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venerdì 29 gennaio 2010

Lettera Del Presidente Oscar Luigi Scalfaro ai componenti dei Comitati Salviamo La Costituzione

Ricevo dal Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nochè presidente dell'Associazione Nazionale Salviamo la Costituzione, e volentieri porto a conoscenza, la lettera ai componenti dei comitati Salviamo La Costituzione:

"Nella mia qualità di presidente dell’Associazione ‘Salviamo la Costituzione: aggiornarla non demolirla’, nata dal Comitato che promosse il referendum costituzionale del giugno 2006, esprimo soddisfazione per le numerose iniziative e manifestazioni di sostegno alla Costituzione repubblicana e alla sua perdurante attualità, organizzate in un momento nel quale essa è nuovamente esposta sia al rischio di proposte di revisione non rispettose dei suoi valori e del suo impianto fondamentale, sia a una strisciante e quotidiana inosservanza dei suoi principi (prima di tutto quello dell’equilibrio tra i poteri costituzionali e dell’autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale). D’intesa con il direttivo di “Salviamo la Costituzione”, che si è riunito a Roma il 26 gennaio, invito i comitati locali della nostra associazione a partecipare a queste iniziative.

Invitiamo, in particolare, a sostenere l’iniziativa, promossa autorevolmente dai presidenti emeriti della Corte costituzionale Valerio Onida e Gustavo Zagrebelsky sotto l’egida di un gruppo di associazioni e movimenti della società civile, per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare tendente a integrare la festa nazionale del 2 giugno con un riferimento esplicito alla Costituzione, così da ridefinirla come festa della Repubblica e della Costituzione.
E’ un modo per sottolineare lo stretto legame, storico e istituzionale, tra i due momenti fondanti della nostra convivenza civile, e per ricordare che la Costituzione è e resta un sicuro punto di riferimento della grande maggioranza degli italiani, al di là delle divisioni politico-partitiche, come è stato confermato dal netto risultato del referendum del 25-26 giugno 2006 e da recenti sondaggi di opinione.
La Costituzione può naturalmente, come essa stessa prevede, essere aggiornata e modificata, in modo da adeguare gli strumenti della nostra democrazia al mutare della realtà storica, politica e sociale: ma ciò deve avvenire in coerenza con i suoi principi e i suoi valori, anzi al fine di meglio attuarli e inverarli, e senza stravolgere il suo impianto fondamentale, che è garanzia dei diritti di tutti e di ciascuno e della effettività della nostra democrazia.

Chiediamo infine ai nostri Comitati regionali e locali di valutare, in vista delle prossime elezioni regionali, l’opportunità di invitare tutti i candidati alla carica di presidente della Giunta regionale a sottoscrivere un documento col quale essi si impegnino - in caso di approvazione parlamentare di modifiche costituzionali che stravolgano i principi, i valori e l’impianto fondamentale della nostra Costituzione - a proporre al loro Consiglio regionale di esercitare la facoltà costituzionalmente prevista di promuovere il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione."

lunedì 25 gennaio 2010

Non esiste un consenso una volta per sempre

Non esiste un consenso una volta per sempre

La Vittoria di Nichi Vendola alle primarie in Puglia è una grande lezione di democrazia per tutti coloro che hanno continuato a pensare che una volta acquisito il consenso poi possono gestirlo come meglio gli pare a prescindere.
Dalla Puglia arriva un segnale forte e chiaro che così non è, non esiste un consenso una volta per sempre e nessuno è e deve sentirsi padrone della volontà dei cittadini, che deve potere essere sempre espressa liberamente con la partecipazione ed il voto.
Un'altra grande lezione che arriva dalla Puglia è l'importanza del contatto diretto del candidato con il suo territorio, cosa che la sinistra ha smarrito da tempo, lasciando che partiti come la lega si incuneassero nel vuoto lasciato.
Altra lezione ancora è che non paga l'arroganza e l'inciucio per politiche poche chiare che niente hanno a che vedere con l'interesse generale.
Io credo sia un errore grossissimo pretendere di fare quel che più aggrada i nostri politici, pensando che i cittadini siano tutti scemi.
Sottovalutare l'intelligenza di un popolo non è a sua volta sinonimo di intelligenza.
E' chiaro che Vendola ha vinto, anche, perchè ha saputo governare, perchè ha saputo tenere vivo il contatto con la realtà e per il Suo modo gentile di porsi e di rapportarsi con gli altri, senza supponenza.
L'ho incontrato diverse volte e sempre mi ha affascinato questo suo modo di fare, sempre disponibile all'ascolto, cosa che non ho mai riscontrato in nessun' altro uomo politico.
Doti queste, che in un momento in cui l'arroganza ci viene propinata a piene mani da tutte le parti, non mi sembra siano cose da poco.
Io credo che da questa esperienza bisognerebbe trarre l'insegnamento che è necessaria ed urgente una nuova classe dirigente capace di comprendere i bisogni dei cittadini e di sapere affrontare le sfide che abbiamo davanti, capace di incarnare la Rivoluzione Gentile di Vendola, per cercare di ricostruire dalle macerie che questa destra sta spargendo a piene mani e, soprattutto, capace di unire la sinistra.
La grande sfida è una sinistra nuova che metta come valore fondante la nostra Costituzione, che questa destra sta giorno per giorno svuotando, mettendo seriamente a rischio la nostra democrazia.
L'auspico è ora che Nichi Vendola possa uscire ancora una volta vittorioso alle prossime Regionali.
Nella Toscano

sabato 23 gennaio 2010

2 Giugno, Festa della Repubblica e della Costituzione

Valerio Onida, Gustavo Zagrebrelsky, 21-01-2010

Valerio Onida e Gustavo Zagrebelsky, presidenti emeriti della Corte costituzionale firmano a nome dell'Ufficio di Presidenza e dei Garanti di Libertà e Giustizia questa proposta per un rinnovato patriottismo costituzionale.

La Costituzione è stata ed è tuttora segno di unità del paese: i principi e i valori della democrazia repubblicana in essa espressi, in coerenza con la storia e gli sviluppi più maturi del costituzionalismo internazionale contemporaneo, sono un patrimonio in cui gli italiani si ritrovano. Patrimonio tanto più prezioso in quanto il pluralismo sociale, culturale e politico delle società di oggi suscita nuove linee di tensione e sollecita l’esigenza di riconoscere e ricostruire, al di là delle differenze, una identità collettiva condivisa, che solo nella comune adesione ai principi costituzionali può trovare fondamento.
Per questo Libertà e Giustizia, che considera fra i propri scopi fondamentali quello di concorrere a salvaguardare tale patrimonio e a promuovere l’attuazione della Costituzione, suggerisce che sia assunta, da un arco più ampio possibile di associazioni, gruppi e istituti culturali, l’iniziativa di proporre una legge che, modificando e integrando quanto oggi previsto (legge n. 260 del 1949, legge n. 336 del 2000), stabilisca che la festività nazionale del 2 giugno sia proclamata “Festa della Repubblica e della Costituzione”.
La festa nazionale verrebbe così arricchita con il riferimento al documento che ha dato corpo e contenuto alla Repubblica di tutti gli italiani. Alla tradizionale parata militare di Roma si potrebbe accompagnare, in molte città, una manifestazione civile in cui si celebri concretamente la Costituzione, anche dando seguito ai programmi che sono stati promossi nelle scuole su questo tema.
L’iniziativa sarebbe nel solco della tradizione. Si può ricordare che all’epoca del Regno d’Italia la festa nazionale, celebrata la prima domenica di giugno, coincideva con l’anniversario dello Statuto albertino, cioè della prima Costituzione dell’Italia unita. L’Assemblea costituente, a sua volta approvò un ordine del giorno che dichiarava “il 2 giugno di ogni anno Festa nazionale della Repubblica italiana” allo scopo “di solennizzare l’avvento della Costituzione repubblicana e di celebrare i principi politici e sociali che sono a fondamento di essa”.
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Il Circolo Legalità e Giustizia nel condividere in pieno la proposta avanzata da Valerio Onida e Gustavo Zagrebelsky, presidenti emeriti della Corte costituzionale, intende sostenere la proposta e si attiverà per dare il proprio contributo.
Nella Toscano
Coordinatrice del circolo L. e G.

giovedì 21 gennaio 2010

Appello a Giorgio Napolitano di Ferdinando Imposimato [01/01/२०१० डा

Circolo Legalita' E Giustizia 21 gennaio alle ore 10.20
Cari amici, dobbiamo prendere atto che i siti che hanno ospitato l'appello ci stanno boicottando, molte persone non sono riuscite a sottoscriverlo ed i nomi di molti di quelli che l'hanno fatto non compaiono.
A questo punto, per superare questa barriera si potrebbe ognuno di noi inoltrare l'appello direttamente al sito del Quirinale. Facendo copia e incolla e sottoscrivendolo.
Facendo copia e incolla il testo che segue:
Appello a Giorgio Napolitano di Ferdinando Imposimato [01/01/2010]
Destinatario petizione :
Presidente Della Repubblica Italiana
Sostenitori ufficiali della petizione :
Circolo Legalita' e Giustizia,gruppo LA COSTITUZIONE E' IN PERICOLO - PREPARIAMOCI A DIFENDERLA, Nella Toscano coordinatrice del Circolo Legalità e Giustizia, Rosanna Damiani, Rosanna Rossi,


Illustre signor Presidente della Repubblica,

mi consenta di esprimere pubblicamente la mia perplessità circa il Suo appello a riforme istituzionali condivise, di cui però si ignorano i contenuti. Se le riforme riguardano materie bocciate dal referendum 2006, - senato federale, premierato e Consulta- credo sia legittimo chiedere che non siano riproposte. D'altra parte una riforma prioritaria concerne il conflitto di interessi, che riguarda la libertà e il pluralismo della informazione (art 21 cost), di cui nessuno parla. Mi sarei aspettato che la riforma proposta dalla opposizione riguardasse il superamento del controllo di tutte le TV da parte del Premier. Talune delle coscienze più sensibili del nostro Paese- Paolo Sylos Labini, Giorgio Bocca, Giovanni Sartori e Vito Laterza- fin dal 1994 lamentarono la violazione del decreto presidenziale 30 marzo 1957 n 361 che all'articolo 10 contempla il caso Berlusconi: “Non sono eleggibili coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private, risultino vincolati con lo Stato per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica...”. Quando Berlusconi fu eletto, il Parlamento concluse per la sua eleggibilità, in base ad un'assurda interpretazione della legge. Sartori ammonì: “io mi rifiuto di giocare a scacchi contro qualcuno che ha due regine perché così lui vince sempre ed io perdo sempre”. Ed è ciò che accade da anni. Non credo che questo si possa tollerare oltre.


