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giovedì 27 febbraio 2014

Province, l'Ars fa un passo i presidenti dei consorzi eletti dai consiglieri comunali

Un emendamento del governo chiama a eleggere i presidenti dei liberi consorzi i consiglieri comunali: la norma passa ma l'opposizione 
Insorge 
Saranno i consiglieri dei Comuni aderenti al consorzio a eleggere i presidenti dei consorzi stessi, che sostituiranno le Province regionali. Sala d'Ercole ha approvato un emendamento del governo, condiviso dalla commissione Affari istituzionali, stabilisce che il presidente venga eletto tra i sindaci facenti parte dell'assemblea del consorzio, non solo dai primi cittadini ma da tutti i consiglieri comunali dei comuni coinvolti, che, pur non facendo parte dell'assemblea dei liberi consorzi, si costituiscono quale "elettorato attivo" in occasione dell'elezione del presidente dell'ente. I presidenti potranno anche essere sfiduciati dalla stessa assemblea. Una norma che è stata definita dal presidente della Regione Crocetta "di mediazione per venire incontro alle richieste delle opposizioni". Ma le minoranze insorgono definendo il provvedimento dannoso e perfino incostituzionale.

Salva Roma, Marino: "Domenica blocco città". Renzi: "Faremo nuovo decreto, toni sbagliati" - Il Fatto Quotidiano

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Renzi, giro di boa per il Pd

Rossana Rossanda
Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell’introduzione alla nuova edizione di “Destra e sinistra” di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l’ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro.
Si conclude, con il nuovo governo e la sua carta di identità allegata su Repubblica da Matteo Renzi, l’ultimo giro di boa simbolico del Pd. Simbolico, perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo, ma dare il vero nome ai fatti non è cosa da poco (non è passatempo da giorni festivi, come verseggia Eliot a proposito del nome da dare al proprio gatto). Che il Pd precisi come la sua immagine non debba più essere a sinistra, o di sinistra, riconoscendo come sola discriminante culturale e sociale “il nuovo e il vecchio” non è una gran novità, il concetto ci svolazza attorno da un bel pezzo, ma affermare che il Pd non intende più collocarsi a sinistra resta uno scatto simbolico rilevante. Non solo infatti, come taluni vagheggiavano, non è più in grado di compiere scelte di sinistra, poniamo, da Monti, ma neppure mira più a farle e a questo scopo ha scelto come proprio leader “Matteo” per chiarirlo una volta per tutte. Non in parlamento – nessuno, a cominciare da Giorgio Napolitano ha tempo da perdere – ma su un giornale amico e a governo varato.
Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.
Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.
Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.

mercoledì 26 febbraio 2014

L'intesa

Perché Matteo piace a Silvio

Sandra Bonsanti

26 febbraio 2014 - 3 Commenti »
 renzi-berlusconiMa perché Matteo Renzi piace tanto a Silvio Berlusconi?
Perché l’opposizione di Forza Italia al governo Renzi appare assai più un convinto sostegno del sostegno ufficiale di grande parte del Pd?
E’ questa la domanda che agita le riflessioni di tanti cittadini, sul web e nei discorsi che ci scambiamo alla fine di questa lunga diretta televisiva sulla fiducia. Un anno fa oggi, Bersani era ufficialmente il perdente delle elezioni. Il suo destino si trascinò per una lunga attesa, poi venne Letta. Nel frattempo Matteo Renzi studiava: sia il partito, sia in genere il panorama politico della opposizione. Sono stati per il sindaco di Firenze mesi di guardarsi attorno, di osservare la situazione. Si è mosso da stratega deciso a non perdere “l’occasione” che vedeva profilarsi nella grande incertezza che regnava. Il suo sguardo indagatore era rivolto dunque sia all’esterno del Pd sia all’interno. Che cosa ha visto alla fine che lo ha convinto a fare il passo più sgradito, cioè accoltellare da segretario il presidente del consiglio del suo stesso partito?
Una prima risposta l’ho trovata nell’intervento per dichiarazione di voto del senatore Paolo Romani che sembrava scusarsi di non poter dare la fiducia: “… il confronto positivo che è nato tra due forze maggioritarie nel Paese e i rispettivi leader ha dato un segnale forte del fatto che un netto e condiviso bipolarismo può avere finalmente cittadinanza nel nostro Paese. Questo testimonia il venir meno dello storico pregiudizio tra centro destra e centro sinistra e può dare davvero il senso della nascita di quella che potremmo chiamare la Terza Repubblica. E’ un pregiudizio che si è tradotto per troppo tempo, in una tanto presunta quanto ridicola superiorità culturale e morale da parte della sinistra, fino a diventare un rabbioso e ottuso antiberlusconismo. Non lo accettiamo, non lo abbiamo mai sopportato e non intendiamo più tollerarlo. Siamo orgogliosi della nostra storia, dei nostri lavori, e delle nostre radici culturali… Forse questa è la volta buona perché due leader, come lei e il presidente Berlusconi, possano stimarsi, parlarsi, confrontarsi, scambiare le reciproche esperienze e i diversi progetti e possano collaborare per il Paese senza pregiudizi, senza scambi o poltrone, con il solo interesse del bene comune. Forse, come dice lei, presidente Renzi, è davvero la volta buona…”. A seguire la solita litania contro la sinistra giustizialista.
La citazione è un po’ lunga, ma siccome Romani parlò a tarda sera, forse è utile ricordare bene le sue parole.
Dunque, la Terza Repubblica, in cui finalmente l’antiberlusconismo “rabbioso e ottuso” non ci sia più. In sostanza il riconoscimento, finalmente, da parte degli ex avversari, di un Berlusconi leader politico “normale”.
Questo è ciò che serve alla destra italiana e al suo capo condannato dalla giustizia e sotto processo per odiosi reati. Alcuni ritengono che questo riconoscimento Renzi lo abbia conferito nell’invito al Nazareno, altri non sono di questo avviso. Certo è che il Cavaliere e i suoi uomini si ritengono oggi accreditati ad annunciare la nascita della Terza Repubblica.
I rapporti tra il presidente del Consiglio e Berlusconi sono avvenuti solo in parte alla luce del sole: al Nazareno, sì, ma poi anche nei cinque (?) minuti del faccia a faccia alla fine dell’incontro fra le delegazioni. E soprattutto con il lavoro intenso dell’amico fiorentino Denis Verdini. Un primo risultato concreto si è visto alla formazione del governo, con l’arrivo dell’amica Guidi in un ministero così “interessante” per il Cavaliere e con la cancellazione di Nicola Gratteri dal ministero della Giustizia.
Ma Renzi non ha guardato soltanto verso la destra del Cavaliere. Ha avuto modo di studiare bene il suo partito e ha fatto una piacevole scoperta: una sorta di mutazione genetica si era presa buona parte dell’anima del Pd e lo aveva reso simile, molto simile, ai craxiani di una volta. Il presidente della Repubblica migliorista completava piacevolmente lo scenario.
Ecco dunque la novità di questo governo. “Le regole si fanno con tutti” è il ritornello di Renzi. Con tutti, sì, quando “tutti” vuol dire coloro che le regole le riconoscono, le rispettano. La Costituzione si cambia con chi rispetta, prima di tutto, i principi stessi della Costituzione: con chi vuole aggiornarla e attuarla; non con chi da sempre la insidia e vuole distruggerla secondo le indicazioni della finanziaria J.P. Morgan.
Se questa è la Terza Repubblica, vorrei dire ridateci la Prima. Ma non lo dirò, ovviamente. Anche se non ho potuto fare a meno di andare con la memoria di cronista a una scena che avvenne mentre si votava presidente della Repubblica Sandro Pertini. Su un divano del Transatlantico avevo visto Pietro Nenni, solitario e imbronciato. Mi avvicinai e gli chiesi. “Onorevole, è venuto a votare per il suo vecchio amico?”. Sapevo che fra i due padri della Patria non c’era mai stato vero amore. Infatti Nenni mi rispose: “Sono venuto a votare e basta”.
Altri personaggi, altre storie. Ma quanti, in questi giorni, tra deputati e senatori sono andati a votare “e basta”? E fino a quando?

