23 luglio 2014 - 3 Commenti »
Roberta De Monticelli
Le sentenze non si commentano. E infatti questo non è un commento a una sentenza di assoluzione di un potente accusato e in primo grado condannato, ma un esame dello stato d’animo di un cittadino che l’ha appresa. Se non è rappresentativo di uno stato d’animo diffuso, gettate via questa riflessione o lanciatele contro le vostre obiezioni. Ecco la fenomenologia di una relazione sentimentale che un cittadino intrattiene con la Legge. Non intendo quella morale che si dice viva invisibile in noi, come il cielo stellato splende su di noi. Intendo quella visibile e scritta, che da noi da molto tempo, ridotta a selva oscura nella lingua, opaca negli intenti, pletorica di manomissioni politiche, ha perduto ogni ambizione di rendere visibile la ragione della nostra coesistenza civile. Che questa ambizione uno Stato la perda quanto più dilaga la corruzione al suo interno è una correlazione nota già a Tacito: Corruptissima re publica plurimae leges. Ma il cittadino che forse rappresento è incompetente a giudicare nel caso particolare se lo strumento legislativo fosse o nonfosse capzioso, o se tale fosse o non fosse la sua applicazione. La questione è un’altra.
In altri tempi, tempi più drammatici – ma forse per questo meno desolati del nostro – una donna ebbe la vita sconvolta, perdendo il compagno della sua vita e padre delle sue figlie. Cercò giustizia e non l’ottenne. Dal fondo del suo limpido dolore disse una cosa che dovremmo insegnare ai nostri figli: chiedere giustizia non è chiedere punizioni, agitare cappi e forche. Perfino la sanzione, la sua giustezza, la sua effettività, la sua certezza, i suoi limiti – per quanto importanti siano nel diritto penale – sono in definitiva secondari in una domanda di giustizia. Un’altra cosa è immensamente più importante. Chiedere giustizia è chiedere che tutti sappiano la verità. Che tutti sappiano cosa veramente è successo, in modo che ogni coscienza possa giudicare nel proprio silenzio se e quale male sia stato fatto, da chi e come sia stato fatto, e perché. Tanto forte, tanto radicata in noi è questa domanda di verità, cuore puro della nostra esigenza di giustizia, tanto
vincolante la sua esigenza ideale, che l’abbiamo da sempre, in infinite forme pittoriche e religiose, rappresentata proprio nell’Idea del “giudizio universale”. Dove il momento culminante della giustizia non è l’esecuzione, ma la pronunzia del giudizio – o forse, dove la pronunzia è già l’esecuzione. È ciò che idealmente conta. Dove fiat justitia e fiat veritas coincidono. Poi, che l’inferno resti vuoto, che il paradiso ci risparmi la sua interminabile noia! Abolite le prigioni, trovate altri mezzi di difesa della sicurezza di prevenzione del crimine, di ri-socializzazione. Purché – questo l’irraggiungibile Ideale – tutti sappiamo che cosa, in verità, abbiamo fatto, e chi siamo. E questo vale anche riferimento a queste minuzie di una corruptissima respublica, che paiono inezie di fonte a tutte le immani ingiustizie che tormentano il mondo ai nostri confini o sotto i nostri occhi. Se muoviamo qui le Idee e gli Archetipi della nostra coscienza anche in riferimento a fatti – relativamente parlando – tanto ridicoli o meschini come quelli di cui era accusato l’ex-Cavaliere oram assolto, è precisamente perché è precisamente del ridicolo, anzi del meschino, che il male dell’indifferenza e della sfiducia si nutre con il suo cinico sarcasmo, quando sembra (dico sembra,
pronta alle smentite) che il pronunciamento della giustizia e la luce sulla verità dei fatti abbiano poco
o niente a che fare l’una con l’altra.
Ottenere giustizia è uno dei bisogni più profondi e personali dell’essere umano: ma che questo bisogno sussista profondissimo anche quando non siamo noi le vittime – questo è straordinario. E lo è anche il fatto che questo bisogno profondo e personale è soddisfatto nella sua ultima profondità solo quando “tutti sanno”. Ottenere giustizia è, al suo livello più profondo, non ottenere nulla per sé, ma luce per tutti. Il più personale dei bisogni si tramuta in una richiesta impersonale, anzi di più: tanto più profondo è il sollievo personale che la sua soddisfazione comporta, quanto meno mista di vantaggio personale è la contemplazione della verità accertata di fronte a tutti. E questa è l’essenza ideale dell’etica pubblica.
Un capo di governo telefonò una notte in una Questura perché una sua protegée fosse sottratta alle regole che valgono per tutti, portando a giustificazione una ridicola bugia. Ottenne quello che voleva. Un Parlamento votò sulla verità della bugia – o sulla sua buona fede. Un Tribunale d’Appello sciolse l’imputato dalla condanna e gli rese piena l’innocenza. E’ questa, la giustizia che ha nel suo cuore più profondo e puro una domanda di verità?
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