La preoccupazione aumenta perché in base alle ricerche del Censis e dell'Unione Stampa cattolica siamo il Paese in cui la popolazione guarda la TV per tre ore e quaranta minuti al giorno, la media più alta d'Europa. Mentre il consumo di carta stampata si è di molto ridotto. Gli italiani sono videodipendenti. La TV costituisce il mezzo di (dis)informazione fondamentale di questo paese. Si può parlare di dittatura mediatica, nonostante le apparenze di libertà. Cinque delle sei TV sono direttamente o indirettamente controllate dal premier per ragioni di proprietà (mediaset) e di controllo politico (RAI). Al Presidente del Consiglio non può essere consentito di promuovere riforme esiziali per la democrazia solo perché ha subito una aggressione deprecabile le cui conseguenze non devono riflettersi sui cittadini. Albert Einstein, dall'America profetizzò 65 anni fa: “ Le moderne democrazie mascherano regimi tirannici: utilizzano i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di disinformazione e di stravolgimento delle coscienze degli uomini”. La stessa analisi vale per l'Italia ove esiste un pensiero unico dominante nella informazione monopolizzata che brilla per la falsificazione delle notizie e i silenzi su questioni cruciali, come i rapporti mafia-politica. Per questo occorre uscire dal vago: democrazia è trasparenza e controllo. E la chiarezza e il controllo mancano nella partita delle riforme.

l'indirizzo è:

https://servizi.quirinale.it/webmail/

So bene il grave disagio che stiamo vivendo tutti per i fatti di questi giorni, ma sono convinta che ora più che mai non bisogna arrendersi, pur essendo consapevoli della difficoltà di ascolto.
Grazie
Nella Toscano

martedì 19 gennaio 2010

Mangano e Craxi i loro eroi

19 gennaio 2010

Con la lettera del presidente Napolitano alla famiglia Craxi, indirizzata dal Quirinale alla villa di Hammamet, appena lasciata da tre ministri aviotrasportati del governo in carica, si chiude degnamente il triduo di celebrazioni per l’anniversario della scomparsa del grande statista corrotto, pregiudicato e latitante: 10 anni, tanti quanti ne aveva totalizzati in Cassazione.

Oggi completeranno l’opera in Senato altri luminosi statisti come l’ex autista Renato Schifani e il pluriprescritto Silvio Berlusconi, già noto per aver definito "eroe" il mafioso pluriomicida Vittorio Mangano.

Intanto fervono i preparativi per festeggiare i 150 anni dell’Italia unita e il Pantheon dei padri della Patria è un porto di mare. Gente che va, gente che viene. Soprattutto gentaglia.

Nel felpato linguaggio del capo dello Stato, la latitanza di Craxi viene tradotta testualmente così: "Craxi decise di lasciare il Paese mentre erano ancora in pieno svolgimento i procedimenti giudiziari nei suoi confronti". Anche perché, aggiunge Napolitano in perfetto napolitanese, le indagini sulla corruzione (non la corruzione) avevano determinato "un brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia".

E il sant’uomo fu trattato “con una durezza senza eguali" mentre, com’è noto, la legge impone di processare i politici che rubano senza eguali con una morbidezza senza eguali. E le mazzette miliardarie, e gli appalti truccati, e i soldi rovesciati sul letto, e i 50 miliardi su tre conti personali in Svizzera?

Non sono reati comuni: il napolitanese li trasforma soavemente in "fenomeni degenerativi ammessi e denunciati" (come se rubare e poi, una volta scoperti, andare in Parlamento a dire "qui rubano tutti" rendesse meno gravi i furti).
Il presidente ricorda che "la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ritenne violato il ‘diritto ad un processo equo’ per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea". Ma non spiega che Craxi fu processato in base al Codice di procedura che lui stesso aveva voluto e votato, il Pisapia-Vassalli del 1989 che – modificato da due sentenze della Consulta – consentì fino al 1999 di usare i verbali delle chiamate in correità dei coimputati anche se questi non si presentavano a ripeterle nei processi altrui.

Se i processi a Craxi non furono “equi”, non lo furono tutti quelli celebrati in Italia dal 1946 al 1999. Su un punto Napolitano ha ragione: Craxi lasciò "un’impronta incancellabile": digitale, ovviamente. Quel che sta accadendo è fin troppo chiaro: si riabilita il corrotto morto per beatificare il corruttore vivo. Si rimuovono le tangenti della Prima Repubblica per legittimare quelle della Seconda. Si sorvola sulla latitanza di Craxi per apparecchiare nuove leggi vergogna che risparmino la latitanza a Berlusconi.

L’ha ammesso, in un lampo di lucidità, Stefania Craxi: "Gli italiani non credettero a Bettino, ma oggi credono a Berlusconi". Ma perché credano a Berlusconi su Craxi, ne devono ancora passare di acqua sotto i ponti e di balle in televisione. Stando a tutti i sondaggi, la stragrande maggioranza degli italiani di destra, di centro e di sinistra è contraria a celebrare Craxi, come è contraria all’immunità parlamentare e alle leggi ad personam prossime venture. Forse gli italiani sono ancora migliori di chi dice di rappresentarli.

E allora, tanto peggio tanto meglio. Si dedichino pure a Craxi monumenti equestri, targhe votive, busti bronzei, strade, piazze, vicoli, parchi e soprattutto tangenziali. Dopodiché si passi a Mangano (sono ancora in tempo: anche lui scomparve prematuramente nel 2000). Così sarà chiaro a tutti chi sono i "loro" eroi.Noi ci terremo i nostri e da domani chiameremo i lettori a sceglierli. A Mangano preferiamo ancora Falcone e Borsellino. A Craxi e a Berlusconi, politici diversi ma limpidi come De Gasperi e Berlinguer. Ieri, poi, ci è venuta un’inestinguibile nostalgia per Luigi Einaudi e Sandro Pertini.

La strategia di Casini

Patrizia Rettori, 19-01-2010

E' inutile rovesciargli addosso anatemi di ogni sorta: Pierferdinando Casini fa il suo mestiere, niente di più e niente di meno. E' contro il bipolarismo, e dunque è naturale che si allei una volta con l'uno e una volta con l'altro, a seconda delle situazioni e delle convenienze (le sue, e di chi altro sennò?. Vuole incrementare la sua dote di voti, obiettivo doveroso per ogni capopartito, e perciò non può schierarsi tout court con il Pd perché l'elettorato dell'Udc proviene dal centro destra e non lo seguirebbe. Nè può scegliere il Pdl come partner privilegiato altrimenti verrebbero meno le ragioni che lo hanno portato a separarsene e gli elettori moderati ma non berlusconiani non lo voterebbero più.
Insomma, dal suo punto di vista Casini si sta comportando egregiamente: distribuisce fendenti a tutti ed è al centro dell'attenzione generale. Casini si sta comportando egregiamente: distribuisce fendenti a tutti ed è al centro dell'attenzione generale. Cosa chiedere di più? Ovviamente se si guardano le cose dal pnto di vista del Pd e del Pdl le cose cambiano. Entrambi lo vorrebbero sempre dalla loro parte e, non riuscendoci, si arrabbiani. Tanto più che il cuneo Casini si inserisce nelle linee di frattura che percorrono tutti e due i partiti con effetti assai poco rassicuranti. Il marasma nel Pd si vede ad occhio nudo: dal Lazio alla Puglia è tutto un susseguirsi di dispute fratricide che rivelano una geografia di potentati in lotta tra loro. Un panorama desolante, da "muoia Sansone con tutti i filistei", che lascia ben poca speranza per il futuro.
Tuttavia anche nel Pdl la lotta interna sta diventando feroce: tra Fini e Berlusconi, ma pure tra Fini e Bossi, con i rispettivi luogotenenti regionali che fanno la loro parte. Basta vedere la Puglia, area dolente anche per il partito di Berlusconi, dove Adriana Poli Bortone, accusata di essere finiana, minaccia di candidarsi contro il prescelto dal Cavaliere e dal suo uomo, Fitto.
A ben vedere, perciò, queste elezioni regionali assomigliano sempre di più ad una prova generale delle future elezioni politiche. Per essere competitivi bisogna allargare le alleanze, ma per allargare le alleanze bisogna scegliere nomi graditi al potenziale partner. E con ciò si attribuisce al partner in questione un potere di veto assolutamente spropositato. Una corsa in questa direzione finirebbe per estenuare sia il Pd che il Pdl. Ma come uscirne?Qualcuno nel centro destra comincia a dire: mettiamoci d'accordo, noi e il Pd, per mettere in quarantena Casini. Sbattiamogli la porta in faccia, così sarà destinato a sparire. Già, ma in questo momento un simile accordo converrebbe solo asl partito più forte, e cioè al Pdl. Perché il Pd dovrebbe fargli un simile regalo, amputandosi da solo le già scarse probabilità di vittoria? Dunque l'Udc continuerà ad essere tanto detestata quanto corteggiata, e Casini resterà al centro di tutti i giochi.
La verità è che, per affrontare questo, Pd e Pdl dovrebbero rispondere al quesito che Casinipone a chiare lettere: vogliono conservare questo bipolarismo? La risposta a questa domanda, negativa o positiva che sia, passa per la riforma della legge elettorale. Perché se si vuole mantenere il bipolarismo e scoraggiare ogni tentativo di "terzo polo" bisogna tornare all'uninominale, ad un "Mattarellum" magari rivisto e corretto. Se invece si vuole tentare un'altra strada, allora conviene pensare al modello tedesco e abbandonare ogni sogno bipartitico.
iusciranno Pd e Pdl a prendere coscienza del problema e ad agire di conseguenza? Per ora sembra di no. Ma se all'indomani delle elezioni regionali Casini dimostrerà di aver vinto la scommessa, e cioè se i suoi voti si riveleranno determinanti per la vittoria del centro destra o del centro sinistra, allora non ci sarà più tempo da perdere.

lunedì 18 gennaio 2010

D’Alema-Vendola, la vera sfida

17 gennaio 2010

In Puglia al via le primarie Pd. Il Lìder Maximo lancia Boccia

di Antonio Massari

Poco prima dell’una, a telecamere calde per i tg, arriva lo scoop di Massimo D'Alema: "Io ero favorevole alle primarie". Il presidente del Pd parla ai delegati pugliesi, pronti a lanciare Francesco Boccia nella corsa contro il governatore uscente, Nichi Vendola.

Una sfida che sa di vecchio. Boccia perse le primarie, già nel 2005, proprio contro Vendola. Una sfida che sa di nuovo: la percezione è che le vere primarie, questa volta, siano tra Vendola e D'Alema in persona, sceso in campo per far valere tutto il suo peso. Quanto peserà è tutto da vedere. Resta il fatto che, mentre Boccia viene consacrato sfidante all'unanimità, i maligni in sala commentano: "Oggi lo battezzano. Tra una settimana lo cresimano". Che è come dire: lo stanno mandando al massacro.

Boccia è destinato a perdere. Tutto da dimostrare, certo, anche se è un buon 40 per cento, all'interno del Pd pugliese, è pronto a sostenere il governatore rosso. Vendola, qualche ora dopo, si dichiarerà "felice, perché s'è conclusa una fase contraddistinta dalle fibrillazioni, nella quale, le forze del centrosinistra, si stavano avvitando verso un dirupo". E D'Alema è venuto qui, nell'assemblea, a lanciare Boccia nella sfida, personalmente, come si suol dire: mettendoci la faccia. Se va male, rischia di perderla.