M5S, scoppia il caso delle firme false Mario Giarrusso attacca il capogruppo "Chiedo la sua espulsione dai 5 Stelle"


Polemiche

 Il senatore pentastellato denuncia: "Nelle mozioni di sfiducia presentate dal Movimento nei confronti di due ministri è stata falsificata la mia firma". Ennesima polemica nel giorno del caos per le espulsioni dei dissidenti







 M5S, scoppia il caso delle firme false 
Mario Giarrusso attacca il capogruppo 
Chiedo la sua espulsione dai 5 Stelle
Nel giorno delle polemiche sulle espulsioni, passa in secondo piano - come paventato da alcuni parlamentari, argomentando la loro contrarietà, durante l’assemblea che ha invece deciso l’espulsione dei quattro senatori «dissidenti» - l’attività dei gruppi 5 stelle.

Con una tempistica sfortunata, ad esempio, al Senato il Movimento ha depositato due mozioni di sfiducia per il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e quello dello Sviluppo economico Federica Guidi, «in conflitto d'interesse a causa delle loro responsabilità imprenditoriali e associative».

L’iniziativa rischia però di diventare un boomerang. E’ grave infatti la denuncia del senatore Mario Giarrusso, peraltro contrario alle espulsioni: «Risultano depositate a mio nome due richieste di sfiducia per due ministri del governo in carica. Non avendo mai firmato alcunché e non avendo mai visto simili atti, domattina depositerò presso le autorità competenti denuncia penale a carico dei responsabili».

I responsabili, cioè i suoi colleghi: «il responsabile» nota il senatore «può essere solo un senatore 5 Stelle e deve essere espulso dal M5S». Anche lui. «Chiedo una assemblea congiunta per l'espulsione di chi ha falsificato la mia firma», conclude Giarrusso.

All’Espresso Giarrusso dice anche di sapere chi è il colpevole: «mi dicono sia stato il capogruppo, ad averlo depositato», quindi il senatore Maurizio Santangelo. Certo sarebbe plateale l’espulsione del capogruppo di turno, «ma che ci possiamo fare», nota Giarrusso, «ha commesso un atto gravissismo, falsificando la mia firma, forse quella di altri, e depositando un atto che non è stato visto da nessuno».

«So che anche i dipendenti del gruppo hanno cercato di fermarlo», ricostruisce poi il senatore, «ma lui ha presentato lo stesso le mozioni. Non può esserci alcuna buona fede».

«Io sono ipercritico con il governo», precisa ancora Giarrusso: «lo sono nei confronti del ministro Guidi, berlusconiano, che dimostra l’esistenza di una maggioranza occulta Pd-Forza Italia», «potrei anche esser favorevole alla mozione, soprattutto perché purtroppo non esiste una legge sul conflitto di interessi», ma «non posso tollerare quello che è successo». E quindi «chiedo l’assemblea, la votazione e tutta la procedura per l’espulsione».
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I dissidenti


I 5 Stelle e la democrazia del web
26 febbraio 2014 -  

 grilloLa “rete” dopo aver decretato con il proprio voto l’espulsione della senatrice Gambaro dal M5S colpevole di un dissenso lesivo degli interessi del movimento, dovrà ora pronunciarsi sull’espulsione di quattro senatori proposta, con la medesima accusa, dall’assemblea dei gruppi parlamentari. Eppure le critiche levate a Grillo dai quattro apparivano del tutto logiche poiché il loro leader si era, di fatto, sottratto a quel confronto con Renzi che la base del movimento, consultata in rete, aveva richiesto. La gestione del dissenso non sembra riguardare il solo M5S se è vero che Civati si è detto costretto a votare la fiducia al governo Renzi, nei confronti del quale non aveva certo risparmiato critiche, per non pregiudicare la sua permanenza nel PD, ma la questione così come si pone nel M5S presenta aspetti che vanno ben oltre alla pura opportunità politica investendo alcuni presupposti che sono alla base della democrazia rappresentativa. Hegel diceva che “Ciò che insegnano l’esperienza e la storia è che i popoli e i governi non hanno mai imparato nulla dalla storia e non hanno mai agito in base agli insegnamenti che se ne sarebbero dovuti trarre”. Così, il M5S, che pensa di costruire una “vera democrazia” sulla base della “intelligenza collettiva” che scaturirebbe dal Web, è probabilmente inconsapevole di riecheggiare l’utopia Roussoviana della “volonté générale”, elaborata nel “Contratto Sociale”, in cui si immagina il popolo come una comunità deliberante animata da una precisa volontà, quella generale, che va per sua stessa natura verso il bene della comunità. I legislatori, quindi, non possono avere interessi e posizioni contrarie alla stessa. Il Contratto sociale sulla base del quale si legittima il potere, infatti, “contiene implicitamente questo impegno, che solo può dar forza agli altri: chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da tutto il corpo (politico), il che non significa altro che lo si forzerà a essere libero.” Questi principi furono ripresi nella costituzione dell’URSS che, avendo sostituito alla volontà generale la dittatura del proletariato, affermava: “Il deputato ha l’obbligo di rendere conto del suo lavoro e del lavoro del Soviet agli elettori ed anche ai collettivi e alle organizzazioni sociali che l’hanno presentato come candidato a deputato. Il deputato che non si sia mostrato degno della fiducia degli elettori può essere revocato in qualunque momento, per decisione della maggioranza degli elettori, secondo la procedura stabilita dalla legge” (articolo 107). La legge applicativa del dettato costituzionale stabilì poi che la revoca era affidata alle strutture di base del PCUS (sindacati, komsomol, collettivi di lavoro, etc.). Se ai Komsomol e ai collettivi sostituiamo blog e meetup, il gioco è fatto e l’espulsione dei dissidenti sacrosanta. Aveva, dunque, ragione il costituente stalinista? Il parlamentare è solo l’impersonale terminale di una volontà popolare che si assume assoluta e univoca (mentre è un coacervo di interessi, spinte emotive, pregiudizi e approssimazioni) o è la persona che, culturalmente affine al nostro sentimento, consideriamo attrezzata per approfondire, confrontarsi e mediare in un contesto socio-economico-culturale che sappiamo essere eterogeneo? Possono i membri dell’assemblea dibattere al fine di arrivare a una determinazione maggioritaria data dalla somma di singole, autonome e libere determinazioni? Negare al parlamentare la libertà di valutare e definire una propria autonoma volontà (ovvero ammettere un vincolo di mandato imperativo in spregio dell’art 67 della Costituzione), non significa negare la ragione stessa di un organo assembleare e i fondamenti della rappresentanza? Ammetterlo, invece, non significa il dovere di accettare il dissenso e anche di tutelarlo da ogni possibile coercizione o ritorsione? In queste scelte è l’atto di nascita delle liberal-democrazie o la loro constatazione di morte. Allora il problema, di fronte alla crisi della rappresentanza che questi episodi denunciano, è: cosa vivrà al di là della loro morte? Il nazismo, il fascismo e il socialismo reale non si sono mai qualificati come movimenti antidemocratici bensì, paradossalmente, come democrazie più compiute e autentiche delle altre in quanto meglio delle altre incarnavano la “volontà popolare”. Non sembra sfuggire a questa drammatica degenerazione la democrazia del web.

