce quotidianamente nel
rapporto con i bisogni, le aspirazioni, le difficoltà e i dolori dei
cittadini. Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo
indietro ai sottosegretari indagati? La giovane ministra per i
rapporti col Parlamento ha detto che non si chiede a qualcuno di
dimettersi solo perché inquisito. Giusto. Altrimenti, la politica
sarebbe in balia non solo, o non tanto, della discrezionalità dei
giudici, ma soprattutto di denunce pretestuose o calunniose, alle quali
il magistrato deve dare corso. La questione però sta in quel “solo”.
Politica e giustizia hanno logiche diverse. Nulla vieta al governo di
difendere – fino a un certo punto – i suoi inquisiti con le ragioni che
gli sono proprie, cioè con ragioni politiche. Ma deve spiegare perché lo
fa, pur in presenza di motivi di sospetto; deve assumersene la
responsabilità; deve giustificare perché abbandona uno e protegge un
altro. Non basta dire che si tratta ‘solo’ di procedimenti penali
avviati e non conclusi (con una condanna). La presunzione d'innocenza
non c'entra nulla con la dignità della politica. Lei è mai stato
tentato dalla politica? Ciò cui mi sento più adatto è l'insegnamento.
Per la politica, soprattutto per la politica, occorrerebbe una vera
vocazione. Ricorda la conferenza di Max Weber intitolata, per l'appunto,
la politica come professione-vocazione? Ecco: non sento la vocazione.
C'è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflitto
d'interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere
disinteressato personalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla
tentazione di mettere se stesso, e i suoi interessi, davanti
all'oggetto dei suoi studi. Potrebbe esserci la tentazione di dire cose e
sostenere tesi non per amore della verità (la piccola verità che si può
andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quel potente che ti può
offrire, arruolandoti, una carriera politica. Perché la politica non
attrae più i migliori? Una volta avere in famiglia un deputato o un
senatore era come avere un cardinale. Oggi, talora, ci si vergogna
perfino. Ha visto quanti ‘rifiuti eccellenti’, opposti alla seduzione di
un posto al governo? Se la politica non ha prospettive ma è
semplicemente un girone d'affari, non servono politici, servono
affaristi. Vota? Ho sempre votato, malgrado tutto. C'è una pagina di
Non c'è futuro senza perdono del premio Nobel per la Pace e arcivescovo
di Città del Capo, Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio
dei neri del suo Paese che, acquistati i diritti politici dopo
l'apartheid, per la prima volta vanno a votare, piangendo. Attenzione a
dire che il voto è un orpello. Cosa pensa dell'Italicum nato
dall'accordo tra il Pd e Forza Italia? Non so che cosa ne verrà
fuori. Mi colpisce, comunque, che la legge elettorale sia decisa dagli
accordi d'interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano), invece
che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i
cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un
Parlamento delegittimato come l'attuale, si tratterebbe di fare la legge
più neutrale possibile. Mi colpisce che si pensi a una legge che,
contro un'indicazione precisa della Corte costituzionale, creerebbe una
profonda disomogeneità politica tra le due Camere. Mi colpisce che si
dica con tanta leggerezza che non importa, perché il Senato sarà
abolito. Mi colpisce che nel frattempo, comunque, si sospenderà il
diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere
impedirà di scioglierle. Mi colpisce che non ci siano reazioni adeguate a
questa passeggiata sulle istituzioni. E l'idea di “diminuire” il
Senato? Vedremo la proposta. Fin da ora, vorrei dire che piuttosto che
un pasticcio – interessi frammentati di politici locali con una
spruzzata di cultura –, piuttosto che una cosa indefinita, senza una
funzione, una propria ragion d'essere stabile e continuativa, meglio
l'abolizione radicale. Meglio il nulla, piuttosto che l'umiliazione.
Esistono già commissioni paritetiche, per la bisogna. Si cerchi di non
trattare le istituzioni come merce vile che si vende al qualunquismo
antiparlamentare al prezzo di qualche piccolo risparmio sul ‘costo della
politica’. I Senati, o ‘seconde Camere’, o ‘Camere alte’ hanno profonde
ragioni d'esistenza. Le loro funzioni, quali che esse specificamente
siano, si giustificano con l'esigenza di introdurre nei tempi brevi
della democrazia rappresentativa la considerazione d'interessi di più
lunga durata, che riguardano – come si dice – le generazioni future.