D'Alema è al primo piano dell'hotel Sheraton, mentre al piano di sotto, dinanzi al maxischermo che lo ritrae, siedono gli attivisti del partito. "Io ero favorevole alle primarie", dice, e giù si chiedono: "Davvero? E quando mai?". In effetti, di questa sua convinzione, nessuno aveva avuto il sentore. Tant'è che un signore dai capelli bianchi urla: "Bugia! Questa è una farsa". Viene redarguito dagli astanti che – tra scettici e seguaci del "lìder Maximo" – vogliono tutti vedere come va a finire.

E come se sentisse il dubbio affiorare nelle menti altrui, dal piano di sopra, tra i delegati, D'Alema alza un telefono, in netto favore di telecamera, lo mostra e dice: "Per fortuna in questi aggeggi c'è un archivio, una documentazione, ci sono conservati parecchi sms". Ah, ecco. L'aveva scritto in un sms, che era favorevole alle primarie, si sussurra giù in platea. Mica l'aveva mai detto in pubblico. "Se avessi concesso un'intervista, spiegando la mia posizione sulle primarie, avrei incontrato consensi, e mi sarei risparmiato insulti. Sulle primarie, però, c'era un problema: avevano un senso soltanto a una condizione: che fossero accettate dalla coalizione che volevamo costruire. Altrimenti, il mezzo avrebbe soppresso il fine. Se ci fosse una personalità capace di fare sintesi (di unire l'Udc alla coalizione, ndr.) saremmo pronti. Invece Vendola non riesce a concepire nessuna personalità, tranne se stesso".

E qui arriva la dichiarazione che apre la sfida: "Vendola dice: non ho mai fatto passi indietro. Bene. Io dico che, in certi momenti, perché tutti possano fare un passo avanti, un leader politico deve saper fare un passo indietro". Ecco la prima botta. Applausi. Musi lunghi. Qualche sbadiglio. Mugugni. Gli attivisti del Pd, giù in sala, si lasciano andare alle espressioni più varie. Ed è già tanto, rispetto all'ultima assemblea, che ci si possa fare un'idea del dibattito interno al partito. L'ultima volta, fu meno d'un mese fa. Avrebbero dovuto indicare come candidato – senza primarie, nonostante D'Alema fosse favorevole, come testimonierebbero i suoi sms – il sindaco Michele Emiliano.

L'assemblea fu interrotta e rinviata per misteriosi tumulti con i sostenitori di Vendola. Aggressioni, verbali e non, che nessuno vide, ma che la gerarchia del Pd pugliese stigmatizzò con durezza. C'è voluta l'onestà intellettuale di Cinzia Capano, parlamentare del Pd, che intervenendo subito dopo D'Alema, spiega: "Oggi restituiamo dignità a quest'assemblea, dignità che le era stata tolta non per gli assalti dei vendoliani, ma perché fummo noi, a non saper tematizzare". Capano sosterrà Vendola: nel pomeriggio s'è già recata al comitato elettorale del governatore. Come gran parte della sua corrente, legata a Franceschini.

La scelta, comunque, è fatta. Le primarie si terranno nel giro di una decina di giorni. E Vendola risponde a d'Alema: "Mi dolgo delle sue parole astiose, ma sono felice che abbia detto sì alle primarie, a un percorso di legittimazione popolare". "Ci confronteremo ad armi pari, anzi io mi presento a mani nude, Vendola invece da presidente della Regione uscente", dice Boccia. “I pugliesi – conclude - saranno chiamati a votare tra la proposta politica del Partito democratico, che prevede una coalizione larga a guida Pd, e quella di Sinistra Ecologia e Libertà, che prevede una coalizione più piccola".

Sempre che l'Udc, alla fine, non cambi idea e accetti la candidatura di Vendola. "Il mio auspicio – dichiara il segretario regionale dell'Udc Angelo Sanza - è che dalle primarie del Pd esca il nome di Boccia. In caso contrario, ci troveremmo di fronte a una situazione eccezionale che, in quanto tale, non potrebbe non essere ricondotta ad una riflessione da parte degli organismi regionali e nazionali di partito". Come dire: apriamo il dialogo anche a Vendola. Che ha imposto tutte le sue condizioni. E sembra sempre più forte.

Da Il Fatto Quotidiano del 17 gennaio

domenica 17 gennaio 2010

Scalfaro sulla Costituzione

Vittorio Ragone, il Venerdì, 15-01-2010


Presidente Scalfaro, che effetto le fa, da padre costituente, tutta questa agitazione del centrodestra per cambiare la Costituzione?
«Ricordo una frase di De Gasperi che impedisce ogni meraviglia di fronte alla moltiplicazione delle richieste di modifica della Carta. In un’assemblea della Democrazia cristiana aveva più volte ripetuto: “La politica è pazienza”; temetti di non aver capito bene e andai a interpellarlo: “Presidente, lei vuol dire che la politica richiede molta pazienza?”. E De Gasperi: “No, Scalfaro: la politica è, è pazienza. Sulle riforme costituzionali volute dal centrodestra gli italiani si sono già espressi con un referendum nel 2006. E le bocciarono. Cito un punto solo: il potere dato al premier di mandare a casa deputati e senatori. La formula del centrodestra diceva: “Il premier scioglie il Parlamento e ne è l’esclusivo responsabile”. Poi aggiungeva che il decreto di scioglimento era firmato dal Capo dello Stato. Quella dizione stroncava pesantemente il Parlamento mettendolo a soggiacere al potere “esclusivo” del capo dell’esecutivo. L’altra autorità, il Presidente della Repubblica, veniva licenziata in tronco. Oggi il centrodestra afferma: vogliamo modificare solo la seconda parte della Costituzione. Ma la loro precedente riforma verteva già sulla primissima parte della Carta. Perché quando l’articolo primo recita: l’Italia è una Repubblica democratica... democratica significa che la voce più importante fra le istituzioni è la voce del popolo italiano, cioè il Parlamento. Qualsiasi mortificazione del Parlamento è una follia, da escludersi sempre. Davvero la politica è pazienza».
È vero, le riforme furono bocciate da un referendum. Ma, a occhio e croce, questo argine non sarà sufficiente, non crede?
«Il referendum confermativo delle revisioni costituzionali non chiede un quorum. In teoria, se nel 2006 fossero andate a votare dieci persone, i sei avrebbero vinto sui quattro. Invece in quelle settimane milioni di italiani, che avevano già votato per le politiche, per le amministrative e i ballottaggi, il 25 e 26 di giugno – non pochi rientrando dalle ferie – votarono. Il no superò il 60 per cento. Purtroppo, e vengo alla sua domanda, non c’è una norma che dica: dopo un voto referendario confermativo con una tale percentuale di voti contrari, per 5-10 anni l’argomento non si può più toccare. Ciò ha consentito a fior di professori di sostenere che la discussione si poteva ricominciare da capo. E sì che ci sarebbe pure qualche
normamorale da rispettare».
Della sua esperienza di Costituente lei ha conservato il culto della centralità del Parlamento.
«Noi abbiamo vissuto consapevolmente al tempo del liceo – a 17, a 18, a 20 anni – la dittatura, con la guerra, la distruzione dell’Italia e il massacro delle persone. Abbiamo vissuto tutto questo e abbiamo vissuto il fascismo, che aveva annullato il Parlamento, tolto il voto ai cittadini, impedito la partecipazione alla vita politica. In una parola, ucciso la democrazia. Perché la democrazia vuole che il cittadino veda riconosciuto e attualizzabile il principio della partecipazione alla vita politica, al potere dello Stato, partecipazione che può essere data attraverso il voto e le scelte dei parlamentari. E mi lasci dire: già la legge elettorale attuale non ha alcun senso di democrazia. Perché il parlamentare oggi non è scelto dal popolo ma dalle segreterie dei partiti. Una frode totale».
I parlamentaristi sono spesso accusati di conservatorismo. La Costituzione ha 70 anni, dicono i critici, oggi c’è bisogno di decisioni più rapide.
«Queste accuse sono anche una forma di ricatto. Bisogna stare ai contenuti veri. Oggi si dice: più potere all’esecutivo. Ma De Gasperi — dato storico — ha governato sette anni con questa Costituzione. E non aveva a disposizione tutte le leggi di oggi. Seconda osservazione: non si possono dare poteri all’esecutivo senza contrappesi. Pensi a quali sudate si è sottoposto Obama per far passare almeno il nucleo fondamentale della sua riforma sanitaria, che serve a impedire che il cittadino, nel Paese più libero del mondo, muoia in mezzo a una strada. Ha dovuto accettare rinunce, riduzioni. Da noi si chiedono poteri maggiori. Io rispondo: non mi fa paura un esecutivo più forte. Ma non se è il Parlamento a pagare. Perché sennò è la democrazia che se ne va».

venerdì 15 gennaio 2010

Zagrebelsky sulla Costituzione

Vladimiro Polchi, il Venerdì , 15-01-2010

La incroci in tutti i tuoi momenti importanti. «Quando iscrivi i figli a scuola e puoi scegliere tra un istituto pubblico o privato. Quando partorisci o ti devi curare, ma non hai i soldi per una clinica e ti rivolgi al servizio sanitario nazionale. Quando vuoi aprire un giornale o fondare un partito. Quando devi pagare tasse e imposte». È sempre lei: la Costituzione che, volenti o nolenti, ci tiene per mano dal momento in cui nasciamo. Ai suoi 139 articoli Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Consulta, ha dedicato la sua vita professionale come professore.
Ma la nostra Costituzione si presta anche a una lettura «popolare », che la immerga con naturalezza nella vita sociale. Un testo sempre attuale, che può certamente essere modificato, ma senza forzature. La Costituzione infatti «è quella cosa che i popoli si danno quando sono sobri, a valere per quando saranno ubriachi» e deve restare «una garanzia di pace interna». Eppure da più parti se ne chiede un «tagliando», è vittima di attacchi, per lo più da destra, «perché» riflette Zagrebelsky «è cresciuta l’insofferenza verso il bilanciamento dei poteri che essa garantisce».