martedì 25 febbraio 2014

Renzi e la sindrome dell'amico del bar - Il Fatto Quotidiano


 Una delle cose fondamentali che t’insegnano al primo anno d’Accademia, quando inizi ad approcciarti alla recitazione è sconfiggere la sindrome dell’amico del bar. La sindrome dell’amico del bar consiste in quell’insieme di ammicchi, sorrisi, auto denigrazioni con cui l’attore principiante interrompe la sua improvvisazione o il suo monologo, con la finalità di ottenere la benevolenza del pubblico.
Secondo un meccanismo psicologico molto semplice, questo atteggiamento tende a dissacrare quanto si sta facendo e a creare una complicità con i compagni (che in queste occasioni fanno da pubblico) che annulli la distanza tra chi è sopra e chi è sotto il palcoscenico: grazie alla sindrome dell’amico del bar, colui che si esibisce si rende immune al giudizio, in quanto non percepito come elemento esterno al gruppo, e scongiura così il rischio che la prestazione possa essere valutata seriamente.
Ciò che gli insegnanti si sbracciano a spiegare agli studenti che credono di aver trovato lo stratagemma per farla franca è che la sindrome dell’amico del bar è quanto di più lontano esista dal lavoro dell’attore, che ha invece come compito prioritario quello di calarsi completamente nel ruolo da interpretare, abbandonando tutte le contaminazioni col quotidiano; l’effetto collaterale della sindrome dell’amico del bar è una condanna all’amatorialità e al dilettantismo perpetuo, o per meglio dire al non essere presi sul serio dagli altri come risultante del non prendersi sul serio da soli.
Oggi, Matteo Renzi, con il suo discorso a Palazzo Madama, ci ha dato una dimostrazione pratica di come la sindrome dell’amico del bar sia riscontrabile anche in politica.
Il neo premier, essendosi dimenticato di passare in macelleria a comprare l’arrosto, ha riempito l’aula di fumo, ma nella paura che lo stratagemma dell’imbastita general-generica non gli valesse la fiducia, ha preferito schernirsiironizzareammiccare alle reazioni di Calderoli o promettere di volere tanto tanto bene ai deputati Cinque Stelle anche se loro saranno molto cattivi. Dopo aver aperto le danze citando la Cinquetti, dopo non aver spiegato (a differenza di quanto aveva promesso) come mai abbia disarcionato il governo Letta ma ribadendoci che Letta è tanto caro, dopo essersi sbizzarrito in tautologie demagogiche su sogni, obiettivi, concretezze e ideali, dopo aver attaccato il siluro più astratto del secolo sulla scuola, dopo aver scherzato sulla signora che lo ha fermato per dirgli che se il Presidente lo fa lui lo possono fare proprio tutti, dopo aver parlato di macchina pubblica che appesantisce e burocrazia da snellire senza accennare minimamente a come, dopo averci raccontato tutte le telefonate che ha fatto nelle ultime 24 ore, il nuovo Presidente del Consiglio deve essersi sentito tranquillo del non aver mostrato neanche un accenno di gravità ed autorevolezzache potessero far sentire ai signori sugli scranni la distanza dal palcoscenico e lo rendessero valutabile.
E’ mancato solo che li chiamasse per nome uno per uno (per un attimo lo abbiamo temuto); in compenso, però, il Presidente del bar ha tessuto l’encomio del compromesso, rassicurando la cosiddetta opposizione che ci si metterà d’accordo su tutto (su cosa però non ce lo ha detto) e ha messo bene in chiaro che un vero premier gli amici del bar non li dimentica.

'Ndrangheta, uomini dello Stato al servizio della cosca. L'ordine era: "Non indagare" - Il Fatto Quotidiano

'Ndrangheta, uomini dello Stato al servizio della cosca. L'ordine era: "Non indagare" - Il Fatto Quotidiano

Governo, Renzi al Senato meno voti di Letta. "Camera, poi si inizia a lavorare" - Il Fatto Quotidiano

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lunedì 24 febbraio 2014

Il Treno In Difesa Della costituzione per Tsipras

Otto donne al governo? Si, beh, e allora? - micromega-online - micromega

Questo governo è brutto tanto quanto quello precedente. Le donne, in
veste di madri istituzionali, servono a legittimarlo. E quelle donne che
celebrano questo dato come una vittoria non ho la più pallida idea di
quale sia la direzione che stanno perseguendo. Io, che lotto per
ottenere pari diritti, ma pari per davvero, per chiunque, non capisco
come le donne che dicono di lottare per la propria “dignità” accettino
di fare da puntelli legittimanti del patriarcato, perché è questo che
siete. Siete puntelli delle peggiori istituzioni patriarcali e del
peggio paternalismo esistente. Puntelli, complici di un neoliberismo che
straccia diritti per la povera gente, privatizza, massacra, svende lo
stato sociale e poi immagina che qualche femmina al governo possa far
sembrare tutto un po’ più bello.

Vi regalo uno scoop: i governi
di stampo patriarcale, perfino le grandi dittature, hanno elevato le
donne ancora a rappresentare i regimi. Vuol dire forse che furono
migliori? No. Chiedetevi il perché.

Basta strumentalizzare i corpi delle donne. Il movimento a tutela dei corpi delle donne non ha nulla da dire adesso?

Otto donne al governo? Si, beh, e allora? - micromega-online - micromega

Il Renzicchio - micromega-online - micromega

Il Renzicchio - micromega-online - micromega

Il governo della Menzogna - micromega-online - micromega

Il governo della Menzogna - micromega-online - micromega

Il discorso di Renzi al Senato (in breve) - Il Fatto Quotidiano

Strepitoso il coraggio nel ringraziare Letta, roba che in confronto Bruto era iscritto ad Amnesty International. Mimica arrogante e sborona, con tanto di mani in tasca e sorrisetto “io so’ figo” (‘nzomma), ma più arrivavano fischi dal M5S e più si innervosiva, fino al ricordare piccatamente che “Io ho vinto in Basilicata e voi no” (il passo successivo sarebbe stato: “Mia mamma mi ha fatto il panino con la mortadella ma lo mangio tutto io e a voi non ve lo do, tiè”). A guardarlo sembrava “uno di quei bambini a cui il maestro ha messo la lode e gongola davanti ai compagni” (cit. Michele Bello). Stampa e tivù lo hanno abituato a non ricevere critiche: in Parlamento sarà appena diverso. E anche gli applausi del Senato non mi sono parsi esattamente calorosissimi.
Tanti buoni – o accettabili – propositi, che però muoiono sul nascere perché Parlamento e maggioranza rimangono gli stessi di quelli di Letta, e parlare di “cambiamenti” e “sfida epocale” con accanto Alfano e Lupi fa ridere gli zebedei. Sarà un tirare a campare, altro che “una riforma al mese” – infatti l’Italicum adesso va approvato non più “entro febbraio” ma “entro sei mesi”. È stata la solita zuppa del Renzi: dire nulla ma dirlo bene, vendere fumo e neanche di gran qualità (ma saperlo vendere).  Un discorso da 5.5 o 6-. Molto abile a dare enfasi alle supercazzole, Matteo Renzi resta un furbacchione di medio talento che ne abbindolerà tanti: oltre l’ambizione non c’è di più, ma a molti italiani – per un po’ – basterà.Il discorso di Renzi al Senato (in breve) - Il Fatto Quotidiano

Renzi – il potere e il tradimento


MicroMega da ListaTsipras.eu

24 febbraio 2014 - 3 Commenti »