Sono assemblee moderatrici rispetto all'incalzare del consenso
elettorale che deve essere incassato a intervalli brevi dall'altra
assemblea. La prima Camera è necessariamente miope; la seconda Camera
deve essere presbite. Deve far valere le ragioni della durata su quelle
dell'immediatezza. La sua composizione e le sue funzioni dovrebbero
tener conto di questa vocazione, essenziale affinché la democrazia
rappresentativa non dilapidi in tempo breve le risorse di tutti,
nell'interesse elettorale di qualcuno. Mi pare che i discorsi dei nostri
riformatori restino molto in superficie, rispetto alla profondità della
questione. Non è un bel momento, anche per le istituzioni di
garanzia. Le istituzioni di garanzia sono la magistratura, dunque
anche la corte costituzionale, e il presidente della Repubblica. Poi c'è
la libera stampa, che dovrebbe vigilare nell'esercizio della sua
funzione al servizio della pubblica opinione. Siccome nelle oligarchie,
come si è detto, le segrete cose – trattative, patti non dichiarati e
dichiarabili, corruzione delle funzioni pubbliche – sono fisiologiche,
le istituzioni di garanzia e libera stampa dovrebbero fare da
contraltare quando occorre. In ogni caso, non mescolarsi e non
omologarsi. Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal
rapporto tra Rai e politica: è una commissione parlamentare che vigila
sul servizio pubblico – e sull'informazione che produce – e non il
contrario. Ben più che un paradosso. È uno dei grandi rovesciamenti
che ci tocca osservare in questi tempi. Non l'unico. Pensiamo ad esempio
al sistema elettorale. Dovrebbe garantire che la base della vita
politica stia presso i cittadini elettori. La logica della legge che
abbiamo avuto fino a ora e, con ogni probabilità, di quella che avremo
se la riforma andrà in porto, è invece quella della nomina dall'alto
(delle segreterie dei partiti), con ratifica degli elettori. Uno dei
principi del Fascismo era: ‘il potere procede dall'alto ed è
acconsentito dal basso’. Torniamo a Weber: cosa può indurre uno
studioso a rinunciare a un bene sommo quale l'autonomia? Le risposte
più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C'è però, credo,
la tentazione dell'apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’:
pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato a
Norimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il
nazismo a essere schmittiano’. Il pericolo non è essere costretti a
sostenere certe tesi a tutti i costi? Se si riferisce
all'atteggiamento di molti costituzionalisti nei confronti dell'ultima
fase della presidenza di Giorgio Napolitano, direi che è prevalsa l'idea
che il presidente della Repubblica fosse l'ultimo baluardo, al di là
del quale il caos, il disastro, il fallimento. Ciò ha portato a
giustificare l'assunzione di compiti e il compimento di atti che nella
storia costituzionale repubblicana, non si erano mai incontrati. Al
punto che si parla ormai come cosa ovvia, non problematica, d'una
repubblica presidenziale che ha preso il posto del sistema parlamentare.
Tutto ciò si è manifestato in un attivismo finora sconosciuto. Ma è
stato un attivismo orientato a quella che si dice essere la stabilità e
la continuità, e che si traduce in conservazione. Mi pare che si possa
dire che è prevalsa la paura del nuovo, il pessimismo politico. Solo
apparentemente per paradosso, l'attivismo costituzionale è coinciso con
il conservatorismo politico. La Costituzione, prevedendo un ruolo
neutrale e super partes, del presidente della Repubblica, dà, mi pare,
un'indicazione opposta: l'imparzialità costituzionale per consentire le
innovazioni politiche, il rinnovamento della vita politica. Ottimismo
politico.

Il
costituzionalista analizza la nuova politica e i rapporti
istituzionali, tra Parlamento, esecutivo e Colle: “Un sistema di potere
incartapecorito aveva bisogno di rifarsi il maquillage Se è vero, è
chiaro che occorrevano riverniciature Le larghe intese sono la negazione
della dimensione politica. Sono la paralisi”

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