Professore, ma che cosa è una Costituzione?
«È lo strumento attraverso il quale ci diamo una forma di vita comune. Sottolineo il comune. Per darsi una Costituzione bisogna riuscire a trascendere se stessi, i propri interessi particolari. Benedetto Croce, all’inizio dei lavori dell’Assemblea costituente avrebbe voluto che si svolgessero sotto il segno del Veni Creator Spiritus. Aveva suscitato stupore che tale invocazione provenisse proprio da uno dei massimi esponenti della cultura laica. Ma non aveva nulla di clericale. Era la consapevolezza che ci si accingeva a un’opera che ha qualcosa di sovrumano. Fare, o cambiare, la Costituzione non è fare una legge qualunque. Oggi si crede che chiunque possa mettere mano alla Costituzione, che basti volere e poi scrivere quel che s’è voluto, come una legge qualunque.
Che ingenuità e presunzione! Se si fa così, si creano mostri, dei quali, prima o poi, ci si pentirà. Un tempo si pensava che le costituzioni fossero opera della Provvidenza (De Maistre) o dello Spirito incarnato nella storia (Hegel), cioè per l’appunto di forze sovrumane. Oggi si pensa altrimenti, ma resta la questione: la Costituzione è fatta per valere nei confronti degli stessi che la fanno. Bisogna credere che questi, soggetti particolari, siano capaci di uscire dal bozzolo dei loro interessi e provvedano per il bene di tutti».
Quali sono le caratteristiche della nostra Carta?
«Intanto la sua genesi, in un periodo storico molto particolare, dopo la fine della guerra e la sconfitta del nazifascismo. L’Assemblea costituente era profondamente divisa, le divisioni attuali sono nulla rispetto a quelle di allora. Per questo si parlò di miracolo costituente. L’imperativo comune era “mai più la guerra”: se la Costituente avesse fallito sarebbe stato un disastro. La Costituzione è una garanzia della pace interna. Allora l’imperativo supremo era la pacificazione; oggi è, ancora come sempre, il mantenimento della pace. La nostra è inoltre una Costituzione rigida, resiste cioè alle modifiche delle semplici maggioranze. È stato detto che “la Costituzione è ciò su cui non si vota più”. Ci sono infatti aspetti essenziali della vita quali le maggioranze e i governi non possono mettere la loro mano. Tutte le proposte di cambiare la Costituzione, se non condivise, sono come le procellarie: annunciano tempesta».
La nostra viene considerata una delle Costituzioni più belle del mondo. Perché?
«Una cosa è certa: la Costituzione italiana è stata fonte di ispirazione di numerose altre, venute dopo. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre 1948, in molte parti, addirittura coincide letteralmente. Dietro la nostra Costituzione c’è un’idea di convivenza civile, un solidarismo che abbraccia tutti e non lascia nessuno indietro. Questa è la strada indicata dall’articolo 3 sull’eguaglianza.
Una concezione oggi in difficoltà, per l’affermarsi di un’ideologia anticostituzionale, tutta orientata alla competizione e alla concorrenza, che dividerà la gente in due, i vincitori e i vinti». Non è allora lontano dal vero Silvio Berlusconi nel dire che la nostra Costituzione ha «un’ispirazione sovietica». «Stento a credere che si possa pensare così. Certo, ogni Costituzione si ispira a una concezione politica e sociale della vita. Ma la nostra si inserisce perfettamente nel corso storico del costituzionalismo del nostro tempo che si ispira alla società aperta, democratica, liberale, e solidale, non al totalitarismo. Riconosce la libertà di iniziativa economica privata, ma prevede anche il diritto dello Stato a intervenire ove occorra.La libertà di mercato senza limiti può trasformarsi nel suicidio del mercato. Basti pensare alla crisi economica attuale e agli interventi pubblici che ha richiesto. Che cosa c’entrano i soviet?».
La Costituzione non è intoccabile. Può sempre essere modificata.
«E lo è stato fatto più volte. Si pensi al giusto processo o alla riforma del titolo V. La si può certo modificare, con procedure aggravate e maggioranze larghe, per adeguarla ai tempi. Ma ci sono dei punti intoccabili, come la forma di governo repubblicana, i diritti fondamentali di libertà e i diritti sociali, la democrazia. C’è poi una differenza tra modificare la Costituzione e cambiarla. Passare, per esempio, dal regime parlamentare a quello presidenziale non comporta una semplice modifica ma una vera e propria sostituzione di una concezione politica con un’altra».
Il ministro Brunetta vuole riscrivere l’articolo 1. Cosa ne pensa?
«Fondare sul lavoro la natura democratica dello Stato ha una valenza etica. Il riferimento al lavoro non è legato all’economia al lavoro come merce. Il lavoro è un aspetto essenziale della dignità umana, come sanno per esperienza quelli che ne sono privi. Sostituire “lavoro” con “merito” e “competizione” significa volersi esporre a quell’ideologia terribile che è il darwinismo sociale».
Perché parte della destra mostra tanta insofferenza verso la nostra Carta?
«Perché c’è una tendenza alla democrazia d’investitura, che vede con fastidio ogni bilanciamento dei poteri. Il rafforzamento del Governo e del Presidente del Consiglio non sono di per sé atti dispotici, purché siano temperati da altrettanto forti poteri di controllo e garanzia, parlamentari, giudiziari e istituzionali (del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale)».
Organismi che vengono oggi accusati di politicizzazione, a partire dalla Consulta.
«È da ignoranti non capire che quando si assumono cariche istituzionali è necessario e possibile che si assuma anche lo spirito della funzione. Se si ha avuto e se si ha un’idea politica, non necessariamente questa perturba l’esercizio di una funzione che politica non deve essere. Si possono criticare le decisioni della Corte costituzionale, ma per farlo bisogna leggerne (e capirne) le motivazioni giuridiche. Non basta dire: questo o quel giudice hanno un passato politico».
È vero che all’origine della Costituzione c’è stato un «inciucio» tra le forze politiche?
Massimo D’Alema ne ha parlato a proposito di Togliatti e dell’articolo 7, sui rapporti tra Stato e Chiesa, per dire che «certi inciuci fanno bene al Paese». «Una cosa è la sintesi politica. Un’altra è lo scambio di favori. L’immunità concessa a una persona che occupa pro tempore la carica di Presidente del Consiglio che cosa è: sintesi o scambio?».

martedì 12 gennaio 2010

Assalto alla Costituzione

Assalto alla Costituzione

Lunedì 11 Gennaio 2010 00:00
di Ilvio Pannullo

Che la Costituzione repubblicana del 1948 non piacesse al Presidente del Consiglio era cosa nota da molto tempo. Quanto sta accadendo in questi giorni, tuttavia, dà modo di capire chiaramente quale sia il filo rosso che collega le 99 proposte di modifica giacenti in Parlamento. L'ultima uscita in ordine di tempo del Ministro dei Lavori Pubblici, Renato Brunetta, secondo il quale l'affermazione che "l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro" non significherebbe nulla, è solo la punta dell'iceberg.

La volontà politica eversiva che anima la maggioranza di governo emerge, infatti, in tutta la sua brutalità, dalla lettura attenta delle proposte di modifica già depositate dai parlamentari nelle rispettive camere di appartenenza. Non che questi godano di una indipendenza politica od intellettuale, ma dopo le esternazioni del premier, secondo il quale la Costituzione italiana sarebbe nulla più che "una legge fatta molti anni fa, sotto l'influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla costituzione russa come a un modello", l'assalto è iniziato.

Si va dai leghisti, come il deputato Giacomo Stucchi, che pensa all'autonomia della provincia di Bergamo, al più temerario senatore del Popolo della Libertà, Lucio Malan, che vorrebbe revisionare "l'ordinamento della Repubblica sulla base del principio della divisione dei poteri". Anticipando di un anno il Ministro Brunetta, nel novembre del 2008 Malan proponeva di modificare l'articolo 1, trasformando l'Italia in una Repubblica "fondata sui principi di libertà e responsabilità, sul lavoro e sulla civiltà dei cittadini che la formano". Una Repubblica - così la sogna Malan - dove i senatori a vita non votano, il Presidente del Consiglio non presta giuramento e il governo non ha bisogno della fiducia delle Camere. A questi si aggiunge Davide Caparini che vorrebbe stralciare dal testo dell'articolo 33 quella parte secondo cui la scuola privata vive “senza oneri per lo Stato”.

Il loro meglio però, prevedibilmente, i parlamentari del PdL lo esprimono in materia di giustizia: si contano infatti ben quattro disegni di legge per il ripristino dell'immunità parlamentare e si lavora anche su come semplificare il procedimento legislativo. Una proposta del deputato Giorgio Jannone vorrebbe modificare l'articolo 72 e fare in modo che "non sempre l'assemblea sia chiamata a votare progetti di legge approvandoli articolo per articolo e con votazione finale". Un tentativo forse da interpretare come un servizio al presidente Berlusconi, che già aveva proposto, in una delle sue tante uscite dissennate, di approvare le leggi attraverso il voto dei soli capigruppo. C'è chi poi come Raffaello Vignali vorrebbe addirittura modificare gli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale, supremo organo di garanzia insieme al Presidente della Repubblica dell'ordine costituzionale, rea di essersi messa troppe volte contro gli interessi del Re di Arcore.

Le riforme riguardanti la magistratura sono, ovviamente, tra le più stravaganti. Giuseppe Valentino propone una corte di giustizia disciplinare, Antonio Caruso un'alta corte di giustizia, Gaetano Pecorella, forse stanco di doversi sempre studiare tutte le carte dei molti processi a carico del suo assai munifico cliente, passa invece il suo tempo occupandosi di PM e Procure, immagina una divisione delle carriere sancita dalla stessa Costituzione. Ovviamente proporre una modifica non equivale a modificare, ma quello che tuttavia colpisce - e che traspare palesemente dalle molte proposte già depositate - è la totale ignoranza delle ragioni storiche e politiche che portarono a quello straordinario compromesso ideologico che ha rappresentato, e tuttora rappresenta, la Costituzione italiana del 1948. Una carta unica, che rappresenta un punto fermo nella storia del costituzionalismo europeo e che viene considerata da molti addetti ai lavori come un vero è proprio prodigio giuridico, proprio per quella lungimiranza delle disposizioni che la rendono, ancora oggi a distanza di più di 60 anni, straordinariamente attuale.

La Costituzione del 1948 trovò la sua premessa nella resistenza, nel ripudio dello Stato autoritario e dei suoi dogmi, nella volontà di ripristinare la democrazia e i principi dello Stato di diritto, umiliati durante il ventennio fascista. Sulla base dell'idea liberale che vuole il potere regolato e sottoposto a limiti giuridici per garantire diritti e libertà, storicamente congiunto all'idea democratica, s’innestarono elementi propri delle dottrine delle due ideologie dominanti: quella cristiano sociale e quella socialista. La Costituzione italiana va, infatti, collocata in uno scenario più ampio, addirittura mondiale, traversato da idee e speranze comuni maturate attraverso esperienze tragiche che non si volevano ripetere.

Per questi motivi, nonostante sia corretto, è tuttavia riduttivo vedere nella Costituzione solo il prodotto dell'antifascismo, il rigetto della dittatura come esperienza italiana. La lotta antifascista s’iscrive, infatti, nell'ampio scenario di una guerra mondiale condotta e vinta contro tutti i fascismi, uno scenario dominato dall'intento di costruire un mondo diverso e migliore, che potesse ridare dignità alla persona umana. Il valore della persona era nella cultura comune dei costituenti; tutti, dal primo all'ultimo, siano essi stati comunisti, socialisti, liberali, repubblicani o democristiani. Un'unione di forze, di spiriti e d’intenti che oggi sarebbe impensabile, ma che allora si raggiunse dando alla luce il documento che oggi è alla base dell'unità nazionale. I costituenti erano infatti decisi nell'affermare i diritti non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva dei diritti stessi attraverso l'assicurazione di condizioni esistenziali dignitose.

Accanto alle libertà tradizionali, di pensiero, di espressione, di religione, si affiancavano la libertà dalla paura e dal bisogno. Accanto alla necessità di assicurare teoricamente al cittadino le libertà politiche si sentì la necessità di metterlo in condizione di potersene praticamente servire. Di libertà politica "potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo benessere economico", senza il quale la possibilità di esercitare i propri diritti viene meno.

Così parlava Carlo Rosselli, grande giurista al cui pensiero s’ispirò quel Piero Calamandrei del gruppo autonomista, cui si deve uno dei passaggi forse più importanti della nostra Costituzione: quell'articolo tre comma due, secondo il quale "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del paese".