Barbara Spinelli
renziÈ fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi. Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il «poodle di Bush jr», il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico. Non dimentichiamo, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare. Fu lui a non volere che i Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: «Noi, il popolo….». Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla city.
Renzi è consapevole di queste cose, o parla di Blair tanto per parlare? E il ministro degli Esteri Mogherini in che cosa è meglio di Emma Bonino, che al federalismo europeo ha dedicato una vita e possiede una vera competenza? Federica Mogherini ha concentrato i suoi interessi sulla Nato innanzitutto, e poi sull’Europa. Chissà se è consapevole della degradazione dell’Alleanza atlantica, nei catastrofici dodici anni di guerra antiterrorista. Ma ancor più inquietante è la rinuncia, in extremis, a Nicola Gratteri ministro della Giustizia. Questo sì sarebbe stato un segnale di svolta. La sua battaglia contro il malcostume politico e le mafie è la risposta più seria che l’Italia possa dare ai rapporti dell’Unione che ci definiscono il paese più corrotto d’Europa.
Non è ancora chiaro chi abbia lavorato contro la nomina di Gratteri. Forse il Quirinale, per fedeltà alle Larghe intese; di certo le destre di Alfano e Berlusconi, con il quale Renzi vuol negoziare le riforme della Costituzione. È stato detto che non è bene che un pm diventi guardasigilli. Anche qui, la rimozione e l’oblio regnano indisturbati: nel 2011, il Quirinale firmò la nomina del magistrato di Forza Italia Nitto Palma, vicino al Premier Berlusconi e Cosentino. Evidentemente quel che valeva per Nitto Palma è tabù per Gratteri. Il veto al suo nome è ad personam, e accoglie la richiesta della destra di avere un ministro «garantista» (garantista degli imputati di corruzione, di voto di scambio, di frode fiscale, ecc). Al suo posto è stato scelto un uomo di apparato, Andrea Orlando, che solo da poco tempo si occupa di giustizia, che ha fatto la sua scalata prima nel Pci, poi nel Pds, poi nei Ds, poi nel Pd. Nel governo Letta era ministro dell’Ambiente. Auspica – in profonda sintonia con Berlusconi – la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere dei magistrati.
Infine il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Recentemente ha preconizzato l’allentamento delle politiche di austerità, che aveva difeso per anni. Non ha neppure escluso l’utilità di una patrimoniale. Ma di questi tempi tutti, a parole, sono contro l’austerità. Vedremo cosa Padoan proporrà in Europa: come passerà – se passerà – dalle parole agli atti. Al momento non vedo discontinuità tra lui e Fabrizio Saccomanni. Naturalmente può darsi che Renzi farà qualcosa di utile per l’Italia: prima di tutto su lavoro e fisco. Non mi aspetto niente di speciale sull’Europa, per i motivi che ho citato prima.
Non credo nemmeno che creda in quel che è andato dicendo per mesi: «Niente più Larghe Intese!», o «Mai a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale». Altrimenti non avrebbe guastato tante parole nel giro di poche ore, giusto per andare a Palazzo Chigi e presentarsi – terzo Premier nominato – in un Parlamento di nominati.

Più scuola, meno burocrazia: Renzi chiede la fiducia, ma scorda Mezzogiorno e lotta alle mafie


Il premier: "Se falliremo sarà solo colpa mia"
ROMA -  Agli attacchi grillini, mentre parla, risponde che si era davanti ad un bivio: o così, o elezioni. Matteo Renzi sa già che dovrà temere più di tutti i parlamentari 5 stelle durante il suo mandato, perché Forza Italia degli amici Berlusconi e Verdini non farà barricate, contro il governo "di svolta", come lui lo battezza. "Andare alle elezioni? - ammonisce il premier - noi non abbiamo paura, siamo abituati a candidarci". Però, "avremmo preferito un chiaro mandato elettorale", aggiunge, sulla scia di Max Catalano, il filosofo dell'ovvio. Ma ormai è fatta: "Propongo che questa sia la legislatura della svolta", per "indicare una prospettiva di futuro" e dopo aver vissuto "il semestre europeo come l'occasione per sei mesi di guidare le istituzioni dell'Europa", poter "guidare per vent'anni politicamente l'Europa". Il ventennio di Renzi si apre così, tra i mugugni del M5S e un bonario Piero Grasso che tenta di riportare l'ordine nell'aula di Palazzo Madama.
 "Chiediamo fiducia a questo Senato - spiega Renzi - perché pensiamo che l'Italia abbia la necessità di recuperare fiducia per uscire dalla crisi, è arrugginita, impantanata da una burocrazia asfissiante. L'idea che le norme succedute negli anni non hanno prodotto il risultato auspicato è sotto occhi di tutti. O si ha il coraggio di scelte radicali" o "perderemo il rapporto con chi da casa continua a pensare alla politica".  Scuola, lavoro, capacità di attrarre investimenti sono le stelle polari del nuovo esecutivo. Vaste programme, ma il rottamatore snobba il Mezzogiorno, il tema dell'Italia a due velocità, e quello della lotta alle mafie. Renzi annuncia un'immediata riduzione a due cifre del cuneo fiscale. Entro giugno arriverà anche pacchetto di revisione della giustizia, a partire da quella amministrativa. E qui, visti i rapporti di non belligeranza con Forza Italia, a qualcuno scorre un brivido lungo la schiena.
 "L'educazione che si dà nelle scuole è motore dello sviluppo - afferma il presidente del consiglio -, ho in mente di entrare ogni mercoledì nelle scuole da premier se otterrò la fiducia: comincerò da Treviso, dal Nord Est, la prossima settimana si sarà il Sud".  Incentivi ai docenti, esercito demotivato e mortificato, ed edilizia scolastica, con un "programma straordinario, sono le direttrici della politica sull'istruzione. Domani "scriverò una lettera ai colleghi sindaci, 8 mila, e ai presidenti delle province sopravvissuti" per fare "un punto sulla situazione dell'edilizia scolastica seguendo il ragionamento del senatore Renzo Piano che qualche giorno fa ha proposto di 'rammendare' le periferie". Meno burocrazia, più investimenti da attrarre. "Il primo impegno è lo sblocco totale dei debiti della Pubblica Amministrazione - promette - attraverso un diverso utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti". Far ripartire l'economia è la priorità. Invero lo era anche dei precedenti governi, ma il Paese è rimasto al palo.
"Mentre qualcuno si divertiva - è la stoccata di Renzi al Parlamento - il pil ha perso punti, la disoccupazione giovanile è aumentata, la disoccupazione è passata dal 6,7% al 12,6%. Questi non sono numeri di una crisi, sono numeri di un tracollo". Altrimenti, non saremmo di fronte all'ennesimo uomo della provvidenza. E lui conferma: "Se falliremo, sarà solo colpa mia".

Mafia e politica al Nord, ecco la mappa: 74 casi, il record a Milano con 18 - Il Fatto Quotidiano

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domenica 23 febbraio 2014

Governo Renzi, tra Confindustria e Coop l’esecutivo nasce nel segno delle lobby

ei in: Il Fatto Quotidiano >

Entrano nell'esecutivo Padoan, Poletti e Guidi. E' dal tavolo di quest'ultima, salita al ministero dello Sviluppo - figlia di Guidalberto che non ha mai nascosto le simpatie berlusconiane - che passeranno i dossier su frequenze tv e digitale, core business dell'impero berlusconiano

