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venerdì 21 marzo 2014

Com'era bella la politica quando c'era Berlinguer


Esce nelle sale il film firmato Veltroni. Che racconta il leader del Pci scomparso nel 1984. Tra ricordi vivi e valori perduti. Nell’era di Renzi. E di un Pd un po’ smemorato. Una clip in esclusiva per l'Espresso

 Com'era bella la politica 
quando c'era Berlinguer
Giorgio Napolitano che si commuove. La grandezza di Pietro Ingrao. La voce di Toni Servillo. Il Pci in bianco e nero. E soprattutto le parole e la fascinazione di Enrico Berlinguer, l’ultimo grande della sinistra italiana, come disse Sandro Pertini, forse il suo unico vero mito. “Quando c’era Berlinguer” è il docufilm di Walter Veltroni sul segretario più amato del Pci con il ritmo delle testimonianze e il peso dei ricordi, persino un tramonto su una spiaggia sarda con la bandiera rossa, e le onde contro il gozzo celeste di Berlinguer. Nel trentennale della scomparsa, Veltroni non risparmia nulla, tantomeno i sentimenti. E alla fine viene fuori anche il “selfie” impietoso di una generazione, il pugno alzato di Giuliano Ferrara, i baffi di Nando Adornato dietro a una falce e martello, e di quella parte del Paese, (nel ’76 un italiano su tre) che non è riuscita a diventare quello che sperava. Veltroni regista tocca un tasto dolente filmando il memo di un’eredità accantonata con gli occhi di un ragazzo che amava il cinema e Berlinguer. Il fondatore del Pd parla con “l’Espresso” del film, della scommessa di Matteo Renzi e di come si possa ritrovare il senso di una politica perduta.
Una clip in esclusiva per l'Espresso dal film di Walter Veltroni nelle sale dal 27 marzo
Veltroni, quanto c’è di lei in questo docufilm?
«Ci sono i miei due grandi amori, la politica, in particolare Enrico Berlinguer, e il cinema: a 18 anni era quello il mio progetto. La vita mi ha portato a vivere altro, meravigliose giornate. Ma ora queste strade parallele hanno trovato il punto d’incontro. È stato quasi un miracolo, parlarne come un’idea ad Andrea Scrosati, direttore di Sky, e il suo via, subito. Una settimana dopo ero al lavoro».

La politica al tempo di Enrico Berlinguer: com’era?
«Sua figlia Bianca mi ha consegnato una lettera inedita. È una difesa della politica come una delle forme più nobili e alte del vivere: spendersi per gli altri. Da sindaco, da scrittore, da segretario ho sempre cercato di comunicare il valore della politica e della memoria, l’essenzialità del rapporto tra la propria coscienza di oggi e il senso della storia».

Come tanti ragazzi, lei si è innamorato della politica per Berlinguer.
«Quando dissi che non ero mai stato comunista ci fu qualche polemica. Ma il senso era quello che Gaber, Jovanotti, Pasolini raccontano nel film: solo chi non sa la storia non capisce che la grandezza di Berlinguer - e in qualche modo quella delle origini del Pci, da Gramsci in poi - è stata riuscire a costruire un partito nel quale militarono persone che non erano ideologicamente comuniste. Io non ero per la dittatura del proletariato. Non ero per la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Consideravo l’Urss un nemico, ero dalla parte di Kennedy. Eppure stavo nel Pci, un posto, dice Gaber, dove si pensava che si potesse vivere bene solo se anche gli altri potevano farlo. Sostiene Jovanotti che la parola comunista si identifica con Berlinguer, con la sua onestà, il suo rigore. Questo era il Pci che, secondo Napolitano, nonostante questo non è riuscito a reggere al crollo di un mondo di ideologie; ma proprio per questo, per la sua storia originale, ha potuto generare una sinistra che è andata al governo».
Berlinguer era un miscuglio di forza e timidezza.