È per tutte queste ragioni che la costituzione trova in se stessa la propria ragione di esistere. In essa si trova la piena esplicazione di quei principi su cui si fonda il potere costituito ed è per questo che anche le leggi di revisione costituzionale sono sottoposte al giudizio di costituzionalità. In altri termini, non è possibile inserire nella Costituzione quello che si vuole: per esempio, purtroppo per Brunetta, non vi si potrebbe inserire una norma che dica: "L'Italia una Repubblica democratica fondata sulla rendita finanziaria"; perché sarebbe in contrasto con il principio fondamentale previsto dall'articolo 1, secondo il quale "l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Perciò una norma del genere, anche se è prevista con una legge di revisione costituzionale, sarebbe essa stessa incostituzionale.

Così, anche un lodo Alfano costituzionalizzato sarebbe sempre incostituzionale, perché in contrasto con l'articolo 3, quello che perentoriamente afferma che "tutti cittadini sono uguali davanti alla legge". Dovranno darsi dunque pace: sia che la loro impunità sia prevista da una legge ordinaria, sia che sia prevista da una legge costituzionale, sempre incostituzionale rimarrà. Il nostro paese ha già conosciuto il cancro della dittatura, è riuscito a liberarsene e ha deciso di dotarsi degli indispensabili strumenti giuridici necessari per evitare una ricaduta. La Costituzione è la nostra storia, per questo va difesa a tutti i costi.

L'amore per se stesso

di GIUSEPPE D'AVANZO

È stata breve la stagione dell'amore di Silvio Berlusconi. Distratto o confuso dalle sue stesse dolci parole, il presidente del Consiglio non si è accorto dell'esplosione di odio assassino che ha attraversato Rosarno (non ha detto una sola parola su quella tragedia, forse perché in fondo quelli erano negri e gli altri terroni, per dirla con il Brighella che gli dirige il giornale di famiglia). Ora al rientro dalla convalescenza, concentratissimo, il capo di governo discute di libertà. Le leggi ad personam, dice, non sono altro che "leggi ad libertatem". Amore, libertà. Le parole suonano bene e hanno un buon odore, ma non bisogna farsi ingannare. Le formule non accennano mai a un noi, sempre a un Io e dunque va meglio precisato l'orizzonte politico e istituzionale che si scorge: Berlusconi inaugura oggi la stagione dell'amore per se stesso, della libertà per se stesso. Novità? Nessuna, naturalmente. Diciannove leggi ad personam ci hanno abituati, nel tempo, ai trucchi nascosti dietro una quinta scorrevole che qualche malaccorto definisce la volontà riformatrice di un governo, una sfida "costituente" da non lasciar cadere, l'opportunità di un confronto nel merito.

Il "merito", come si dice, è sempre lo stesso. Ha un nome, un cognome, una faccia, un passato da imprenditore creativo e spregiudicatissimo; un presente da capo di governo in conflitto d'interessi invasivo e perenne che disprezza la sovranità della Costituzione; un futuro da Primus, da Eletto che pretende un'immunità speciale dalla Legge. È musica che conosciamo e Berlusconi, che non delude mai, non ce ne priverà nei prossimi mesi. Dice che ha lavorato intensamente alle tappe di una riforma fiscale. È una manovra di distrazione di massa, anche questa non nuova alla vigilia di ogni elezione. In realtà, ha riproposto un'iniziativa già fallimentare tre lustri fa (due aliquote) e irrealizzabile oggi, come tutti sanno e dicono a bocca storta. Il meglio delle sue energie, come si scopre adesso, Berlusconi lo ha riservato al programma di libertà per se stesso dai processi, dalla giustizia per il presente e per il futuro. Appena rientrato sulla tolda del comando unico, è salito al Quirinale per informare il capo dello Stato delle sue trovate, dopo aver rassicurato i suoi che "Napolitano deve dargli una mano". La prima trovata è un decreto legge (quindi, immediatamente esecutivo) che imporrebbe una sospensione di tre mesi ai processi in cui il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto "contestazioni suppletive". È accaduto durante il dibattimento contro David Mills, testimone corrotto e condannato in primo e secondo grado (Berlusconi è accusato di averlo corrotto, il processo paralizzato dai lodi immunitari deve ora ricominciare). Contestazioni suppletive anche nel processo per la compravendita dei diritti televisivi Mediaset, ancora in corso (Berlusconi è imputato di frode fiscale).


Se il decreto legge dovesse essere firmato perché "urgente" dal capo dello Stato, Berlusconi con quest'abito cucito a sua misura guadagnerebbe, senza patemi, il tempo necessario per condurre in porto il "processo breve" che prevede la durata complessiva di sei anni. Una correzione che, se approvata, fulminerebbe - perché "estinti" - i processi che lo vedono imputato, ma - si sa - Berlusconi non si accontenta mai. Ecco allora la seconda idea originale progettata durante la convalescenza: perché non rendere liberi - e quindi immuni dalla legge, dal processo e dal giudizio - anche le società, dopo le persone? Di qui, la proposta contenuta nell'emendamento, che oggi sarà presentato al Senato, di un'estensione del "processo breve" anche alle persone giuridiche, quindi alle società che devono rispondere di reati contabili, danni erariali, di responsabilità amministrative per reati commessi da figure apicali nell'interesse aziendale. Mediaset ne ricaverebbe qualche sollievo nei suoi contenziosi giudiziari come la Pirelli-Telecom di Marco Tronchetti Provera, l'Eni e l'Italgas che devono rispondere di truffa ai danni dei consumatori, ma soprattutto Impregilo di Benetton, Ligresti e Gavio, per dire alla rinfusa di qualche processo già in corso.

È un'iniziativa non soltanto auto protettiva, allora. Elimina, con la separazione dei poteri pubblici (si crea un'area di immunità protetta dalla legge), anche ogni separazione tra la sfera pubblica e la sfera privata, tra poteri politici e poteri economici, una separazione essenziale che fa parte del costituzionalismo dello Stato moderno, "ancor prima della democrazia" aggiunge Luigi Ferrajoli. Il ritorno all'attività di Berlusconi ha un pregio indiscutibile. Con una sola mossa e in poche ore, lascia cadere ogni maschera. Si libera dell'alibi della "riforma della giustizia". Rende chiara la sua volontà e offre un saggio di quel che intende per "riforma costituzionale" agli incauti che hanno voluto credere nel suo "spirito costituente" condito dalla primitiva teologia politica del bene e del male, dell'amore e dell'odio. Egli, che è il bene, e addirittura l'organo monocratico che rappresenta la volontà dell'intero popolo sovrano, vuole soltanto costituzionalizzare se stesso, la sua anomalia, la concentrazione del suo potere, il suo conflitto di interesse.

Vuole riscrivere le regole comuni a partire dalla personalizzazione del suo potere che immagina e pretende separato da un Parlamento umiliato, immune dalla legge, confuso fino all'indistinzione con gli interessi economici che lo sostengono nella sua volontà di potenza. Berlusconi sa di sacrificare con la nuova tornata di leggi ad personam ogni possibilità di confronto con le opposizioni, ma ci ha davvero mai creduto in una discussione dagli esiti condivisi? È difficile crederlo. Lo strappo di Berlusconi dimostra come al fondo del suo "spirito costituente" ci sia soltanto una vecchia idea che Gianfranco Miglio già nel 1994, con la prima vittoria della destra, espresse in modo brutale. La Costituzione non è un accordo tra tutti sulle regole del gioco, ma è un "patto che i vincitori impongono ai vinti. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l'altra metà. Poi si tratta di mantenere l'ordine nelle piazze".
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E adesso l'immunità anche per le aziende!!!!
Qui si vuole devastare completamente lo stato e ridurre tutti noi cittadini ad umili servitori....))))
Nella

lunedì 11 gennaio 2010

The waste land

Sandra Bonsanti, 11-01-2010

E’ difficile non inorridire davanti all’immagine dell’uomo in fuga, del cacciatore che insegue, dell’umanità calpestata, dei diritti traditi.

E’ impossibile non ribellarsi alle spiegazioni facili e assolutorie. La verità fa male e lo fa tanto più in questa epoca di eterne sconfitte della legalità e della moralità, della coscienza civile degli italiani.

La verità è che la classe dirigente del nostro paese ha accettato da tempo di convivere con la realtà di terre totalmente sottratte al controllo dello Stato e abbandonate al potere delle mafie locali e internazionali. Per utilità, per convenienza, per calcolo, per indifferenza, per paura, per difficoltà a risolvere i problemi, dunque anche per ignoranza e incompetenza.

Penso con rabbia ai milioni di euro stanziati dall’Europa per progetti di sviluppo, non spesi perché o i progetti non sono stati fatti, o sono stati giudicati inadeguati, o addirittura inutili. Fondi rimasti inattivi da qualche parte, soldi che potevano finanziare imprese, sviluppo, scuole, centri di accoglienza, formazione, ricerca e cultura. Il futuro.

E’ solo un aspetto del problema immenso che oggi la comunità deve fronteggiare. Ma un aspetto che ci aiuta a capire quanto siano enormi gli interessi che si stanno muovendo in queste ore, quanto sia oscuro il potere che si agita e prepara, a suo modo, le elezioni regionali. Ci aiuta a capire anche quanto siano inadeguate e parziali molte delle analisi che oggi leggiamo, soprattutto quelle ufficiali della maggioranza di governo.

Ma non solo. Se fosse esistita una opposizione, avremmo visto leader politici mobilitarsi con qualche forma di presenza sul territorio e di analisi, esprimere un giudizio, fare una proposta, non tanto per il gusto di accusare l’incapacità di questo governo, ma per prendere atto onestamente che la sconfitta della legalità e della coscienza civile non spunta dal nulla: tutti sapevano tutto o quasi tutto ma nessuno ha scelto di fare della riscossa del sud (e di conseguenza del resto del Paese) la priorità politica di questi anni. Come se un Paese dilaniato fra un Nord ammaliato dalla Lega e un Sud abbandonato alla ‘ndrangheta possa sperare davvero di avere un futuro.

Si dice che tanto non c’è niente da fare. Libertà e Giustizia è stata in Calabria con una sessione della scuola di formazione politica e ci tornerà, anche perché lo promettemmo ai ragazzi che parteciparono. Il primo punto è dunque: esserci. Ce lo chiedono gli amici della Calabria, insieme alle associazioni che non si danno per vinte, ai preti coraggio, ai cittadini che soffrono e si ribellano.

Il secondo punto, però, è quello della buona politica: non c’è futuro per la Calabria, la Campania, la Puglia, la Sicilia se lì più ancora che altrove non si praticherà la buona politica: senso dello Stato, trasparenza, competenza, moralità. Serve sostituire chi non ha saputo o non ha voluto “governare”. Servono procedure limpide nella scelta dei candidati, serve il coraggio della legalità.

Anche per questi motivi è davvero incomprensibile a molti di noi il meccanismo della scelta dei candidati a governatori da parte del Pd. Nichi Vendola è stato una delle poche novità politiche di questi anni, ci risulta che sia stato anche un amministratore competente e dedito totalmente al suo incarico: perché non sostenerlo?