Governo Renzi, tra Confindustria e Coop l’esecutivo nasce nel segno delle lobby
Potrebbero essere chiamati i magnifici tre. Uno. Federica Guidi, industriale appassionata dei best seller di Giulio Tremonti, figlia di Guidalberto, imprenditore storicamente vicino al centro destra – poche sere fa è stato avvistato a cena ad Arcore – amica dell’ex ministro Pdl Maurizio Sacconi, e favorevole all’abolizione dell’articolo 18. Due. Giuliano Poletti, già sindaco e segretario della federazione del Pci di Imola, dal 2002 presidente di Legacoop. E tre. Pier Carlo Padoan, ai tempi consigliere di Massimo D’Alema e di Giuliano Amato, direttore di ItalianiEuropei, la fondazione legata allo stesso D’Alema, capoeconomista prima del Fondo Monetario Internazionale e poi dell’Ocse, finito pochi mesi fa a dare i numeri sull’Italia (Istat).
In comune hanno Matteo Renzi, che li ha nominati rispettivamente ministro dello Sviluppo Economico, del Lavoro e dell’Economia. Rappresentano di fatto l’evoluzione 2.0 del governo di larghe intese. Un po’ di tradizioni e legami delle coop rosse e del terzo settore, miscelati con l’imprenditoria che non disdegna la delocalizzazione. Il tutto condito con la politica del cacciavite che piace ai contabili di Stato che amano la crescita ma sempre con una spruzzata di rigore. Insomma, che cosa uscirà dai tre ministeri economici del governo Renzi è ancora presto per dirlo. Certo sarà frutto del primo esperimento di dicasteri geneticamente modificati.
Sono stati infatti in molti a stupirsi quando hanno sentito il nome della Guidi allo Sviluppo. Nel 2012 circolò la voce di una sua nomina come numero due di Silvio Berlusconi nella ri-nascente Forza Italia. Lei smentì. O meglio ebbe a dichiarare: “La politica è una cosa molto lontana da me, ma nella vita vale per tutti mai dire mai. Io sono una fatalista”. Tant’è che il fato l’ha portata ora in via Molise dove tra le partite più grosse che dovrà affrontare (oltre ai 160 tavoli aperti di crisi aziendali) c’è la questione delle frequenze tivù del digitale terrestre, lo scorporo della rete Telecom, la riorganizzazione della rete dei distributori di carburanti e la riforma del mercato dell’Rc Auto. Per non dimenticare lo sviluppo dell’agenda digitale fondamentale per le aziende. A meno che non le si voglia far scappare all’estero. Tema a lei caro. Nel 2005 in un’intervista rilasciata al Giornale assieme al padre sentenziò che per “restare competitivi dobbiamo avere un basso costo del prodotto. Quindi un basso costo della manodopera. In Italia il costo varia dai 18 ai 21 euro, in Croazia è di poco superiore ai tre, in Romania è inferiore a un euro”. Strada percorsa con successo come dimostrano le aziende di famiglia. Ora da ministro forse avrà cambiato idea anche perché difficilmente riuscirà ad andare d’accordo con Padoan. Pur condividendo l’allergia con l’articolo 18, l’ex uomo dell’Ocse nel suo recente rapporto Going for growth ha delineato la strategia di crescita dell’Italia. Consiglia di ridurre il cuneo fiscale. E di aumentare la protezione sociale delle categorie più deboli. Passando dalla tutela del posto di lavoro a quella del reddito. Addio posto fisso, insomma, ma buste paga decisamente più ricche. Non certo paragonabili ai livelli della Romania e per fortuna.
Più o meno lo stesso vocabolario del neo ministro al Lavoro che in una recentissima intervista ad Avvenire ha benedetto il Jobs Act di Renzi. Soprattutto l’idea di garanzie progressive. “Tutti gli elementi che facilitano l’ingresso nel mercato del lavoro, in particolare per i giovani, vanno giudicati positivamente: dagli incentivi per assumere under 30, all’introduzione del contratto d’inserimento a tutele progressive”, ha dichiarato Poletti. “Assieme a queste proposte contenute nel documento di Renzi, bisogna promuovere l’autoimprenditorialità. Un’altra idea interessante può essere quella di sfruttare la leva del servizio civile. L’esperienza passata ci insegna che in quel campo ci sono molti sbocchi professionali”.
Piuttosto che restare a casa senza lavoro fino a 35 anni, un giovane potrà dedicarsi al volontariato per fare formazione e prepararsi al mercato del lavoro. Da chiarire come camperà e con quale busta paga. Dettagli a parte, la magia di Renzi sembra aver trovato tra i tre ministri più punti in comune di quanto i rispettivi curricula potessero fare pensare. Senza dimenticare l’effetto ricaduta sulle coperture politiche. Dopo due mesi di martellamento contro il governo Letta, la Confindustria di Giorgio Squinzi probabilmente cambierà registro. La Guidi farà da garante. Per l’altra metà di Confindustria, quella legata a Montezemolo, il neo premier non ha certo bisogno di garanzie. Sul fronte riforme fiscali e tasse potrà dirsi in una botte di ferro. L’Europa ha un filo diretto con Padoan tanto quanto il presidente della Repubblica Napolitano via Giuliano Amato. Infine il mondo delle Coop rosse si trova a riconquistare il proprio posto al sole. Dovrà solo fare un po’ di spazio a Cl. Ma lì lo sguardo resta rivolto (Maurizio Lupi è stato confermato ministro) alle infrastrutture.  

Spagna, altro che il rilancio dell'occupazione. Crescono solo i mini-lavori - Il Fatto Quotidiano

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L’Euro? Fu un regime change – Il “no euro” magistrale del prof. Guarino. Oggi la seconda parte

 
da: IlFoglio.it
PARTE PRIMA: Un golpe di nome euro
euroIn questi giorni il Foglio pubblica a puntate un magistrale saggio “no euro”.
L’autore è Giuseppe Guarino, giurista classe 1922, uno dei primi professori ordinari di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, dove esaminò tra gli altri Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, poi anche ministro delle Finanze (1987) e dell’Industria (1992-’93).
Ieri è uscita la prima parte, introdotta da un articolo di Antonio Pilati. Nel numero di oggi, accompagnata da questo approfondimento di Franco Debenedetti, la seconda parte. Domani la terza e ultima.
Guarino già nel 2012 pubblicò analisi lucide e controcorrente sugli accordi legali con cui l’Unione europea – soprattutto su spinta del paese leader, la Germania – stava cercando di vincolare i suoi conti pubblici. Fonti giuridiche alla mano, il professore sostenne – anche in una lunga intervista a questo giornale – che l’impegno a mantenere il bilancio in pareggio o in avanzo era semplicemente “inapplicabile”. Gli articoli del Fiscal compact, infatti, contraddicevano gli stessi trattati costitutivi dell’Unione europea su cui si fondavano; questi ultimi fissavano al 3 per cento il limite di indebitamento netto possibile per ogni stato, cioè garantivano una discrezionalità della politica fiscale che invece sull’onda della crisi è stata requisita. Con effetti economici, argomentava in seconda battuta Guarino, disastrosi. A un anno di distanza da quel primo saggio, il professore – le cui tesi sono state discusse anche dalla stampa tedesca, oltre che da economisti e giuristi italiani – ha approfondito ulteriormente la sua analisi giuridica del processo di integrazione comunitaria. Arrivando a datare, al 1° gennaio 1999, un “colpo  di stato”, espressione “usata quando si modifica in aspetti fondamentali il sistema costituzionale di uno stato – scrive – con violazione delle norme costituzionali vigenti”. Come si realizzò dunque questo golpe? Attraverso un regolamento comunitario, il numero 1466/97 per la precisione, con cui “in ciascuno degli stati membri viene cancellato il diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi stessi vengono assoggettati”. Già quel regolamento, imponendo il pareggio di bilancio contro la stessa lettera dei Trattati, per di più alla chetichella e senza quella pubblicità che perlomeno caratterizzò la stipula del Fiscal compact oltre dieci anni dopo, privò di fatto gli stati democratici della loro politica fiscale. Il tutto in funzione dell’introduzione della moneta unica. Con l’entrata in vigore del regolamento, però, “la democrazia è stata soppressa”, scrive Guarino guidando il lettore tra ricostruzione storica e analisi del diritto, tra responsabilità politiche e colpe individuali, fino a immaginare possibili vie d’uscita. La scrittura del giurista è piana e lineare, le sue argomentazioni approfondite e mai reticenti, attraenti ma pur sempre falsificabili. Tutto ciò rende il testo “magistrale”, per l’appunto, che lo si condivida o meno. Nell’attesa delle elezioni europee, che secondo molti dovrebbero sancire l’avanzata senza precedenti dei partiti anti euro, il saggio costituisce un utile banco di prova per quelle élite che – come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera – non vorranno limitarsi a “esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passe-partout (che non spiegano nulla) come il termine ‘populismo’”. Una sfida intellettuale per classi dirigenti pronte a guidare l’opinione pubblica, certo, ma non imprudenti a tal punto da inscenare una insostenibile “ribellione delle élite”.
di Marco Valerio Lo Prete

