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sabato 19 luglio 2014

Il ritorno di Telemaco a mani vuote

Il Corriere della Sera
18 luglio 2014 - Nessun Commento »
Antonio Polito
unione_europea_Telemaco è tornato a mani vuote, procellosa la sua navigazione nelle acque sconosciute dell’Europa. Per quanto sia lecito sperare in un ripensamento, la candidatura di Federica Mogherini a ministro degli Esteri dell’Unione sembra irrimediabilmente indebolita dall’ampio fronte contrario che ha cementato, soprattutto dopo l’abbattimento del Boeing e il drammatico aggravarsi della crisi ucraina. Non è la prima volta che una proposta italiana viene accolta con scetticismo: abbiamo impostato il nostro semestre sulla richiesta di più flessibilità e abbiamo ottenuto solo la generica promessa di un «buon uso» di quella esistente. Il peso politico ed elettorale di Renzi non sembra insomma tradursi in un maggior peso specifico dell’Italia. Perché? Come rimediare?

Sarebbe facile ora — ma lo era anche due settimane fa — individuare gli errori tattici. In Europa non basta annunciare qualcosa per ottenerla. I fatidici pugni sul tavolo non si sbattono certo prima ancora di cominciare il negoziato. Né è consigliabile entrarci con una proposta non negoziabile, su un candidato non irresistibile, minacciando un voto a maggioranza senza averne una. Mr. Pesc rappresenta 28 Paesi, Roma non ha dunque alcun diritto a scegliere l’italiano che vuole, deve piacere anche agli altri. E chiedere «rispetto per un Paese fondatore» è il modo migliore per irritare ulteriormente i 22 Paesi non fondatori, che hanno aderito all’Unione proprio sulla base del «rispetto reciproco».
Ma ci sono due incomprensioni più di fondo rivelate da questa vicenda: un peso eccessivo della politica interna e una fiducia eccessiva nella politica europea.
Non è infatti un mistero a Bruxelles ciò che ieri ha dichiarato un consigliere della Merkel: «Letta aveva buone chance , ma Renzi non lo ha proposto». Il punto cruciale del negoziato è infatti il posto di presidente del Consiglio. Carica pesante, per la quale è richiesto un premier o ex premier, possibilmente della zona euro, meglio ancora se parla inglese. Letta ha consenso, il profilo giusto, e in più è disoccupato, a differenza del leader polacco o di quello irlandese, che dovrebbero invece lasciare la politica nazionale. È comprensibile che Renzi non voglia rilanciare al governo dell’Europa un avversario politico che ha cacciato dal governo dell’Italia. Ma è anche giustificabile? Quella poltrona si aggiungerebbe al posto da commissario che ci spetta comunque, e che potrebbe andare alla Mogherini. Se c’è davvero anche una sola chance di provarci, ne vale la pena.
La seconda questione riguarda la politica europea. Si sopravvaluta in queste ore la svolta che sarebbe avvenuta con le elezioni, e il ruolo decisivo che avrebbe assunto la dialettica tra i partiti (in realtà sono agglomerati spuri, tant’è che vengono pudicamente definite «famiglie»). Mentre il caso Mogherini ci ha ricordato la sostanza dei rapporti di forza geo-politici, basati sull’interesse nazionale. Nell’Europa di oggi i gasdotti contano ancora di più dei partiti, e l’appoggio della famiglia socialista (peraltro al governo in una minoranza di nazioni) vale meno dell’opposizione di molti Paesi al South Stream. E se è vero che tutti i governi sono rimasti colpiti dal 40,8% di Renzi, è pur vero che ognuno pensa ai voti suoi. Al prossimo vertice di fine agosto, del semestre italiano saranno rimasti solo quattro mesi. Conviene riflettere bene, se si vuole usarli al meglio.

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