E perché le decisioni e le non decisioni che prende il vertice del Partito democratico stridono così fortemente con i sentimenti di quelli che lo hanno votato?

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Per molto tempo si è sentito dire di una “transizione” in mezzo alla quale l’Italia si troverebbe, spesso si aggiunge che essa è una “lunga transizione”, a volte se ne prevede la fine, in un tempo non lontano e i commentatori ne parlano come di un’amica di famiglia.

Non ho mai capito bene in cosa consista questa “transizione”, se non che più o meno coincide con gli anni del potere di Berlusconi, di un sistema tendenzialmente maggioritario, del dopoTangentopoli ecc. Il Devoto dice che transizione significa esattamente “passaggio da una situazione a un’altra”. Qualcosa è davvero cominciato negli anni novanta del secolo scorso: un declino sempre più grave della classe dirigente del Paese (politici, giornalisti, imprenditori, professionisti…), tanto più grave, ovviamente, per coloro che aspirano a governare e per questo cercano il voto degli elettori. Al declino ha corrisposto una sorta di blindatura nei confronti di energie nuove destinate al naturale ricambio. Questa classe dirigente, spesso per incapacità e amore del potere, ha permesso il degrado delle Istituzioni (un Parlamento che non ha alcun potere), lo squilibrio tra i poteri dello Stato, il consolidarsi di una “Costituzione materiale” intrisa di interessi privati e nemica dell’uguaglianza dei cittadini. Ha disegnato un Paese senza futuro, venato di razzismo.

Dalla “Waste land” verso cui stiamo scivolando quasi fosse la sponda finale della “transizione” sarà difficile riemergere e ripartire. Chiedeva T.S.Eliot nel suo immortale poema del 1922: “What are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish?” (“Quali sono le radici che si afferrano, quali rami crescono da queste macerie di pietra?”).

Onestamente, oggi, possiamo dire quali radici ancora non ci saranno strappate via?

Prime prove di inciucio telefonico

Prime prove di inciucio telefonico
di Marco Lillo
11 gennaio 2010

Perché il Pd non si oppone alle mire di Mediaset sulla rete di Telecom

Prove tecniche di inciucio telefonico. A dare il via alle danze è stata un’intervista di Paolo Gentiloni a Il Riformista. L’otto gennaio scorso, l’ex ministro delle comunicazioni, rispondendo alle domande di Gianmaria Pica, ha dato un imprevisto via libera alla possibile alleanza tra Telecom Italia e Mediaset: "Pier Silvio Berlusconi", spiega Gentiloni, "ha parlato di far crescere Mediaset fino a farla diventare un content provider, una sorta di major italiana che fornisce contenuti televisivi. Per fare questo per Mediaset sarebbe strategico il rapporto con Telecom: è il cuore del business della telecomunicazioni".

Così, allegramente, Gentiloni suona la tromba all’avanzata del Cavaliere sull’unico territorio mediatico che gli è ancora ostile: Internet. In un paese nel quale il presidente del consiglio controlla direttamente le tre reti Mediaset e indirettamente le tre reti Rai, mentre Telecom tiene La7 a bagnomaria e l’unico vero concorrente, Sky, viene frenato con l’Iva e i tetti pubblicitari, il politico più autorevole dell’opposizione, l’uomo che dovrebbe rappresentare la diga allo strapotere del premier-editore, applaude l’ingresso di Berlusconi sulla rete Telecom. Chi dovrebbe curare il conflitto di interessi nella tv, sembra favorire la metastasi su Internet.

Occasioni perse. L’intervista a Gentiloni è l’atto finale del lungo harakiri della sinistra sul fronte Telecom. Per comprendere l’ultimo fotogramma di questo film dell’orrore bisogna tornare all’inizio e provare a porsi qualche quesito del tipo: cosa sarebbe successo se...? Perché, se con i se non si fa la storia, magari si comprende meglio la cronaca. La Telecommedia inizia con la privatizzazione e la successiva opa quando Romano Prodi e Massimo D’Alema pensano di individuare in Umberto Agnelli e Roberto Colaninno due interlocutori industriali che invece si riveleranno finanzieri. Carica dei debiti di Colaninno, nel 2001 la compagnia finisce alla Pirelli. Marco Tronchetti Provera dimostra subito di non voler competere con il sistema berlusconiano.
Anzi. Dopo uno strano affare con il gruppo del premier (l’acquisto di Pagine Utili con il versamento di 55 milioni alla Fininvest) Tronchetti soffoca nella culla La7. Annulla i programmi dei big come Fabio Fazio che poteva minacciare Mediaset e paga senza battere ciglio le star per tenerle in panchina. La7 è un’inezia da sacrificare sull’altare del grande gioco telefonico.
Eppure quell’apertura del mercato che non arriverà dai programmi televisivi dell’era Tronchetti poteva arrivare dalle sue strategie internazionali.

Sognando Madrid. Il momento nel quale l’Italia è stata più vicina ad avere un competitor valido per Mediaset non è stato il 25 giugno del 2001 quando debuttò La7 di Fazio, Lerner e Sabina Guzzanti. Ma il 7 settembre del 2006 quando Tronchetti Provera e Rupert Murdoch si incontrano in barca al largo di Zante.
I legali dei due gruppi avevano preparato una bozza di accordo per l’ingresso di Murdoch nella holding di controllo di Telecom con una quota di poco inferiore a quella di Pirelli. In quei giorni Tronchetti spiegava riservatamente ai suoi collaboratori che l’approdo finale non era Zante ma Madrid.
Il sogno di Tronchetti era quello di unire questa Telecom rinforzata da Murdoch con Telefonica o un altro grande operatore per creare una conglomerata in grado di veicolare i contenuti su Internet e il satellite in tutto il mondo. La ricaduta italiana sarebbe stata la nascita di un concorrente in grado di dare filo da torcere a Mediaset e Rai su più piattaforme. Sulla carta le condizioni dell’estate 2006 erano ottimali. Al governo c’era Romano Prodi all’apice della sua forza.
Il centrosinistra potrebbe benedire l’alleanza italo-australiana e invece si mette di traverso. Un mese prima dell’incontro sul Corriere esce il piano del governo per scindere la rete dalla società telefonica, che sarebbe come sfilare il motore dal cofano della macchina il giorno prima della sua vendita a Murdoch. Il 5 settembre, prima dell’incontro greco, il consigliere di Prodi Angelo Rovati consegna a Tronchetti il piano per scindere la rete e affidarla alla Cassa depositi e prestiti.
Il 19 settembre Piero Fassino alla festa di Rifondazione plaude alla separazione della rete. Il messaggio è chiaro: se Murdoch compra, si scordi la rete. Il magnate australiano lascia poco dopo denunciando l’invadenza della politica italiana. A febbraio Tronchetti ci riprova con Telefonica. Ma riparte la campagna su rete e italianità con i politici di sinistra che minacciano di mettere sotto scacco l’acquirente straniero mediante la regolazione e i controlli.
Anche gli spagnoli mollano, salvo rientrare dalla finestra insieme a Benetton e alle banche quando Tronchetti vende.

Evoluzioni. E’ interessante riguardare le posizioni di allora alla luce dello scenario che si sta delineando oggi. La sinistra al governo, per limitare il potere dell’invasore Murdoch, predicava la separazione della rete e la sua annessione alla Cassa depositi e prestiti dello Stato. Tra quelli che sostenevano la separazione allora c’era anche un certo Franco Bernabé.
Oggi il numero uno di Telecom si oppone allo scorporo (come fa tutta la sinistra) mentre allora, nella posizione di consulente della banca Rothschild da dove lavorava insieme a Rovati al piano di scorporo. Al di là delle giravolte dovute ai cambiamenti di ruolo, però, resta la miopia strategica. Per sostenere il falso mito dell’italianità (quando era al governo e avrebbe voluto mettere la rete sotto il suo controllo) la sinistra ha perso una grande occasione.
L’ingresso di Murdoch e Telefonica nella Telecom di Tronchetti avrebbe salvaguardato l’italianità e avrebbe aperto il mercato tv. Sono passati tre anni. La prima azienda di telecomunicazioni italiana ha galleggiato tagliando i costi e gli investimenti.
L’unico prodotto di rilievo, il CuboVision, è per ora poco più di uno spot. Ora pare che Telefonica torni a farsi sotto. Solo che stavolta gli spagnoli vogliono la maggioranza e, per ottenerla, sono disposti a trattare con Mediaset sulla rete e i contenuti. La chiamano italianità.

Da Il Fatto Quotidiano del 10 gennaio

sabato 9 gennaio 2010

Ricevo da Paolo Borrello e volentieri pubblico:

Di seguito riportiamo la postfazione scritta da Tonio Dell'Olio (Libera International) per il testo pubblicato lo scorso anno col titolo GLI AFRICANI SALVERANNO ROSARNO (e, probabilmente, anche l'Italia), Ed. Terrelibere.org. Nel libro ci sono Interventi di Giuseppe Lavorato, Fulvio Vassallo Paleologo, Fortress Europe. Prefazione di Valentina Loiero. A distanza di tempo, alcune di queste considerazioni si rivelano efficaci chiavi di lettura per comprendere quanto sta avvenendo in questi giorni a Rosarno.

E la mafia ringrazia. Perché i governi si susseguono e le maggioranze si rovesciano ma le porte continuano a chiudersi in faccia a questa umanità dolente che bussa alla speranza. Perché fuggono dalla disperazione quei sogni, quelle vite, quelle mani desiderose di faticare per spedire quattro soldi a casa e mangiare pane di sudore. Ed è per questo che sono disposti a pagare qualunque prezzo pur di attraversare deserti e mari per giungere a toccare una terra santa in cui poter ritornare a sperare.
E la mafia ringrazia. E incassa. E ringrazia anche perché potrà sfruttare quelle braccia per quattro soldi e potrà chiedere loro il pizzo del caporale e quello di una catapecchia e quello del trasporto da casa al podere in cui raccogliere le arance. E la mafia ringrazia perché questo Paese non ha leggi umane per la povera gente e perché tutti gli altri si voltano dall'altra parte.
E la mafia ringrazia perché queste sono braccia buone a vendersi anche per fare del male. La disperazione. Qui nella Piana tra San Ferdinando e Rosarno dove la campagna urla una natura generosa e gli alberi sembrano vestiti a festa per il Natale, non te l'aspetti che la miseria ti colpisca alle spalle e che qualcuno sia pronto a sfruttarti perché qui da sempre il lavoro è chiamato fatica e sono popoli nomadi senza romanticismo. Nomadi per lavoro. Nella Piana e nella Locride fino a Reggio ti capita sovente di incontrare gente che è capace di parlarti in tedesco perché a Kalzruhe lavorava da manovale o nei dintorni di Berna indossava una tuta da lavoro per andare in fabbrica. Qui sanno che sapore ha la polvere mischiata al pane e alle lacrime e alla nostalgia del sole e di una campagna vestita a festa. Ma la mafia ringrazia perché si dimentica presto e "chi ha il ventre pieno non crede al digiuno". Parleranno gli studiosi e ci diranno che il fenomeno delle migrazioni è esistito da sempre. Linfa umana nuova e diversa che circolando tra sponde e strade si mischia alla vita, trasportando con sé culture e tradizioni, facendo muovere persino i sapori della cucina fino a condizionare ed arricchire i ricettari. Tutto questo sciamare di popoli sta inscritto nel DNA della razza umana. Questo migrare di volti e di storie, questo rigare di lacrime i volti in partenza sui porti è reso più drammatico oggi da una fame che non conosce precedenti nella storia e dalla velocità delle comunicazioni e delle informazioni. Volersi opporre a tutto questo con la carta delle leggi o con leggi di carta è come voler distendere una rete in aria per fermare il vento. Carne umana che preme sulla pelle del mondo.
E la mafia ringrazia perché questa è carne che si compra e che si vende. E che si ammazza anche per futili motivi. Solo per far capire chi è che comanda veramente qua. Solo per educarne cento. Che tanto noi non li conosciamo per nome e non abbiamo mai pensato che, avvolto in un panno grezzo, anche loro conservano la reliquia di una foto con bimbi che sorridono senza denti e mogli che guardano fiere davanti a sé. Che anche loro durante il lavoro cantano i ritornelli della loro terra e a volte si commuovono e non vogliono farlo vedere. "Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!».Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia" (Salmo 136).
E la mafia ringrazia perché spesso anche le nostre chiese hanno assopito le proprie coscienze e non ripetono più né il pianto né la denuncia. Per l'orfano, per la vedova e per lo straniero. E le mafie ringraziano perché mai si sarebbero aspettate che ad essere loro complici fedeli fossero genti del nord raccolte in un partito a progettare la condanna alla clandestinità, ovvero a chiedere i passaporti alle mafie e viaggio e pedaggio. Questa anagrafe della vita ribolle sotto i colpi dell'inospitalità e ci invita alla scuola di una nuova umanità in cui sono loro i maestri che, dalla cattedra della fatica e del sudore ci insegnano come si fa l'antimafia. Col sangue, con la fatica, col sudore e con la coscienza che ancora sa dire no alla prepotenza.