L’Euro? Fu un regime change

La seconda puntata del saggio del professor Guarino

Indagine giuridica attorno a un codicillo illegale che ha frenato la nostra economia dal 1999. Effetti economici e politici di una decisione presa nelle stanze di Bruxelles. Una svolta in stile rivoluzione francese o bolscevica, col feticcio della stabilità
Quella di oggi è la seconda puntata di un lungo saggio “no euro” scritto dal professore Giuseppe Guarino. (La prima puntata l’abbiamo pubblicata ieri sul Foglio, la terza e ultima uscirà domani). Guarino, subito dopo la Seconda guerra mondiale, divenne uno dei primi ordinari di Diritto pubblico nel 1953. Insegnò a Sassari (suo assistente fu anche Francesco Cossiga), poi a Napoli, infine alla Sapienza di Roma. In politica fu con la Democrazia cristiana, e proprio con il sostegno della Dc divenne ministro delle Finanze nel 1987 e dell’Industria nel 1992-’93.
Secondo il giurista, il tentativo comunitario di creare una moneta unica a immagine e somiglianza del marco, deragliò presto. In prima battuta, infatti, il Trattato di Maastricht aveva assegnato agli stati l’obiettivo fondamentale di perseguire “la crescita”, offrendo loro anche la possibilità di indebitarsi (a certe condizioni stringenti). Poi però, a ridosso della creazione dell’euro, la Commissione stilò un regolamento, il numero 1466/97, che contraddiceva lo stesso Trattato di Maastricht, spingendo gli stati sulla strada rigorista del pareggio di bilancio a ogni costo. Per Guarino si è trattato di un “golpe”, tecnicamente inteso: i Trattati furono di fatto cambiati, senza dibattito pubblico e senza nemmeno seguire le procedure giuridiche corrette. Stesso discorso, per Guarino, si è ripetuto di fatto con il Fiscal compact siglato dai capi di governo nel 2012.
Il saggio rifugge accuse generiche e complottistiche, è ricco di tesi e argomentazioni controllabili, dunque falsificabili. Alla vigilia del voto europeo, e in una fase convulsa del processo di integrazione comunitaria, una buona lettura per euroscettici ed euroentusiasti, purché consapevoli. (mvlp)