«Le racconto un episodio inedito. Una sera a casa di Tonino Tatò invitai, insieme a lui, Lucio Dalla e Francesco De Gregori. Una saga della timidezza: Berlinguer timido, io timidissimo anche se camuffato - solo io conosco la sofferenza per riuscire a superarla - e ovviamente ancora più timido al cospetto di Berlinguer, Dalla e De Gregori inevitabilmente intimiditi dalla sua personalità. A un certo punto Berlinguer pose ai due il quesito che tutti avremmo voluto porre da sempre e che nessuno aveva mai avuto il coraggio di formulare: “Scusate, ma voi scrivete prima le parole o la musica?”. Una domanda meravigliosa in cui c’era tutta la sua sincerità».

La sua forza era anche l’autorevolezza, qualità assai rara nei politici di oggi.
«È vero. Ma era anche un altro mondo: Berlinguer andava in televisione tre volte l’anno, non sarebbe stato un tipo da Facebook, né un tipo da Twitter. L’autorevolezza è andata perduta non solo nella politica, ma anche nel giornalismo e tra gli industriali. Siamo diventati una società di fratelli, non di padri: Berlinguer, invece, conquista sul campo il ruolo di padre».

Oggi chi ha tenuto le fila del Paese è stato proprio un padre, Giorgio Napolitano.
«Ha ragione. È un mondo che tende a non avere genitori, ma poi ne ha necessità. Si ha sempre bisogno di un padre, glielo dice chi non l’ha avuto».

Come spiega il fatto che la sinistra non abbia nutrito il mito di Berlinguer tanto che è quasi sconosciuto alle nuove generazioni, come dimostrano le interviste nel film?
«Viviamo in un clima e in una società dell’istante. Il passato non esiste, il futuro fa paura, si consuma il presente, tutto è bulimicamente offerto a grande velocità. Diventa difficile, per una politica in cui i partiti cambiano ogni tre giorni, trovare il filo razionale di legame con la propria storia».

Ma lei è stato un importante dirigente, dunque questa mancanza è anche responsabilità sua…

«Tra le responsabilità che mi posso attribuire questa non c’è. Ho cercato di tenere viva la memoria e di unire, per alcuni in modo ossessivo. Nel film anche la sequenza di Giorgio Almirante che rende omaggio alla salma del segretario ha questo significato. Quando avvisò del suo arrivo ricordo la preoccupazione che suscitò perché sotto Botteghe Oscure c’erano migliaia di persone e non sapevamo quale potesse essere la loro reazione. A un certo punto Giancarlo Pajetta che pure era stato in galera sotto il fascismo, si alzò: “Lo vado ad accogliere io”, disse. E la discussione si chiuse. In questo episodio non c’è solo il segno di quello che suscitava Berlinguer. C’è anche la grandezza di una certa Italia politica».

Come recuperare questa eredità?
«Prendo in prestito la risposta di Gérard Depardieu nella scena del film “Novecento” di Bertolucci. Qualcuno gli chiede: “Chi è il partito?”. E lui: “Sei tu”, e indica i nomi di tutti i contadini. Il recupero deve partire da ciascuno di noi. Ci siamo assuefatti alla rappresentazione della politica come un talk show, una corrente di partito, un modo per arricchirsi. Tutto questo mi preoccupa molto. La velocità della società e della comunicazione rispetto alla lentezza pachidermica dei partiti può portare a una soluzione autoritaria, Putin sta diventando un modello. È vitale avere coraggio del futuro e coscienza del passato».

Matteo Renzi va veloce e mostra coraggio.
«Doti importanti. Anche se per me contano anche profondità, inclusività, senso della storia. Molti tifano contro Renzi come prima hanno tifato contro di me, contro Bersani, contro Prodi. Io tifo per, anche per ragioni sentimentali, visto che molte cose dette oggi somigliano a quello che ho sempre sostenuto. Bisogna che la sinistra si abitui a sostenere positivamente anche chi si trova a governare non avendo avuto un proprio consenso. È più importante che vincano le idee riformiste e democratiche della persona che le fa vincere».