venerdì 8 gennaio 2010


Per quanto tempo ancora questo novello Catilina abuserà della nostra pazienza. Forse sarebbe saggio che qualcuno proponesse veramente un Lodo, ma per salvare il paese da Berlusconi.

Scappare dai tribunali e dalla legge ad ogni costo? Lodo Alfano, Lodo Alfano Bis, Lodo Costa, processo breve, ddl intercettazioni, riforma della Consulta, ritocco del concorso esterno? Basta, siamo stanchi e c'è da chiedersi, citando Cicerone, per quanto tempo ancora questo novello Catilina abuserà della nostra pazienza. Forse sarebbe saggio che qualcuno proponesse veramente un Lodo, ma per salvare il paese da Berlusconi.
Qualche idea me la sono fatta e in osservanza alla prassi inaugurata dal governo, lo chiamerei "Lodo de Magistris". Pochi punti da definire insieme e non serve nemmeno cambiare la Costituzione , perché approvato in sua difesa, e se anche ci fosse un referendum, credo passerebbe con grande consenso. La proposta di fondo è questa: garantiamo a Berlusconi la possibilità di lasciare l'Italia senza conseguenze.
Non c'è trucco e non c'è inganno: solo il bisogno di ritornare ad essere una nazione democratica e civile. Un volo di Stato -sembra gli piacciano tanto- con annesso Apicella e magari una graziosa signorina. Destinazione? Consigliamo le isole Cayman, che risultano affini persino ad uno dei tanti soprannomi che si è conquistato con anni di (dis) onorevole carriera: il caimano.
Sarebbe per lui un modo per ritrovare, magari, anche qualche vecchio capitale messo in salvo all'estero. E se si annoia? Qualche cavallo e stalliere di fiducia li potrebbe trovare anche lì. Ci permettiamo di suggerire una sola accortezza: che non si chiamino Vittorio e non frequentino Marcello. Il rischio infatti è che anche alle Cayman la storia si ripeta: coppole e appalti nelle isole esotiche sarebbero indigeribili.
Carta e tv liberate potranno riprendere a fare il loro dovere: informare sui fatti, gli stessi che da anni cerca di occultare perseguitando i giornalisti anche se pongono solo domande, cioè fanno il loro mestiere, ovviamente quelli che sopravvivono all'infezione dell' autocensura preventiva. Il Parlamento tornerebbe al proprio compito perché svincolato dalla sua agenda giudiziaria che oggi detta i temi, anzi il tema alle istituzioni: le necessità giudiziarie del fuggitivo da garantire prima di quelle degli italiani.
La magistratura non più costretta agli assaliti quotidiani potrebbe dedicarsi senza timore alla missione che le spetta e le mafie non si sentirebbero più di poter spadroneggiare indisturbate. Per le casse dello Stato il guadagno sarebbe altissimo, per non parlare di quello dell'etica pubblica.
Finito l'inquinamento di tutti gli ambiti economici e mediatici, il mercato finalmente alleggerito dalla cappa del suo conflitto di interessi, forse riprenderebbe a girare normalmente. E le somme ritrovate, anche con una lotta all'evasione certa, potrebbero essere investite nella formazione e nell'istruzione: una sorta di 8 per mille dell'antibelusconismo.
Ma soprattutto noi non sentiremo più quel mantra che riecheggia dai contesti internazionali alle riunioni riservate e che vuole comunisti, bandiere rosse, manette impazzite accanirsi contro un solo uomo. Finalmente in questa patria liberata non ci saranno più scudi fiscali e lodi ad personam, decreti razzisti e leggi fondamentaliste, emendamenti che ridanno alle mafie ciò che lo Stato ha tolto loro.
E noi? Noi semplicemente torneremo ad essere un paese normale, degno dell'Europa e della civiltà democratica. Fantascienza? Forse. Sicuramente la stessa a cui ci ha abituati con le sue dichiarazioni e le sue azioni politiche surreali: diciamo degne di un altro pianeta, se esiste.
a costituzione Italiana frutto di tre grandi culture politiche: cattolica, maxista, liberale, è una delle più avanzate, armoniose e civili carte costituzionali del mondo.
Una costituzione non astrattamente idealistica, ma capace di esprimere i suoi altissimi principi con la concretezza dello sviluppo economico e della crescita collettiva degli Italiani, della proiezione del nostro Paese verso un’Europa che è stata la grande meta del Risorgimento Nazionale.
Entrata in vigore il 1 gennaio 1948 porta la firma del liberale Enrico De Nicola, del comunista Umberto Terracini e del democristiano Alcide De Gasperi.
Ero e sono ancora fermamente convinta che una carta così altamente testimoniata non può essere sostituita dalla firma di Berlusconi e Bossi, che sono la negazione di tutto quanto la nostra carta afferma.
Già solo questa considerazione deve esserci da stimolo per impegnarci senza riserve ancora una volta nella battaglia per la difesa della nostra Costituzione, perchè nonostante il referendum di pochi anni fa, verrà stravolta da questa maggioranza e, ci auguriamo, senza l'aiuto del PD.
Mi pare opportuno richiamare a tal proposito il discorso ancora attualissimo sulla costituzione tenuto ai giovani di Milano nel lontano 1955 da Pietro Calamandrei, il fiorentino che fu docente di diritto civile, tra i fondatori del partito d’azione e che dopo aver partecipato alla resistenza, fece parte della costituente:
“Nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante, il più impegnativo. Dice così:E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese.
Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti la dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto si potrà veramente dire che la formula contenuta nel primo articolo “ la Repubblica d’Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, corrisponderà alla realtà. Perchè fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra repubblica non si potrà dire “fondata sul lavoro” ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia un’uguaglianza di fatto, in cui ci sia solo un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro migliore contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe , è vero, a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà: in parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere (….).
Dietro a ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano e di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi questa non è una carta morta,questo è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.”
Dunque a noi spetta difenderla e di lottare perché venga finalmente realizzato il programma in esso contenuto: dare lavoro a tutti, dare a tutti la dignità d'uomo, lo dobbiamo a quei morti.
lunedì 21 dicembre 2009
Nella Toscano
"Nonostante le ripetute sollecitazioni che sono pervenute dal mondo delle professioni, nonostante tutti gli indicatori economici segnalino che la crisi in atto stia da tempo colpendo in modo particolarmente rilevante gli studi professionali, il Governo così come purtroppo buona parte degli enti locali, sembra che non abbia ancora preso atto dei problemi strutturali del comparto delle libere professioni. A questa situazione si aggiunge anche una insufficiente attenzione nei confronti, nello specifico, delle difficoltà che stanno investendo la professione di architetto, che soffre in modo particolare della crisi del settore edilizio, la conclusione non può che essere una sola: il rischio di "povertà" per una gran massa di professionisti - in particolare, i giovani che sono almeno il 50% dei nostri iscritti - è, letteralmente, alle porte". Lo ha dichiarato Massimo Gallione Presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori.

"Sia nella Manovra anticrisi d'estate che nella Finanziaria 2010 - dice ancora Gallione - il Governo aveva a portata di mano la possibilità di includere negli aiuti predisposti per le piccole e medie imprese anche gli studi professionali: in particolare, estensione degli sgravi e incentivi fiscali, e accesso al credito. Sarebbe stato un segnale molto importante di riconoscimento dell'impegno che il capitale intellettuale del Paese - come vengono definiti i professionisti - compie quotidianamente."