La differenza tra il Trattato sull’Unione europea (Tue, o Trattato di Maastricht) e il regolamento 1466/97 attiene al vincolo che nelle discipline occupa la posizione “centrale”. Il Tue fissa un obiettivo, uno sviluppo conforme al disposto dell’articolo 2, il cui conseguimento è affidato alle politiche economiche di ciascuno degli stati membri, ciascuna delle quali avrebbe dovuto tenere conto della specificità delle concrete condizioni della economia del proprio paese. Le politiche economiche avrebbero potuto utilizzare all’occorrenza, quale strumento per realizzare l’obiettivo, l’indebitamento nei limiti consentiti dall’art. 104 c), da interpretare e applicare in conformità ai criteri fissati negli alinea e nei commi 2 e 3 del punto 2 dell’art. 104 c).
Il regolamento però abroga tutto questo. Le politiche economiche degli stati sono cancellate. E’ cancellato conseguentemente qualsiasi apporto degli stati. Il ruolo assegnato dal Tue [art. 102 A, 103 e 104 c)] all’obiettivo dello sviluppo, che l’attività politica degli stati avrebbe conseguito, realizzandolo in conformità a quanto prescritto negli artt. 2 e successivi del Trattato, è cancellato. All’obiettivo dello sviluppo è sostituito un risultato consistente nella parità del bilancio a medio termine. Gli stati, secondo il Tue, avrebbero conseguito l’obiettivo, valutando nella propria autonomia i limiti, le condizioni e le strutture del proprio paese. Il grado di conseguimento sarebbe stato necessariamente diverso da paese a paese, e per ciascun paese di anno in anno. Il risultato che il regolamento sostituiva all’obiettivo avrebbe dovuto invece essere eguale per tutti i paesi e in tutti gli anni per ciascun paese. Se le strutture o le condizioni monetarie non avessero consentito di conseguire la crescita, la politica economica dello stato ne avrebbe tenuto conto. All’opposto, nella disciplina del regolamento, se strutture o condizioni avessero ostato alla realizzazione del “risultato” della parità, si sarebbero dovute modificare le strutture e incidere sulle condizioni, non si sarebbe potuto venire meno all’obbligo perentorio della parità nel bilancio. Un totale capovolgimento, dunque, nel rapporto tra moneta e realtà. Secondo il Tue, se vi è contrasto, è la gestione della moneta a doversi adeguare alla realtà. Secondo il regolamento, è la realtà che deve adeguarsi alla moneta.
Qui potremmo anche fermarci. Ai fini della dimostrazione che al 1° gennaio 1999 è stata immessa sui mercati una moneta diversa da quella progettata da Pöhl, Delors e Carli, quanto detto è più che sufficiente. La moneta, quale disciplinata dal Tue, era stata giudicata dal suo diretto responsabile e utilizzatore, il presidente Pöhl, corrispondente al preesistente “marco”. Per forza logica l’“euro” oggi circolante, disciplinato da norme diverse da quelle del Tue, non può per definizione considerarsi simile al vecchio “marco”.
Sarebbero dovuti sorgere immediati dubbi sulla idoneità dell’euro voluto dal regolamento a produrre crescita. Il marco era stato fattore di sviluppo. L’“euro falso” ha cancellato i poteri e i mezzi di cui gli stati avrebbero potuto e dovuto avvalersi per produrre sviluppo. Il regolamento non li ha sostituiti con altri poteri e mezzi. L’effetto di crescita, quale avrebbe dovuto prodursi in conseguenza naturale dell’obbligo imposto come permanente a tutti indistintamente gli stati, era affermato in via “assiomatica”. Non trovava conferma in alcuna esperienza. Il debito pubblico del Regno Unito nel secolo della rivoluzione industriale e della espansione imperialistica superò quello antecedente o contemporaneo di qualsiasi altra economia. L’indebitamento statunitense, negli anni dal 1939 al 1945 aumentò vertiginosamente da poco più del 40 per cento a oltre il 100 per cento. Furono immediatamente riassorbiti quindici milioni di disoccupati. Consentì agli Stati Uniti di uscire dalla guerra quale principale potenza politica, militare, economica e scientifica nel mondo. Se non sono reperibili esperienze storiche conformi, se non vengono addotte a sostegno argomentazioni basate su rapporti di causa ed effetto oggettivamente verificabili, la fiducia nell’obiettivo assiomatico deve restare necessariamente e unicamente affidata ai risultati. Dal 1999 a oggi sono trascorsi 15 anni. Un periodo che nelle attuali condizioni storiche può considerarsi un tempo lungo, più che medio.
Le risultanze statistiche sono inequivocabili. Italia, Germania, Francia, nei quattro decenni dal 1950 al 1991, con tassi medi del pil pari rispettivamente a 4,36, 4,05 e 3,86 per cento (elaborazioni su dati omogeneizzati Maddison) risultavano nello sviluppo i primi tre paesi democratici occidentali, precedendo Stati Uniti (3,45 per cento) e Regno Unito (2,08 per cento). Nei sei anni anteriori alla entrata in vigore del Tue (1987-1992) le medie, in conseguenza degli effetti costrittivi derivanti dall’ultima fase di attuazione del Piano Werner, risultarono rispettivamente del 2,68, 2,05 e 2,91 per cento. Sarebbero risultate superiori ai dati del sessennio della fase transitoria della omogeneizzazione (1,34, 1,32 e 1,40 per cento). Le medie complessive dei 15 anni successivi al 1° gennaio 1999 sono state per i tre paesi dello 0,38, dell’1,36 e dell’1,38 per cento. A partire dal 2000, i tre maggiori stati membri, oltre a beneficiare della ormai consolidata disciplina della eliminazione anche fisica delle dogane, sarebbero stati avvantaggiati dalla eliminazione nell’ambito dell’area euro dei costi di transazione e anche dall’aumento del numero dei partecipanti all’Unione (tredici in più) e distintamente all’euro (cinque in più). Ebbene, in una graduatoria insospettabile (v. Pocket World in Figures dell’Economist, edizione 2013, pag. 30) degli stati con minore sviluppo nel mondo nel decennio 2000-2010, l’Italia figura come terza peggiore economia, la Germania come decima peggiore economia, la Francia come quattordicesima peggiore economia. Ancora più significativa è la presenza di dodici stati europei, se consideriamo anche quelli dell’Unione, tra i primi trentacinque della graduatoria dei peggiori nel mondo! Nella analoga graduatoria del decennio antecedente (1990-2000), non figurava nessuno stato europeo. Si deve dedurre che il fattore cruciale ampiamente responsabile della depressione europea, e specificamente dell’area euro, deve avere cominciato ad operare poco prima o poco dopo l’inizio del nuovo millennio. In astratto avrebbe potuto trattarsi tanto di un fattore interno alla Ue e/o alla zona euro, quanto di un fattore a questa esterno. Un’altra statistica esclude la seconda ipotesi. La media di crescita del pil nel mondo nel ventennio 1975/95 era stata del 2,8 per cento (v. Rapporto sullo sviluppo umano, 1999), la popolazione totale nel 1997 era pari a 5 miliardi e 741 milioni. E’ oggi di oltre 7 miliardi. Il tasso di sviluppo è stato superiore al 4 per cento negli anni dal 2004 al 2013. Ha superato il 5 per cento negli anni 2006 (5,3 per cento), 2007 (5,4) e 2010 (5,1). L’intero mondo si caratterizza attualmente per una crescita continua e generalizzata in tutti i continenti. La media di crescita del pil nell’area euro nel decennio 1991-2003 è stata del 2,2 per cento. Quella del 2013 (previsioni per l’ultimo anno) è del meno 2 per cento.
La causa era dunque interna. Il fattore nuovo accertato nell’anno 1999 e/o nell’anno antecedente o in quello successivo, è l’immissione nei mercati dell’euro “falso” disciplinato dal reg. 1466/97, a partire dal 1° gennaio 1999. Non possono esservi dubbi. Il reg. 1466/97 è causa prima e unica del fenomeno depressivo in corso nei singoli paesi e nell’intera area euro dal 1° gennaio 1999.
Vi è un ulteriore e distinto effetto diretto del reg. 1466/97 che supera per rilievo qualsiasi altro. E’ la soppressione della “democrazia”. E’ garantita, al livello massimo, la libertà individuale. A livello normativo sono garantiti anche diritti sociali. La libertà individuale e il godimento di diritti sociali sono tuttavia presupposti necessari, ma non sufficienti della democrazia. Un regime può qualificarsi come democratico soltanto se gli individui, formanti una unica collettività, possono tutti in condizioni di assoluta parità influire sugli indirizzi politici attinenti all’esercizio della sovranità o comunque di carattere prioritario. Nelle condizioni attuali di sviluppo, sono da considerarsi prioritari gli indirizzi economici di base.
L’influenza dei cittadini può essere esercitata in modo diretto o indiretto. Nelle grandi collettività, di norma in modo indiretto con il voto. Il voto deve essere espresso in condizioni di parità, nello stesso giorno (eccezioni sono ammesse per categorie che versino in condizioni particolari), con identiche modalità, in luoghi prestabiliti.
Il regolamento 1466/97 ha soppresso l’unico spazio di attività politica soggetto all’influenza dei cittadini dei singoli stati membri, lo spazio delle politiche economiche a mezzo delle quali ciascun paese membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al perseguimento dello sviluppo, nell’interesse proprio e della Unione. La competenza politica degli stati membri, oggetto di un diritto potestativo, non è stata sostituita da altre di eguale carattere politico. In sua vece è stato previsto l’obbligo degli stati membri di realizzare un risultato specificamente definito (il bilancio in pareggio) di carattere primario ed eguale per tutti, la cui realizzazione si risolve in obblighi e doveri individuali, soggetti a poteri di vigilanza, a controlli e a direttive, e i cui caratteri e obiettivi sono prescritti. Soppresso ogni spazio di decisione politica, è scomparso anche il corrispondente spazio di espansione del principio democratico.
Le direzioni di marcia dell’Unione e degli stati membri sono segnate. Nel settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, quello della economia, i “governi devono fare i compiti” a essi assegnati. Gli istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di ciascun paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli indirizzi prestabiliti. Atti dimostrativi come salire su torri e sostarvi al freddo per intere notti, e persino i gesti estremi quali il suicidio per tutelare la dignità personale offesa per il non poter pagare i salari ai propri dipendenti o non poter provvedere ai bisogni della propria famiglia, sono privi di effetto.
Il mormorare, il chiacchiericcio diffuso sono liberi, ma dopo essersi affievoliti, si esauriscono. Sono efficacissimi invece per influire sui sistemi autoritari, fino a determinarne il crollo! (le barzellette!). Nel regime “Ue più euro” sono libertà private, prive di effetti pubblici. Non si può abbattere il proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali, non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto.
L’eliminazione della fascia della politica provoca un effetto ulteriore. L’assenza di un potere politico di carattere generale e la sua assenza in tutte le parti attinenti alla sovranità e ai princìpi fondamentali, comporta che tutte le condotte degli organi e dei loro titolari, formino oggetto di norme, singole o integrate, che ne determinano il carattere, ne precisano l’oggetto, ne determinano il se, il come e il quando della concretizzazione. Il sistema risulta formato da fattispecie di carattere costrittivo, aventi a oggetto condotte dalle quali promana il movimento delle singole parti e dell’insieme dell’organismo.