Le lotte fratricide sono il vizio della sinistra post Berlinguer.

«Non mi sono mai piaciuti i colpi sotto la cintura. Maurizio Crozza per cui ho simpatia, ha preso in giro il mio “ma anche”. Eppure Berlinguer prospettò il partito di governo ma anche di lotta, il partito rivoluzionario ma anche conservatore. Il “ma anche” è la vita che non è solo sì e no, ma una costante ricerca della comprensione delle ragioni degli altri. Questo è il senso della laicità. Berlinguer propone il compromesso storico e in contemporanea sconfigge la Dc sul referendum per il divorzio».

Cos’è rimasto di quella politica?
«Il bisogno. Il bisogno di quella carica ideale e morale. Berlinguer ha interrotto i finanziamenti dell’Urss al Pci, ha preso le distanze dai sovietici che hanno cercato di ammazzarlo, ha aperto ai cattolici. Aveva l’intensità strategica di sfidare il proprio mondo. Di certo il sostegno ad Andreotti o l’affermazione che si stava meglio sotto la Nato che nel patto di Varsavia non piaceva alla sua gente. Nel discorso sull’austerità, pronunciò tre parole: “Moralità, sacrificio e ordine”, rendiamoci conto, a parlare era il segretario del Pci. Ripenso a quando ero segretario io, e so quello che dev’essergli costato. Voglio raccontare soprattutto questo nel film».

Cosa?
«Mettere a fuoco il giugno del ’76, quando dopo tre vittorie – divorzio, elezioni regionali e politiche – il Paese è attraversato dall’ondata di speranza che il tappo possa saltare e il Pci andare al governo. Lì si consuma la tragedia umana di Berlinguer, perché anche la Dc aumentò i voti e vinse e così l’Italia rischiava di essere ingovernabile. Berlinguer non si sentì di far precipitare il Paese verso nuove elezioni, con l’inflazione a due cifre. Il suo assillo era evitare uno sbocco autoritario. Così arriva l’appoggio ad Andreotti e tutto cambia. Sei mesi dopo, compagni che erano stati in Fgci incontrandomi mimavano il segno della P 38».

Qual è stato, invece, il momento più delicato dopo le elezioni 2013?
«La mancata elezione del presidente della Repubblica. Da segretario Ds mi ero trovato a gestire la successione di Scalfaro e alla prima votazione abbiamo eletto Carlo Azeglio Ciampi. Non trovare un accordo sul capo dello Stato è stato un momento di sbandamento molto rischioso per la democrazia».

Come vive oggi senza politica?
«Al tempo della scelta mi sono chiesto come sarebbe stato il rapporto tra pieno e vuoto. Ma l’aver coltivato altre passioni, i libri, il cinema, cose sulle quali si faceva anche dell’ironia, non mi ha fatto entrare nel cunicolo nero».

Intanto però ha dato una mano a Renzi.
«Sì, ma da lontano, solo con le idee perché sono le stesse idee in cui credevo prima. Per me la politica, come il potere, è un mezzo, non un fine. Nel 2007, nel punto più alto della mia popolarità, mi sono detto: “Adesso prova a fare il Pd nel quale hai sempre creduto, ma non restare aggrappato alla politica come Francesca Bertini a una tenda se vuoi averne un buon ricordo”. In questo l’esempio di tanti dirigenti del Pci mi è servito».
Quello dei Tortorella, dei Macaluso che ha intervistato nel film?
«Ma anche dei Chiaromonte, degli Occhetto: si sono tutti fatti da parte con serenità».
Davvero la politica non le manca? Il film su Berlinguer direbbe il contrario.
«Non ho rancori, non ho conti da saldare, lo dico sul serio, non per fare il bravo ragazzo. Tengo molto al film, è un inno alla politica, bella, faticosa, profonda, vorrei che commuovesse e facesse pensare. Per il resto, spero il meglio per il Paese per le ragioni, direbbe Napolitano, per le quali ho identificato la mia vita».
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