"Non averlo fatto - prosegue il Presidente degli architetti italiani - e aver ignorato le proposte che concretamente gli architetti hanno predisposto relativamente, ad esempio, ai Lavori pubblici, all'edilizia privata, all'urbanistica, fa ben comprendere quanto le istituzioni siano ancora distanti dalle esigenze del Paese reale. Gli architetti italiani - conclude Gallione - vogliono fare in tutto la loro parte per far uscire il paese dalla crisi, ma hanno anche bisogno di nuovi strumenti legislativi innovativi ed azioni conseguenti che consentano una vera concorrenza basata sulla qualità. Se si vuole veramente allontanare il pericolo reale di una disoccupazione di massa occorre una svolta radicale della politica e quindi, tramite una efficace concertazione tra governo, regioni, imprese e professionisti, attivare quelle riforme (molte delle quali a costo zero) fondamentali per il settore".
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Io penso che la sinistra parlamentare ed extra parlamentare dovrebbe prendere coscienza dello stato di disagio dei professionisti ed in particolare degli Architetti maggiormente colpiti da queste crisi e proporre soluzioni adeguate con misure come quelle sopra descritte e mettendone in campo altre di più adeguate per non abbandonare anch'essa al proprio destino una parte rilevante del capitale intellettuale di questo paese, spesso a torto, bistrattato e ignorato dalla sinistra.
venerdì 23 ottobre 2009
Nella Toscano
Commentando una nota di un mio amico su FB sul caso Marrazzo, individuavo nella enormità degli stipendi ai politici la prima fonte di corruzione.
Alla luce di quanto sta emergendo in Italia su fatti che riguardano buona parte dei nostri politici , senza distinzione di colore politico, e non solo loro naturalmente.
Se è vero quello che si legge su La Repubblica di Palermo di oggi si capisce che ormai il degrado morale si è impadronito di buona parte dei cittadini e delle cittadine ed attraversa vari strati sociali da Nord a sud del paese.
La domanda di prestazioni sessuali a pagamento è enorme, come testimonia Francesco personal trainer di 30 che ha iniziato quasi per gioco e si è ritrovato sommerso dalla domanda : donne e uomini, trans e non, la domanda impazza ed i prezzi pure.
Ci sono mogli di politici, oltre che politici, professionisti, imprenditori e perfino Magistrati disposti a pagare cifre iperboliche per una prestazione, questo si legge oggi su La repubblica Sicilia.
A questo punto con quello che sta venendo fuori non possiamo più fare finta di niente: dobbiamo interrogarci veramente su ciò che siamo diventati e cercare di capire se c'è ancora una possibilità di poterci salvare.
Certo bisognerebbe cominciare dalla politica, bisognerebbe, secondo me, cominciare proprio dalla prima fonte di corruzione tagliando gli stipendi fin troppo lauti e mai rispondenti a reali capacità amministrative dei nostri politici, se è vero, come è vero, che l'Italia ha il debito pubblico più elevato rispetto agli altri paese europei, per non parlare di tutto il resto.
Bisognerebbe poi proseguire con gli stipendi dei menager anch'essi enormi e non legati ai risultati ed alle capacità manageriali dei medesimi.
Bisogna insomma cominciare a darci una regolata.
Ma questo lavoro chi lo farà?
Non possiamo certo sperare in questa classe politica, se è vero come è vero che il Ministro Angelino Alfano si è aumentato il proprio stipendio del 15%, mentre tagliava le spese alla giustizia, ai tribunali che molto spesso non hanno i soldi nemmeno per la carta, senza che nessuno abbia avuto niente da obiettare.
Oggi leggo dei mutui miliardari che Marrazzo ha acceso per 25 e 30 anni e la cosa mi fa ancora più sconcertare, come è possibile che un governatore regionale può disporre di così tanto denaro, mentre c'è chi fa i conti con i centesimi, mentre ci sono professionisti che non riescono a farsi pagare il giusto compenso per il proprio lavoro dopo anni e anni che attendono, perchè pare che per loro, o meglio per alcuni di loro, lo stato non ha soldi.
Evidentemente Marrazzo aveva progettato la sua permanenza in politica per la vita, visto i suoi investimenti trentennali!
Allora se per ipotesi i nostri politici sono così organizzati come possiamo fare per cambiare questo stato delle cose prima che sia tutto irrimediabilmente perduto ?
Io credo che c'è la necessità urgente di un profondo cambiamento non solo della classe dirigente, che da solo servirebbe a ben poco, ma il nostro modo di fare, di sentire la politica e la necessaria partecipazione e coinvolgimento della cultura, la grande assente.
Ho osservato il comportamento di alcuni giovani all'interno di S e L , sperando che potessero aiutare al concretizzarsi quel sogno utile di cui parlava Vendola e che in me, come in tanti altri, aveva suscitato tanta speranza, ma ho dovuto fermarmi quando mi sono resa conto che questi pochi giovani si preparano ad emulare le gesta dei nostri, anzi li hanno già messi in atto affossando quel sogno ancora prima di aprire gli occhi.
Un compagno li ha definiti giovani vecchi, perchè giovani non lo sono mai stati, ed io aggiungo: giovani che non sanno guardare negli occhi, giovani dallo sguardo nel vuoto, concentrati solo e soltanto sull'io.
Se questi sono i giovani, se questi non sono casi isolati allora c'è qualcosa di più profondo su cui dobbiamo interrogarci, perchè il futuro che ci aspetta è da incubo.
venerdì 6 novembre 2009

Nella Toscano
La gioventù non è un periodo della vita, è uno stato d'animo;
non è una questione di guance rosee, labbra rosee e ginocchia agili;
è un fatto di volontà, forza di fantasia, vigore di emozioni;
è la freschezza delle sorgenti profonde della vita.
Gioventù significa istintivo dominio del coraggio sulla paura,
del desiderio di avventura sull'amore per gli agi.
E' spesso se ne trova di più in un uomo di 60 anni che in un giovane di 20.
Si invecchia quando si tradiscono i propri ideali.
Quando le antenne riceventi sono abbassate, e il vostro spirito è coperto
dalla neve del cinismo e dal ghiaccio del pessimismo, allora siete vecchi, anche a 20 anni, ma finchè le vostre antenne saranno alzate,
per captare le onde dell'ottimismo,
c'è speranza che possiate morire giovani a 80 anni.
Credo che in questo paese c'è davvero bisogno di una forza politica che metta al centro della sua identità la questione Istituzionale e come dice A, Manzella "di organizzarsi intorno all'idea portante di Costituzione e unità. Intorno all'idea di patria Repubblicana, che sembra eclissarsi con i suoi simboli."
Penso ed auspico che questa forza politica possa e debba essere di Sinistra , un partito nuovo che deve nascere subito con il coraggio e l'ambizione di porre al centro della sua identità la questione Istituzionale, prima che sia troppo tardi.
NELLA TOSCANO
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Sono sotto tiro i simboli e i legamenti che tengono assieme questo paese: la bandiera, la lingua, l´inno, la capitale. Certo, c´è stato anche un gran rifiuto contro questo sfascismo, con voci variegate giunte un po´ da tutte le parti. E alcune, sprezzanti, parlano di «colpi di sole». Ma è più probabile il rischio opposto. Che sia cioè lo sdegno a svanire presto come polverone di mezza estate. Mentre l´offesa simbolica fa, per sua natura, danni irreversibili: e segna ulteriori tratti di un disegno che si precisa. I rifiuti, per essere credibili, dovrebbero perciò legarsi ad un´idea forte della Costituzione: che quei simboli racchiude e riassume come emblemi unificanti di un «programma» politicamente vivo. Ma questa idea forte non trova un partito, un movimento, una forza politica che la faccia propria, come linea generale di azione repubblicana. La ragione è anche di cultura istituzionale. Da tempo, si contrappongono due «costituzionalismi»: entrambi estranei agli interessi attuali degli italiani. Da un lato, il costituzionalismo tecnico dei ragionieri del diritto, con le formule «miglioriste» preparate a freddo, con le rime baciate dei compromessi: il costituzionalismo insomma delle «bicamerali», delle «bozze», delle «appendici» istituzionali ai programmoni elettorali. Dall´altro lato, c´è il costituzionalismo dei retori, impegnati a tramandare come miti la scrittura costituzionale e il suo tempo storico: un costituzionalismo senza Costituzione, dato che quella del 1948 è stata profondamente trasformata dall´Unione europea, dalla legge elettorale, dalla Corte costituzionale. Non trova posto, invece, un costituzionalismo che assuma la Costituzione come programma politico: per l´attuazione dei suoi obiettivi mancati; per il ristabilimento dei suoi equilibri scomposti. È intorno a questa «politicizzazione» della Costituzione che possono coagularsi organizzazione, adesione ideale, persuasiva comunicazione popolare, passioni.
È, d´altronde, la stessa struttura della nostra Costituzione ad essere politicamente programmatica. Ogni suo articolo rivela la consapevolezza di dover far fronte – in un futuro che allora appena cominciava – a storiche fragilità italiane. La frattura Nord-Sud. La sudditanza partitica della pubblica amministrazione. L´ottusità nazionalistica della proiezione estera dell´Italia. La vocazione protezionistica di un capitalismo assistito. La debolezza delle condizioni del lavoro subordinato. E, insieme a questa realistica visione d´avvenire, la Costituzione incorporò l´autocoscienza di una sempre possibile ricaduta nei «vizi biografici nazionali» che avevano condotto, da ultimo, al fascismo. Costruì perciò un ordine di garanzie e di libertà, di autonomie territoriali, di congegni istituzionali di contropotere. Fu, insomma, nell´uno e nell´altro senso, una Costituzione di opposizione. Nei confronti di un passato, da cui tuttavia si recuperarono preziose tradizioni; nei confronti dell´avvenire democratico, che si cautelava con forme e limiti al prepotere elettorale. Materiali, gli uni e gli altri, essenziali per comporre una nuova identità italiana.
L´esperienza di oggi ci mostra, invece, una maggioranza che vive la Costituzione come un impaccio, senza del quale la sua presunta capacità di decisioni non avrebbe ostacoli né ritardi. Sicché è persino naturale che, in questa insofferenza di fondo, trovi agevole ruolo, nel cuore stesso del governo di coalizione, un gruppo che, attaccando i simboli nazionali, mira a sbarazzarsi di fatto della Costituzione: almeno come rappresentazione della superiore unità che quei simboli riassume.
Ma l´esperienza di oggi ci mostra anche una opposizione che, di fronte a questa deriva di logoramento, non si accorge degli spazi amplissimi che gli si aprono per un programma politico di costituzionalismo nazionale.
Certo, protesta. Ma su certi punti si avvertono debolezze.
Come sul federalismo fiscale: dove le deleghe multiple e genericissime possono far saltare ogni ponte tra Regione e Regione, tra città e Regioni, tra Stato e Regioni. O quando si affaccia l´azzardo di una federazione di partiti territoriali: mentre è proprio la drammatica mancanza di partiti capaci di idee nazionali e tenuta istituzionale, a causare la crisi di sistema. O quando si mostra volenterosa indulgenza «tecnica» a progetti di rafforzamento dei poteri del governo: progetti che, con l´attuale legge elettorale e nel collasso delle garanzie, avrebbero il solo sicuro effetto di legittimare prassi oligarchiche antiparlamentari. O come quando qualcuno si affretta a istituire corsi di dialetto, come se si trattasse soltanto di una (peraltro, benemerita) questione culturale.
Non stupisce allora che, ormai da anni, la politica costituzionale la faccia, in solitudine, la Presidenza della Repubblica. La faceva Ciampi con la sua vittoriosa promozione del Tricolore e del canto di Mameli. La fa ora Napolitano: con un potere di persuasione tanto più efficace quanto più animato dal visibile sforzo di ammonire e correggere senza sanzionare, di ottenere adeguamenti evitando conflitti e crisi istituzionali.
Ma può continuare ad addossarsi ad una sola Istituzione, per prestigiosa e autorevole che sia, il compito di respingere continui assalti e sgorbi alla Costituzione? No, non è possibile. Basti solo pensare, per comprenderlo, alla molteplicità degli ultimi atti del capo dello Stato, prima delle ferie. C´è in quegli atti il richiamo al bene civico elementare della certezza di diritto. C´è la denuncia di criticità nelle norme sull´immigrazione e sulle «ronde». C´è l´imposizione di correzioni, a difesa dell´indipendenza della Banca d´Italia e della Corte dei Conti. C´è perfino la richiesta di chiarimenti sull´oscura questione Rai-Sky: per il peso di maggiore sofferenza nella condizione costituzionale dell´informazione pubblica.
Un panorama di per sé inquietante. Da esso si capisce anche però che il vero punto è la necessità di passare dalla Costituzione-garanzia alla Costituzione-programma. E questo non è compito del presidente della Repubblica.
Occorre una forza politica che abbia il coraggio e la cultura necessari per porre al centro della sua identità la questione istituzionale. E per organizzarsi intorno all´idea portante di Costituzione e di unità. Intorno all´idea di patria repubblicana, insomma, che sembra eclissarsi con i suoi simboli.