Ne segue che nel momento in cui gli indirizzi e il movimento complessivo siano stati sottratti a ogni decisione “politica”, cioè libera, il sistema risulta autoprotetto. Il suo movimento può essere solo quello derivante dall’insieme delle condotte prestabilite. L’organismo si è robotizzato. Il più potente dei calcolatori può effettuare operazioni altrimenti impossibili. Ma perché ciò accada deve essere stato progettato a questo scopo. La macchina “Ue più Eurozona” comprende opzioni. Sono opzioni da esercitarsi entro ambiti, in condizioni e tempi, e con modalità direttamente o indirettamente predeterminate. Se sono stati commessi errori nella progettazione e se la macchina provoca danni, questi si produrranno sino a quando la macchina funzionerà. Funzionerà, continuando a produrre danni, fino a quando non imploda.
Ogni effetto, una volta prodottosi, si trasforma in causa di effetti. Gli effetti del regolamento 1466/97, dato il loro rilievo e la lunga durata, sono alla base di distinte serie causali produttive di effetti anche autonomi a ciascun livello, che in parte si cumulano e si intrecciano.
Un primo effetto si collega alle modalità usate per pervenire all’adozione del regolamento, tutte dirette a impedire che venisse percepita la portata delle innovazioni. Il regolamento, in vigore dal 1° luglio 1998 (v. art. 13), era destinato ad applicarsi a partire dal 1° gennaio 1999. I programmi di stabilità avrebbero dovuto essere presentati prima del 1° marzo 1999 (art. 4). Se si voleva ottenere che non se ne diffondesse la conoscenza, il risultato è stato raggiunto al cento per cento. Ancora oggi l’esistenza, la natura e gli effetti del regolamento, non sono generalmente conosciuti dai titolari degli uffici, le cui competenze nei singoli paesi membri vi si connettono. E’ ipotizzabile che i ministri che parteciparono al Consiglio che adottò la proposta della Commissione recante la data del 18 ottobre 1996 (v. G.U. Comunità C/368/96) e che ne approvarono il testo definitivo il 7 luglio 1997, non si siano resi minimamente conto della portata del voto che esprimevano in rappresentanza dei rispettivi governi.
Prodottosi il fenomeno depressivo a partire dal 1° gennaio 1999, nessuno ha pensato al reg. 1466/97, le cui norme, e in seguito i princìpi, sono rimasti in vigore per tutto il quindicennio successivo. Non essendo nota la causa originaria e quelle prodottesi anno dopo anno in conseguenza degli effetti cumulativi, si sono verificati effetti ulteriori che sono sotto gli occhi di tutti. Economisti, tra i quali un buon numero di premi Nobel, di tutte le parti del mondo, ci bombardano con consigli e ricette. Gli esperti dell’Eurozona e quelli europei fanno altrettanto. Ma non conoscendola, e non potendo risalire alla causa, una causa peraltro così singolare e imprevedibile, ci si limita a indicare risultati che si vogliono ottenere (sono i soliti: aumento della occupazione, sostegno alle imprese, stimolazione della domanda, diminuzione del carico fiscale, rilancio della economia, e simili). Nessuno spiega come e con quali mezzi conseguirli.
Ma responsabili ce ne devono essere. Non potendo risalire alla fonte, vengono indicati sempre gli stessi: la classe politica, gli sprechi, la spesa sanitaria, la inefficienza della Pubblica amministrazione, i lacci della burocrazia, l’evasione fiscale, ecc. E poiché è il governo che dovrebbe eliminarli e non li elimina, il responsabile ultimo è sempre il governo. I governi precedenti e poi, né potrebbe essere diversamente, il governo in carica. Il governo, poveretto, fino a quando il paese non verrà liberato dalla gabbia in cui si è rinchiuso, con reintegrazione dello stesso governo nella sua potestà politica, non può fare nulla.
Gli effetti prodotti da quelli antecedenti trasformatisi in cause sono parecchi.Innanzitutto una grande confusione. Si aggiunge la diversità degli effetti prodotti nei vari stati. La Germania, cui apparteneva la moneta (il marco) alla quale l’euro avrebbe dovuto assimilarsi, essendo stata assunta a modello ai fini della omogeneizzazione, non ha ricevuto quale effetto della stabilità danni emergenti. Ne ha probabilmente subiti di maggiori come lucro cessante, che però sono meno percepibili. Tanto basta perché venga ritenuta responsabile delle misure costrittive cui altri sono stati assoggettati. Ne seguono invidie, risentimenti, persino odi. All’inverso la Germania guarda con aria di superiorità, con sospetto e anche con disprezzo i paesi in peggiori condizioni. I Trattati europei esaltano la coesione. Non è stata raggiunta. Probabilmente, se continuerà ad applicarsi l’attuale regime, non lo sarà mai.
Mentre pervenivano sollecitazioni da ogni parte del mondo, gli organi dell’Unione non potevano restare inerti. La crescita, quale risultato della parità del bilancio imposto con norme di applicazione generale, costituiva l’effetto di un assioma. Così è stato in medicina fino a tutto il ’700. Non disponendo di strumenti per risalire alle cause, se si avvertivano sintomi gravi di cui non si conoscessero le cause, si ordinava il salasso. Se la prima applicazione non recava sollievo, se ne accrescevano le dosi. E così una terza e una quarta volta. Lo stesso è accaduto per l’Europa. Poiché l’atteso sviluppo non si produceva, si deduceva che il principio della stabilità non era stato applicato con il necessario rigore. Sulla scia del primo regolamento ne è stato emanato quindi un secondo (reg. 1055/2005), poi un terzo (reg. 1175/2011), infine il Fiscal compact. Fino a prevedere, per essere più sicuri nella applicazione delle ricette, che modifiche strutturali venissero prescritte e imposte da organismi esterni. Un “commissariamento”!
Nei quindici anni trascorsi dal 1° gennaio 1999, sono stati ratificati e sono entrati in vigore nuovi Trattati: Nizza, Amsterdam, Lisbona. I Trattati sono pieni di affermazioni enfatiche. Sono stati creati nuovi organi. Si poteva abbondare. La disciplina continuava a essere di fatto quella del reg. 1466/97 integrata dalle modifiche successive. Dove possibile, si è cercato di rafforzarla con parole accuratamente collocate, ma sempre evitando di dare nell’occhio. In quindici anni si sono accumulati centinaia di atti, di livello normativo o applicativo, ai quali ha partecipato un considerevole numero di titolari di funzioni connesse ai problemi europei, sia nell’Unione che nei paesi di appartenenza. Molti politici e amministratori hanno fatto carriera. Sono stati titolari o lo sono tuttora di uffici ai quali si connettevano responsabilità massime a livello europeo o negli ordinamenti costituzionali interni. La loro presenza in ruoli connessi all’Unione e/o all’euro è rassicurante. Genera speranza e fiducia. Un ulteriore ostacolo a che si comprenda come stanno effettivamente le cose!
Ultimo ma non minore effetto derivato da questi intrecci è un “vuoto di potere”. Il vuoto viene colmato da istituzioni e da titolari che, a livello europeo e nazionale, siano posizionati in condizioni che consentano loro di avvalersene. Abbiamo così titolari di organi comunitari che impartiscono lezioni non richieste a governanti degli stati membri. Lo stesso fanno, con autorità persino maggiore, titolari di organi di altri paesi. In ciascun paese organi, specie del livello più elevato, si espandono in aree contigue, a volte sinanche inferiori.
La confusione è grande, grande il rumore. Ma la macchina robotizzata dell’Europa e dell’euro continua a macinare flussi di risultati negativi, e tranquilla e indifferente, prosegue indisturbata e inesorabile nella direzione che le è stata imposta.
Una osservazione conclusiva su quanto è accaduto il 1° gennaio 1999. La dottrina distingue tra due ipotesi. La instaurazione di fatto di un nuovo governo (ossia del detentore dei poteri pubblici di vertice) e l’instaurazione di fatto di un nuovo regime.
La “democrazia” è (deve essere) il principio fondamentale del regime degli stati aderenti all’Unione europea. La democrazia è stata soppressa nel 1999 nell’Eurozona e negli stati senza deroga. In ciascuno degli stati membri senza deroga, viene cancellato il diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi stessi vengono assoggettati. Nell’Eurozona perché non vi sono stati previsti organi politici responsabili nei confronti della totalità dei cittadini delle collettività che ne fanno parte assunti come entità unitaria. Ciò che è accaduto deve qualificarsi come “instaurazione di fatto di un nuovo regime”. Era accaduto in Francia con la rivoluzione francese, in Russia, nel 1917, con la rivoluzione bolscevica. Con queste differenze, che la rivoluzione francese, affermando i principi della libertà degli individui e delle imprese, sprigionò enormi energie esistenti. Quella collettivista creò vincoli che sarebbero risultati più stringenti di quelli anteriori, dei quali ci si voleva liberare. La rivoluzione francese e quella russa imposero, con la introduzione di nuovi regimi, anche l’introduzione di vertici di un nuovo tipo. La rivoluzione, operata dal “falso euro”, concretizzatasi nel principio della stabilità, ha creato un regime autoreferenziale. In quello sovietico l’autoreferenzialità abbracciava larga parte della organizzazione. Ma il vertice ne era escluso. Con l’ulteriore differenza che in quello sovietico si proclamava la conquista del potere da parte del proletariato. In quello della stabilità, manca un vertice politico e, accantonato l’obiettivo della crescita, domina, quale “dio” insondabile e assoluto, un principio astratto che genera un movimento che inesorabilmente produce depressione e forse, alla fine, implosione.
Altra considerazione. Va valutata attentamente. Potrebbe sconsigliare l’applicazione tardiva della disciplina della moneta del Tue e oggi del Tfue (il Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, Lisbona). Con l’esperienza del “poi” si può oggi affermare che la richiesta che la nuova moneta somigliasse al marco era a sua volta inficiata da un “errore”. Si era tenuto conto della stabilità interna, non di quella esterna. La collettività tedesca era fortemente coesa. Non può trascurarsi che vi vigeva da quasi un secolo un sistema di stato sociale, il più solido e avanzato nel mondo. Intese collaborative tra imprenditori e classe operaia esistevano tanto a livello di organismi centrali quanto in forme istituzionalizzate, all’interno delle imprese. Non si tenne conto dell’ambiente esterno. Era stato fino a quel tempo a sua volta stabile. La stabilità esterna persisteva da oltre cinquanta anni. Appariva naturale e destinata a durare. Costituiva invece il prodotto di una situazione storica peculiare, la divisione del mondo in due grandi blocchi contrapposti, quello del mondo libero, che si avvaleva del regime di mercato, e quello collettivista che raggruppava i paesi la cui organizzazione si ispirava, in varia misura, al modello amministrativizzato dell’Urss. Anche le regolazioni tra gli stati, nel blocco collettivista, erano in qualche misura rigide. Era la stabilità esterna a garantire la stabilità interna, obiettivo e nello stesso tempo condizione per il successo della moneta e dell’economia tedesca.
La stabilità esterna, proprio negli anni in cui vennero stipulati i due Trattati, dell’Atto unico europeo e del Trattato sull’Unione europea, cominciava a vacillare. Nel 1999 sarebbe mancata del tutto. Oggi le condizioni del mondo esterno sono l’opposto della stabilità.(continua domani)